La guerra per il Nagorno Karabakh tra fatti, regole e narrazione orientata (27 novembre 2020)

Dopo 45 giorni dal 27 settembre 2009 in cui l’Azerbaigian ha attaccato il Nagorno-Karabakh si è arrivati ad un armistizio, favorito dalla Russia, che mette a disposizione circa 2000 soldati e mezzi per garantire il cessate il fuoco tra i due contendenti.

Vorrei sottolineare alcuni elementi che, secondo me, sono piuttosto significativi su sia sul piano dei fatti concreti che del racconto delle narrazioni che possiamo leggere sui quotidiani italiani.

Intanto voglio ricordare che il mio criterio interpretativo delle dinamiche geopolitiche è che queste si muovono all’interno di un quadro di ambiguità e ipocrisia della cosiddetta comunità internazionale; una “comunità internazionale” che in realtà è fatta, di volta in volta, al massimo da 10 stati. Quattro o cinque di questi sono sempre gli stessi e sono i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU con diritto di veto. E’ una “comunità” in realtà soltanto dichiarata nei discorsi ufficiali o negli articoli dei giornali, ma in realtà non è una vera comunità perché è in ostaggio di qualche stato-nazione molto potente oppure di stati-nazione che sono i loro cosiddetti proxy, ovvero nazioni meno potenti che però in certi casi si muovono o  intervengono per inseguire i loro interessi che sono anche in favore degli interessi dello stato più potente che li protegge o di cui sono alleati. Sono comunque tutti stati con una forza militare consistente perché quando si dice potente si intende la forza militare; e hanno anche la potenza economica, perché non si ha abbastanza forza militare se non si ha anche una potenza economica e popolazione. Gli stati piccoli o poco popolati, anche se ricchi, non riescono ad essere abbastanza “potenti” perché la loro forza militare sia risolutiva.

Questi stati infrangono o forzano le regole, o si comportano al di fuori della cosiddetta “legalità internazionale” anche se quasi sempre vi si appellano o rivendicano quella parte delle “regole” che fa loro più comodo. In questo quadro l’atteggiamento diffuso nei confronti delle dinamiche geopolitiche segue la regola dei due pesi e delle due misure, ovverosia “noi” e i nostri alleati siamo nel giusto mentre i “nemici” o gli stati che sono considerati o percepiti come diversi da noi, altro da noi, sbagliano o sono infidi.

Le narrazioni, sia nei discorsi pubblici e ufficiali, le relazioni diplomatiche, le narrazioni dei quotidiani e delle TV evidenziano certi fatti o sottostimano altri fatti all’interno di questo quadro di due pesi e due misure perché tutte queste narrazioni più o meno consapevolmente sono all’interno del proprio discourse politico, ovvero della propria visione di che cosa è giusto e cosa è sbagliato e degli schieramenti in campo.

Se vige la legge del più forte sono molto rari i casi in cui ci sia una reale negoziazione per risolvere un problema geopolitico; le negoziazioni efficaci possono venire generalmente dopo una grave crisi oppure se c’è un cambio di leadership all’interno di uno dei due paesi contendenti oppure se cambiano tutti e due. Per esempio il raggiungimento di un accordo nella ex Iugoslavia nel 1996 c’è stato perché alla fine sono venuti a mancare i mezzi per tutte le parti in causa, sono morti tanti uomini combattenti e sono finiti gli appoggi esterni che venivano dai paesi esterni più potenti.

Chi vince o sta vincendo non è disposto a trattare e quando ha vinto o si sente più forte dell’avversario e quindi prima di negoziare pretende che l’altro faccia qualche dichiarazione oppure che rinunci a qualche cosa. Questo naturalmente non può portare a delle negoziazioni efficaci se resta  questa situazione di squilibrio. Chi perde, prima di andare a negoziare o a negoziare di nuovo, vuole diventare più forte per poter essere in condizioni migliori altrimenti sa che comunque ha perso e quindi non è disposto a perdere ancora di più; e anche qui la negoziazione non porta a buon fine. Questo avviene in genere quando c’è un conflitto militare e quindi alla fine c’è qualcuno che sul terreno ha vinto. Se la pace viene imposta da qualche attore esterno super-potente, la tensione continuerà a covare e prima o poi riscoppierà in uno scontro violento.

C’è poi una caratteristica umana, che si potrebbe controllare volendo, ma l’abitudine storica, invece, è stata da moltissimo tempo questa: chi vince tende a vendicarsi o a prendersi delle soddisfazioni; a più livelli naturalmente. Per esempio nel territorio conquistato si mettono delle nuove istituzioni che comandano favorendo i propri interessi e cercando di escludere gli interessi dei perdenti; e questo può verificarsi sia a livello dei dirigenti che a quello dei semplici funzionari o anche a quello dei soldati che controllano il territorio: ad un checkpoint nel modo di controllare i documenti o andando in giro per la città, entrando in un bar e prendendosi delle libertà, ottenere dei privilegi, o intimidendo gli “altri”.Si fanno sentire i membri dell’altro gruppo in una condizione di inferiorità che può essere manifestata dall’obbligo dell’uso della lingua dei vincitori e la proibizione dell’uso proprio lingua, se ci sono gruppi con linguistici diverse; oppure gli appartenenti al gruppo dominante hanno dei privilegi evidenti, oppure il gruppo perdente subisce delle vessazioni o percepisce di essere in una condizione di inferiorità, eccetera, eccetera.

Nel caso del Nagorno-Karabakh la cosa da sottolineare è che all’interno dell’impero russo armeni e azeri di fatto subivano una condizione di inferiorità nei confronti dei russi e di quelli che parlavano russo e quindi il conflitto tra i due gruppi era limitato a scontri locali che non avevano spazio per esplodere su larga scala. Con la fine dell’Impero russo e la prima guerra mondiale e durante gli anni turbolenti della formazione dell’Unione Sovietica lo scontro nazionalista per avere uno stato-nazione proprio da parte dei due gruppi ha provocato scontri, pogrom e ondate di profughi nei due sensi a seconda di chi in quel momento era più forte o vinceva. Il consolidamento dell’Unione Sovietica e l’imposizione di un ordine politico rigido dall’alto, ancora una volta russo e russofono, ha represso le spinte nazionaliste. Che non sono scomparse, ma sono state coperte dal mantello dell’internazionalismo proletario; in questo quadro la definizione dei confini di Armenia e Azerbaigian fatta negli anni ’20 e poi riconfermata nel 1936, ha creato la base del contenzioso di oggi nell’attribuzione all’Azerbaigian dell’area del Nagorno Karabakh, abitato prevalentemente da armeni.

In effetti il problema di fondo è quello dell’idea dello stato-nazione che viene concepito come uno stato che corrisponda ad una sola “nazione” cioè ad un solo gruppo umano che condivide lingua e abitudini di vita. Nessuno stato al mondo è o è mai stato “puro”.  Ricordo che tra il 1923 e il 1929 nella striscia di terra contesa oggi e identificata nei 7 distretti azeri conquistati dagli armeni nel 1994 c’è stata una entità politica autonoma riconosciuta come curda! Per inseguire la “purezza” dello stato-nazione appartiene all’Azerbaigian un pezzo di territorio, il Nakhichevan, che confina con la Turchia ed è separato dal resto dello stato dall’Armenia, come gli armeni del Nagorno Karabakh sono staccati dall’Armenia dai 7 distretti di cui si è già accennato.

Oggi gli azeri sono in una condizione di maggiore forza militare e la loro operazione militare ha consentito di conquistare terreno; in parte nel sud del Nagorno Karabakh, autoproclamatosi Artsakh, indipendente da 25 anni, e in parte nel territorio azero al confine con l’Iran, a sud, che era stato conquistato militarmente dagli armeni nel 1994.

Si stima che circa 40.000 armeni del Nagorno-Karabakh siano fuggiti dal territorio per andare in Armenia e vivono ospitati da altri o vivono in baracche o si arrangiano come possono,  ma nel 1992-94, quando c’è stata la guerra in cui gli armeni del Nagorno-Karabakh appoggiati dall’esercito della Armenia hanno vinto conquistando 7 distretti che erano abitati in maggioranza da azeri, ebbene si stima che almeno 600.000 persone siano scappate dal conflitto, siano state costrette a scappare o per paura siano scappate spontaneamente;  sono ancora in varie parte dell’Azerbaigian e un certo numero spera di tornare alle proprie case che hanno dovuto lasciare 25 anni fa.

La creazione di profughi, in mancanza di una negoziazione e quando si usa la guerra, è la conseguenza più frequente nelle dinamiche geopolitiche.

Il titolo del quotidiano Domani del 28 settembre, cioè il giorno dopo dell’attacco, è molto significativo e preciso: L’Azerbaigian prova a farla finita coi separatisti armeni. In questo titolo si sottolinea che chi si muove militarmente e cerca di chiudere questo contenzioso in sospeso, di farla finita con gli armeni del Nagorno Karabakh che sono dei separatisti è l’Azerbaigian.  Un Azerbaigian che oggi si sente forte militarmente perché nel corso degli ultimi vent’anni, grazie anche alle entrate petrolifere e alla vendita del gas, a noi per esempio e ai paesi europei, ha migliorato molto, con l’appoggio turco e armi di Israele, le proprie capacità militari; secondo, ha una umiliazione da vendicare, cioè la sconfitta del 1994; terzo, afferma che rivuole quello che è “suo”, e in effetti la cosiddetta legalità internazionale, ovverosia il riconoscimento internazionale dei confini, é dalla parte dell’Azerbaigian (l’ONU e tutti gli stati riconoscono che il Nagorno-Karabakh è una regione che dovrebbe essere autonoma, ma che fa parte dell’Azerbaigian). Infine, essendo tutti e due gli stati membri dell’ONU, questi non riconosce conquiste territoriali tramite l’uso della guerra e quindi gli armeni che nella guerra del 1991-94 hanno conquistato 7 distretti dell’Azerbaigian da questo punto di vista sono fuori dalla cosiddetta legalità internazionale; ben quattro risoluzioni ONU, peraltro mai rispettate dall’Armenia, hanno chiesto nel 1993il ritiro incondizionato dei militari armeni dal territorio azero; nella fattispecie la 822, la 853, la 874 e la 884.

In passato i negoziati sono sempre stati inconcludenti per responsabilità di ambedue, ma naturalmente nel quadro ambiguo di cui si è accennato all’inizio. L’Armenia, avendo conquistato il territorio, era in una posizione di forza e meno disponibile mentre gli azeri erano una condizione di inferiorità e quindi le richieste che si sentivano fare erano per loro inaccettabili. Oggi sono più forti e in effetti militarmente lo hanno dimostrato. Sottolineo che da un punto di vista pratico gli azeri hanno colpito il territorio del Nagorno-Karabakh e dei distretti circostanti e non il territorio della Armenia e quindi formalmente stanno riconquistando un pezzo di territorio che è il loro mentre gli armeni, se vogliono appoggiare il Nagorno Karabakh, devono sparare dei missili da territorio azero che loro hanno conquistato più di 25 anni fa e quindi formalmente si muovono in un territorio che non è loro e non ne avrebbero diritto.

Comunque, oltre ai profughi, come sempre, la guerra ha avuto i soliti effetti collaterali e cioè la morte dei civili sotto i bombardamenti oltre a quella dei combattenti.

I nostri giornali come hanno raccontato questa guerra? Spesso sui giornali si cita, paradossalmente, una frase di Eschilo, il drammaturgo greco di 2500 anni fa che aveva inserito in una sua opera la frase: “in guerra la verità è la prima vittima”. Però quello che si può vedere è che la logica della narrazione è una logica di schieramento e quindi in Occidente tendenzialmente noi siamo da parte degli armeni perché sono cristiani e perché li consideriamo più “europei”, anche se territorialmente sono fuori dall’Europa, per una serie di legami soprattutto culturali e religiosi. E quindi noi inquadriamo questo racconto anche all’interno di una storica iconografia del confronto fra cristiani e musulmani: gli armeni cristiani e gli azeri musulmani rientrano in un quadro di interpretazione che è coerente con un racconto che noi abbiamo utilizzato anche nei nostri libri di testo nelle scuole. E’ un racconto piuttosto tradizionale e quindi la narrazione italiana vi si adegua: siamo più “morbidi” e favorevole agli armeni e la questione della legalità internazionale, che come ho già detto a in realtà a favore dell’Azerbaigian, compare negli articoli soltanto in brevi incisi  nel testo, quindi mescolata alla gran parte dell’articolo che parla anche di altro, oppure in piccoli box con altre informazioni. Come se fosse una notazione non particolarmente importante.

Per confronto voglio ricordare che invece quando c’è stata la crisi ucraina nel 2014 e 2015 e il passaggio della Crimea dall’Ucraina alla Russia nell’arco di 7-8 mesi (e senza scontri a fuoco,  senza morti e con pochi profughi che hanno lasciato la Crimea), ebbene tutto l’Occidente ha insistito sul principio inderogabile dell’integrità territoriale dell’Ucraina, che andava difesa al punto tale che l’Unione Europea da allora ha in atto delle sanzioni economiche nei confronti della Russia. Per il passaggio della Crimea dopo un referendum, abitata al 75% da russofoni e di cultura russa, “regalata” nel 1954 da Krusciov all’Ucraina, cioè dal leader del nemico storico dell’Occidente durante la Guerra Fredda. Stalin viene citato con disapprovazione come causa del problema del Nagorno Karabakh, ma non nello stesso modo viene valutato l’agire del suo successore per la questione della Crimea.

Quindi nel caso dell’Azerbaigian, che è musulmano e appoggiato dalla Turchia e che quindi è considerato “altro” culturalmente, viene sottostimata la perdita di territorio da parte sua e sostanzialmente viene presentato come un qualcosa di negativo, ma che non meriterebbe la guerra.

Le condizioni di inferiorità militare hanno convinto il premier armeno e il comandante militare dei secessionisti del Nagorno Karabakh che la difesa era ormai impossibile e quindi che era meglio mantenere il territorio che ancora si controllava prima di perdere tutto. Il presidente russo Putin ha fatto da mediatore ed è riuscito a far firmare un armistizio con tappe in più fasi di realizzazione, garantito per 5 anni dal dispiegamento di circa 2000 soldati russi (con carri armati e blindati). Un titolo di un nostro quotidiano scriveva “Putin Impone la pace” con un vago senso di coercizione.

Alla fine di novembre i soldati russi sono dispiegati, le fasi del ritiro armeno vengono rispettate e anche la richiesta armena di piccoli ritardi per forza maggiore non crea tensioni. La Turchia ha cercato di inserirsi come attore della trattativa e anche di posizionare suoi militari sul terreno con i russi, ma Putin non lo ha permesso. Allora ha chiesto al parlamento turco di autorizzare l’invio di soldati “per fini umanitari” e ha proposto di allargare ad altri stati la partecipazione alla “stabilizzazione” della situazione. Forse sottintende il Gruppo di Minsk (USA, Francia, Russia) che in precedenza non era riuscito a mediare.

Sul terreno servizi TV di Euronews mostrano una situazione tranquilla, movimenti nei due sensi ai check point del corridoio di Lachin, che è il canale garantito di contatto tra Armenia e Nagorno Karabakh, ancora sotto controllo degli armeni, Profughi armeni intervistati affermano di voler tornare a Stepanakert, capitale del Nagorno.

Ora è il momento delle proposte geopolitiche, ma essendo finita la guerra, le distruzioni, le morti, i profughi, i casi lacrimevoli, i servizi TV e i quotidiani parlano di altro.

Ora che i combattimenti sono fermi è il momento di fare proposte politiche per una soluzione stabile. Proposte che abbiano come perno, secondo lo statuto dell’ONU e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948,  il rispetto dei diritti degli individui ovunque essi si trovino e la protezione delle minoranze.

Sotto il controllo ONU-russo un’ampia autonomia amministrativa degli armeni del Nagorno Karabakh con libertà di uso della lingua, sia pure entro lo stato azero; mantenimento del corridoio garantito di Lachin (sono circa 9 chilometri) tra Armenia e Nagorno Karabakh. Potrebbe essere una via d’uscita che dia tempo ai due gruppi umani di ricominciare a frequentarsi e a smorzare l’odio scatenato dalla propaganda delle due parti. E anche a smorzare il risentimento per i reciproci torti subiti.

Turchia e Russia in Siria: alleati instabili, amici impossibili (4 marzo 2020)

Perché amici impossibili? Tutti i gruppi umani si inventano la propria identità e quando questo processo diventa nazionalismo, cioè rivendicazione politica di un territorio “proprio”, si cercano, si aggiustano, si inventano fatti storici e caratteri culturali che sostengano l’identità nazionale proclamata. Questo processo, costruito nel tempo, ha maggiore o minore effetto a seconda dei caratteri culturali specifici dei gruppi umani (quelli che il geografo francese di fine Ottocento Eliseo Reclus chiamava “genere di vita”) e a seconda delle vicende storiche svoltesi nel o intorno al territorio rivendicato come “proprio”.

Russi e turchi hanno costruito una grande considerazione della propria cosiddetta identità riferita anche al reciproco passato imperiale, ma fino alla prima guerra mondiale si sono fatti la guerra numerose volte per contendersi territori; soprattutto a partire dalla seconda metà del 1600 e nell’intero Settecento nell’area del Mar Nero occidentale (inclusa la Crimea), mentre nell’Ottocento il fulcro dello scontro fu prevalentemente nei Balcani tranne che nella guerra di Crimea del 1854-56, che però fu la conseguenza dei contrasti balcanici. Per questo rimane ancora oggi un sottile sentimento reciproco di “essere nemici” anche se la Russia di Putin e la Turchia di Erdohan negli anni recenti hanno intrecciato relazioni variabili, ma incentrate su una alleanza pragmatica di interessi.

I due leader sono ambedue nazionalisti con aspirazioni di egemonia/controllo e prestigio (internazionale). La Russia con un ruolo più globale grazie alla sua continuità con l’Unione Sovietica dal punto di vista militare (dispone di circa settemila testate nucleari), la Turchia alla ricerca di un ruolo di potenza regionale nelle aree un tempo facenti parte dell’impero ottomano. E con qualche volontà di “recupero” di territori considerati come “rubati” dai trattati di Sévres del 1920 e di Losanna del 1923. Sono ambedue leader pragmatici, spregiudicati, abili nel controllo del potere interno (con repressione degli avversari per vie giudiziarie e incarceramenti in attesa di processo) e nell’uso della narrazione eroico-nazionalista per suscitare il consenso popolare, e infine, e non è secondario, capaci di utilizzare al meglio le contraddizioni tra principi e azioni concrete nella geopolitica internazionale per permettersi azioni di forza limitate, ma utili ai loro fini.

Contraddizioni evidenziate dalle ripetute dichiarazioni ufficiali dei leader mondiali di appoggio a soluzioni negoziate e pacifiche per le crisi geopolitiche, quando nell’evidenza dei fatti tali crisi sono state quasi sempre provocate da azioni di forza, gestite con azioni di forza e con attori che cercano soluzioni vittoriose grazie ad azioni di forza (vedi il caso recente di Haftar e della Libia). Per citare il generale Carlo Jean durante una conferenza all’ISPI di Milano nel 2006: la legalità internazionale la fa il più forte. I forti sono pochi e anche gli opportunisti capaci di sfruttare queste contraddizioni. Ma i danni provocati possono essere molti e soprattutto gli effetti ricadono sui civili, talvolta con numeri rilevanti come pure le sofferenze patite per anni.

E la logica delle valutazioni delle ragioni e dei torti, come pure delle narrazioni mediatiche di ciò che avviene, rimane sempre quella del noi contro loro; “noi” siamo gli occidentali e nostri alleati (in questo caso la Turchia), “loro” sono la Russia che sostiene Bashar al Assad, e l’Iran.

Per Putin il primo esercizio pratico di questa forzatura delle regole può essere identificato con la crisi in Georgia nel 2008 in relazione ai territori secessionisti georgiani dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud protetti dai russi, mentre per Erdohan la crisi siriana è stata l’occasione per mettere in pratica il neo-ottomanesimo di cui alcuni commentatori avevano cominciato a parlare intorno al 2010.

Le cosiddette primavere arabe dell’inizio del 2011 hanno provocato effetti dirompenti dal punto di vista degli assetti istituzionali di molti stati nell’area Mediterranea e del Medio Oriente; con risultasti apparentemente contraddittori, per chi ha voluto interpretarle con la sola visione esterna, “occidentale” e omnicomprensiva, ma in realtà sostanzialmente coerenti con le singole realtà socio-politiche locali per chi ha voluto invece usare un approccio critico, e geografico aggiungo io. Ogni stato va valutato considerando le caratteristiche specifiche, anche sociologiche e territoriali e non solo la “rappresentazione” che si da o che gli viene attribuita.

Senza ripercorrere nel dettaglio la crisi siriana iniziata nei primi mesi del 2011 con manifestazioni pacifiche contro l’impunità dei funzionari del regime di Assad e la corruzione, pesantemente represse (con morti), si può ricordare che nel giro di pochi mesi ci sono state le defezioni di militari che hanno dato vita all’Esercito Siriano Libero (FSA in inglese) che si è opposto con le armi alla repressione. L’occidente si è schierato subito contro Bashar al Assad e la narrazione quasi univoca è stata che “aveva perso la legittimità perché bombardava il proprio popolo”. Ma non basta che qualche leader occidentale lo dica per “delegittimare” un governo in carica.

Erdohan da amico di Assad (hanno fatto le vacanze insieme le due famiglie) è diventato un suo fiero oppositore per il suo rifiuto di usare la sua proposta di mediazione. Attraverso la lunga linea di confine turca (quasi 800 chilometri) hanno cominciato a convergere in Siria combattenti (più o meno jihadisti) e armi, una parte dei quali ha dato poi corpo allo Stato Islamico di Iraq e Siria (Daesh, l’acronimo in arabo) che ha conquistato e gestito dal 2014 al 2019 una buona parte del territorio siriano centro-orientale.

I russi si sono schierati subito dalla parte di Bashar al Assad con la giustificazione che era il governo legittimo e la motivazione pratica di difendere e conservare l’unica base navale militare che hanno nel Mediterraneo, a Tartus in Siria. Mentre noi occidentali abbiamo cominciato a sostenere politicamente e con qualche aiuto discreto i ribelli anti Assad. Salvo poi spaventarci quando questo aiuto ha dato origine inaspettatamente ad una formazione super fondamentalista islamica che è riuscita in poco tempo a conquistare territorio in Siria e Iraq, a mobilitare appoggi e combattenti in tutto il mondo musulmano e anche europeo grazie ad una spregiudicata ed efficace campagna mediatica via internet, fatta di gesti eclatanti, omicidi in diretta, sgozzamenti e attentati sul territorio stesso del “nemico crociato”, come dicevano. Da ricordare che daesh vendeva sottobanco il petrolio iracheno e siriano dei pozzi che controllava tramite una lunga fila di camion cisterna da e per la Turchia e che il rifornimento di armi avveniva prevalentemente attraverso il confine turco visto che tutti gli altri confini erano di stati a loro contrari.

Quindi Turchia e Russia si trovavano e si trovano schierate su fronti opposti. Eppure questo non ha impedito loro di avere relazioni diplomatiche e commerciali altalenanti, ma sostanzialmente buone. La crisi siriana è stata discussa a Sochi, in Russia o ad Astana in Kazachistan, più di una volta tra Russia, Turchia e Iran. L’abbattimento di un aereo da combattimento russo nel nordest della Siria da parte turca ha provocato un congelamento dei commerci e delle relazioni per qualche mese, ma poi la Turchia, membro della NATO, ha deciso di comprare dalla Russia i missili SS400 non curandosi delle proteste degli alleati.

Lo sviluppo della crisi interna alla Turchia della questione curda, con conseguente repressione e coprifuoco imposto nel sudest del paese dal 2015, e del multi-decennale conflitto, anche armato, con il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), partito considerato terrorista anche da USA e dalla UE, ma non da una recente sentenza della Corte di Giustizia europea, questo contrasto, dicevo, si è evidenziato in parallelo con il fatto concreto che i combattenti curdi dei cantoni nel nord e nordest della Siria si sono mostrati i migliori combattenti sul terreno contro daesh; prima nel difendersi (il caso di Kobane nel 2014 ha avuto rilevanza mediatica mondiale) e poi nel contrattaccare e conquistare passo dopo passo, villaggio dopo villaggio tutto il territorio controllato da daesh in Siria. Combattenti così efficaci da meritare l’appoggio aereo degli USA e l’invio discretissimo (e limitato) di soldati statunitensi, francesi e inglesi per dare loro supporto tecnologico-logistico.

I curdi del PYD (Partito dell’unione democratica) siriano hanno attivato due formazioni di combattenti “di difesa popolare”, YPD (misto) e YPJ (solo femminile), e hanno non solo riconquistato terreno, ma sono arrivati fino a liberare Raqqa, una delle due capitali dello stato islamico e a eliminare i gruppi jihadisti fino al confine con l’Iraq. Nel momento in cui liberavano da daesh il territorio siriano i curdi organizzavano la società del Rojava (occidente, in curdo) secondo un modello di municipalismo democratico molto decentrato proposto tra il 2005 e il 2011 dal leader del PKK Abdullah Őcalan, unico prigioniero nel carcere turco di Imrali dal 1999. Questo modello di democrazia, che potremmo definire estrema anche per i nostri criteri occidentali, pur in una situazione di guerra è in funzione progressivamente dal 2015 e ha come riferimenti ideali l’ecologismo, il femminismo e la democrazia diretta (di villaggio e/o di quartiere di città).

Grazie alle vittorie contro daesh i curdi si sono trovati ad amministrare un territorio ben più grande del Rojava, cioè il territorio a prevalenza di abitanti curdi; la loro proposta socio-politica però è stata allargata a tutte le componenti presenti a prescindere dalle appartenenze linguistiche e religiose (arabi, turcomanni, assiri, arabi cristiani e yezidi

[anche se questi ultimi sono curdi, ma di religione yezida]

).

I curdi hanno dichiarato nel 2012 l’Amministrazione autonoma della Siria del nordest, tra il 2016 e il 2017 è stata chiamata Federazione Democratica del Rojava – Siria del Nord, e dal 2017 Federazione Democratica della Siria del Nord,  e hanno dichiarato che non intendono cambiare i confini della Siria per rivendicare un nuovo stato curdo indipendente, ma che sono disposti a trattare con e a riconoscere qualsiasi governo di Damasco che riconosca la loro autonomia amministrativa secondo il loro modello democratico. Per questo nella fasi della lotta contro daesh l’accordo con Damasco è stato che i curdi avrebbero operato ad est dell’Eufrate mentre l’esercito siriano a ovest e che non ci sarebbero stati scontro tra le due parti. Finora lungo l’Eufrate questo accordo è attivo anche dopo la sconfitta di daesh.

Sia l’esercito siriano di Assad, che in qualche occasione i curdi (a Raqqa per esempio), hanno concesso agli irriducibili di daesh e alle loro mogli e figli che se si fossero arresi avrebbero potuto essere trasportati nella provincia di Idlib, ultima roccaforte rimasta dei vari gruppi ribelli contro Assad; gruppi misti, dall’Esercito Siriano Libero ad altri più o meno jihadisti. E oggi, gennaio-febbraio 2020 la concentrazione a Idlib di tutti gli oppositori armati al governo di Bashar al Assad rappresenta il problema geopolitico maggiore perché l’esercito governativo vuole “liberare” almeno una parte delle territorio di Idlib per controllare le due principali arterie della zona che collegano Aleppo a Damasco e Aleppo alla costa del Mediterraneo dove si trova la zona abitata prevalentemente dagli alauiti, il gruppo socio-religioso cui appartiene anche la famiglia Assad e molti personaggi di potere a Damasco.

La Turchia e Erdohan però hanno visto un pericolo nella conquista territoriale curda che lasciava intuire che il Rojava avrebbe unificato i 4 cantoni curdi e avrebbe dato loro il controllo di quasi tutto il confine tra Siria e Turchia. Per questo l’esercito turco è entrato nel 2016 in Siria per impedire il ricongiungimento dei tre cantoni orientali con quello di Afrin, il più occidentale e contornato per due terzi dalla Turchia. Opportunisticamente l’esercito turco ha garantito la sicurezza ai gruppi locali di daesh per poter entrare senza combattere e controllare la zona intorno alla città di Jarabulus. I curdi nell’area sono rimasti attestati a Mambij, a ovest dell’Eufrate, anche grazie alla presenza di soldati statunitensi in loro appoggio contro daesh.

Ma nel gennaio-aprile del 2018 Erdohan ha ordinato una seconda invasione in Siria per la conquista del cantone a maggioranza curda di Afrin; ufficialmente per proteggere la Turchia dal terrorismo dei curdi grazie ad una operazione militare chiamata “ramoscello di ulivo”. La distanza tra realtà fisica e narrazione (simbolica) è sempre più evidente in geopolitica. Visto che il cantone di Afrin, per il rimanente terzo, confina con la provincia di Idlib, i turchi hanno utilizzato milizie jihadiste in appoggio alle proprie truppe lasciando loro mano libera nelle operazioni di occupazione delle città e villaggi. Tali azioni militari hanno provocato una fuga di civili dall’area verso Aleppo e le zone sotto controllo governativo (o verso piccole zone curde) stimata variamente da 100mila a 300mila civili.

Erdohan ha lanciato una terza offensiva militare in Siria nell’ottobre del 2019 contro il Rojava e  in particolare nella parte centrale della lunga linea di confine per realizzare, secondo la versione turca, una fascia di sicurezza profonda 32 chilometri e lunga 120 contro il terrorismo curdo; il nome dell’operazione militare è ironicamente “fonte di pace”. Tale operazione ha potuto realizzarsi grazie al silenzio della NATO, di cui la Turchia è il secondo esercito come consistenza dopo gli USA, e soprattutto perché il presidente Trump ha deciso di ritirare quelle centinaia di soldati statunitensi che avevano appoggiato i curdi contro daesh, ridislocandoli  a protezione dei pozzi di petrolio siriani vicino a Deirezzor; motivo ufficiale: impedire che potessero essere usati da daesh (in realtà già sconfitto e presente solo con cellule nascoste che agiscono tramite attentati).

L’entrata in Siria è stata anche quasi concordata con la Russia perché i soldati russi e l’esercito governativo siriano hanno preso posizione nelle postazioni degli statunitensi e hanno iniziato, i russi, a fare anche pattugliamenti congiunti coi turchi lungo le strade che ricalcano sostanzialmente quella distanza di 32 chilometri dal confine da cui i combattenti curdi si sono ritirati senza fare resistenza. Anche questa invasione ha provocato la fuga di una parte dei civili stimata in decine, forse un centinaio di migliaia di civili. E anche qui i turchi si sono avvalsi di jihadisti di Idlib cui hanno lasciato il lavoro sporco cercando di mostrarsi come forza di interposizione a livello di immagine. In realtà continuando a colpire con mortai, cannoni e attacchi aerei villaggi nella zona rimasta curda del Rojava.

Bashar al Assad e i russi hanno preso tempo e non hanno contrastato l’azione turca perché faceva loro gioco l’indebolimento dei curdi; i curdi in difficoltà difensiva sono più deboli nella trattativa con il governo di Damasco. E inoltre sono riusciti senza colpo ferire a riprendere il controllo di aree e punti a ridosso del confine che avevano abbandonato nel 2012. E Bashar al Assad ufficialmente è ancora contrario ad una Siria federale con zone amministrativamente  autonome dal governo centrale come vorrebbero i curdi.

 Ma secondo me Erdohan si aspettava un successo maggiore e cioè il disfacimento dell’esperienza socio-politico del  Rojava con il conseguente confronto armato tra l’esercito governativo, appoggiato dal cielo dai russi, e i combattenti curdi. Questo non è successo, il Rojava rimane in piedi (controlla circa un  quarto del territorio siriano), anche se parzialmente mutilato; e l’esercito di Assad ha invece puntato a recuperare il controllo della provincia di Idlib a occidente, ormai ultima roccaforte della vera resistenza armata contro di lui.

E’ paradossale che un accordo per un cessate il fuoco nei margini della provincia di Idlib (sottoscritto nel settembre 2018) sia stato concordato tra i turchi che sono presenti illegalmente in Siria, i russi che anche se appoggiano il governo sono forze straniere e gli iraniani, anch’essi stranieri, ma presenti con milizie da loro armate e sostenute in appoggio ad Assad. Insomma nella crisi ufficialmente “interna” della Siria tra un governo e i suoi oppositori gli attori esterni hanno giocato il ruolo militare più rilevante agendo dentro il territorio siriano: russi e iraniani con il governo, Turchia, USA, Francia, UK contro; per non parlare di Israele che è accreditato di almeno 200 bombardamenti mirati in Siria. E poi attori con Arabia Saudita, Emirati arabi e Qatar che con i loro soldi hanno sostenuto differenti gruppi armati ribelli (più o meno jihadisti: salafiti i Sauditi e gli Emirati, più vicini ai Fratelli Musulmani il Qatar).

L’azione militare governativa contro la provincia di Idlib ha provocato un’altra fuga di massa di civili. I media dicono 900mila profughi che sono un poco di più dei 700mila già in fuga in aprile 2019, perché è da tempo che l’esercito regolare erode territorialmente la zona di Idlib controllata dalle milizie ribelli stimate dai 40mila ai 60mila combattenti. Piuttosto che verso le zone governative e nonostante l’offerta di passaggi sicuri gli sfollati preferiscono muoversi verso il confine turco dove sono ammassati perché la Turchia li blocca visto che già ospita sul suo territorio un numero incerto di profughi siriani compreso tra i 3 e 4 milioni.

In queste dinamiche c’è sempre la possibilità che un incidente non voluto inneschi una escalation della crisi e del conflitto; in passato il già citato abbattimento di un caccia russo da parte dei turchi, poi di una aereo russo da parte della contraerea siriana per errore e il 27 febbraio scorso un bombardamento governativo ha ucciso 22 (poi diventati 34) soldati turchi presenti in Siria.

Il numero dei morti non consente alla Turchia di trovare una via d’uscita che salvi la faccia; questo ha costretto, a mio parere, Erdohan ad alzare i toni nazionalisti per il pubblico turco, cosa che peraltro fa normalmente, e a cercare una gratificazione e un sostegno internazionale da parte di USA, NATO e Unione Europea, dopo che ha agito per anni senza curarsene, in splendida solitudine e noncuranza di consuetudini, di cosiddette “regole” internazionali e di accordi da lui stesso firmati.

Ma la presenza stabile dei soldati turchi in Siria è indifendibile sul piano dei trattati firmati e degli statuti sia dell’ONU che della NATO e può essere tollerata, per quieto vivere e/o interessi nascosti,  solo se si fa finta di credere che la motivazione turca della lotta al terrorismo sia valida nel caso siriano; accettabile come scusa finché c’era daesh, ora non più. Ciononostante Erdohan ha ricevuto dichiarazioni favorevoli da parte di Trump e della NATO, in parte dalla UE, ma solo come solidarietà e condoglianze, ma non di condanna del governo siriano (e della Russia) che in effetti agisce per riconquistare parte del proprio territorio. Cosa che farebbe qualsiasi stato al mondo; cosa che fa Erdohan nelle zone curde nel sudest della Turchia ed un “diritto” che Erdohan rivendica per il suo recente aiuto armato al governo libico di al Sarraj, in contrasto con le dichiarazioni di embargo dell’ONU. Nel momento in cui la Turchia chiede sostegno e condanne l’ipocrisia dominante nelle relazioni geopolitiche viene messa troppo allo scoperto e tuttora, almeno a parole, non si superano certi limiti. Ma Erdohan, oltre ad essere autoritario e presuntuoso,  si è abituato ad anni di silenzio acquiescente se non di aperto appoggio in qualche occasione e così non demorde; per personaggi del genere perdere la faccia è più grave che subire una sconfitta militare che si può sempre raccontare in modo diverso.

Così ha scelto il ricatto vendicativo nei confronti del soggetto che considera debole e cioè l’Unione Europea, cercando di colpirla nel suo punto più delicato e problematico sul piano interno: quello della pressione migratoria. Ma la UE, pur nella sua debolezza sulla questione migratoria, è forse l’unica organizzazione mondiale che cerca di avvicinare il più possibile le dichiarazioni di principio con la realtà dei fatti; difficilmente potrà gratificare Erdohan con un appoggio incondizionato nonostante il suo ricatto. E anche perché lo stesso Erdohan ha infilato una serie di “sgarbi” geopolitici contro la UE e gli alleati, dall’acquisto di sistemi d’arma russi, al suo recente intervento a gamba tesa in Libia, alle intimidazioni a navi di paesi europei (Italia in primis) nelle aree delle concessioni esplorative dei fondali di Cipro.

Da qualche giorno i corpi turchi impegnati nel controllo delle frontiere e delle coste hanno ricevuto l’ordine di non fermare più i tentativi dei profughi di raggiungere la Grecia. Anzi, si parla di espliciti aiuti e sono certi i pullman gratis messi a disposizione da Istanbul per raggiungere il confine terrestre di Grecia e Bulgaria. Che reagiscono con forza con sbarramenti di filo spinato e gas lacrimogeni, in modo ancora più deciso e talvolta violento di quanto fece la criticata Ungheria di Orban nel 2016-17 e poi la Macedonia, finanziata dalla UE, di cui non è membro, proprio per fare quello stesso sbarramento.

La Grecia chiede l’aiuto europeo e i mass media, italiani in primis, (ri)scoprono che le migliaia di profughi sulle isole greche vivono da anni in condizioni terribili. A Lesbo in un campo pensato per più di 3mila ci vivono in 20mila. E la visita del papa di qualche anno fa non ha cambiato in nulla la situazione. Ma, come si dice: lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

Il paradosso è che questa ondata di profughi non viene da Idlib; gli sfollati sono quasi tutti ammassati in territorio siriano lungo il confine con la Turchia che li fa entrare solo a piccoli contingenti. Ma sui nostri quotidiani (es. la Repubblica del 1 marzo) si mettono carte con frecce evidenti che collegano Idlib ai confini marittimi e terrestri greco-turchi sotto titoloni emotivi relativi all’isola di Lesbo dove muoiono i bambini, che però non sono di Idlib.

Un geografo critico con approccio antropologico nota che gli sfollati, in quanto esseri umani come tutti, scappano nella direzione opposta a dove si combatte. Quindi è inutile che il governo siriano e i russi dicano che garantiscono passaggi “umanitari” sicuri verso le aree governative. La Turchia fisicamente tiene ferma la massa degli sfollati lungo il confine perché intende usarla come arma geopolitica e fare la parte di chi si preoccupa del loro benessere; dopo che lei stessa ha provocato fughe di qualche centinaio di migliaia di sfollati curdi nelle sue operazioni militari. Della sicurezza di questi sfollati non si è preoccupato nessuno anche perché si sono rifugiati nel Rojava o nelle aree controllate dalle milizie curde.

Infine, visto che il governo siriano ha effettivamente ripreso il controllo di circa i due terzi della Siria la cosiddetta comunità internazionale (cioè i soliti pochi stati che contano e che hanno i soldi, compresa l’Unione Europea) potrebbero prendere in parola Erdohan circa le sue preoccupazioni umanitarie e organizzare con lui un corridoio umanitario che da Idlib, attraverso un  breve tratto terrestre in Turchia (si tratta di meno di 50 chilometri),  faccia arrivare gli sfollati sulla costa e poi via terra o anche trasbordarli via nave verso il confine siriano a sud, nella zona di Latakia, da cui gli sfollati potrebbero poi raggiungere zone tranquille in Siria, magari raggiungendo parenti e amici.

Di una cosa sono certo: nessuno dei cosiddetti leader penserà mai questa soluzione pratica, fattibile e coerente con i principi umanitari tanto sbandierati quando fa comodo. Perché le parole del ricatto, delle intimidazioni, dell’ipocrisia sono l’essenza della geopolitica degli stati e dei loro leader.

Erdohan e Putin dovrebbero incontrasi il 5 o 6 marzo in Russia e ancora una volta sono due capi di stato stranieri che si confrontano sulla Siria quando il vero problema ora è che l’esercito regolare dello stato siriano si trova a combattere direttamente con i soldati di un esercito regolare di uno stato confinante che si trovano illegalmente sul suo territorio. I turchi sono militarmente più forti, ma i siriani sono protetti dai russi. Masse di disperati dipendono dalle decisioni di pochissimi; sempre che siano sinceri.

E intanto le prime 10-12 pagine dei nostri quotidiani e il grosso dei servizi TV e dei talk show sono dedicati al Covid 19 (però chiamato sempre Coronavirus) e non si parla più di Libia, di Yemen, di Venezuela, di Corea del Nord, eccetera, come se quelle situazioni fossero risolte.

La crisi in Libia: tra dichiarazioni, supposte regole e legge del più forte (17gen2020)

Nell’ultimo podcast di dicembre dicevo che l’ONU è ostaggio dei 5 membri permanenti con diritto di veto e che la UE è ostaggio dei nazionalismi degli stati che la compongono. Le cose positive da dire sull’ONU è che dà da mangiare a milioni di esseri umani ogni giorno e che la UE la guerra non la vuole fare e propone sempre di negoziare. Il problema è che la geopolitica internazionale è gestita da pochi stati che agiscono o militarmente o in contrasto coi trattati, che pure hanno firmato, oppure al di fuori delle regole e delle convenzioni che interpretano a loro esclusivo vantaggio. Inoltre anche i caratteri delle personalità di alcuni leader hanno il loro peso.

I fatti recentissimi in Libia e nel confronto Trump-Iran sono stati le migliori prove a sostegno della mia tesi.

Per tranquillizzarvi affermo che nonostante i titoli dei quotidiani e i servizi TV non siamo alle soglie della terza guerra mondiale. E’ economicamente e elettoralmente più conveniente compiere piccole azioni di guerra, sempre ufficialmente in nome della pace, o sostenere attori locali che combattano per “noi”, magari contro “i terroristi” (che sono sempre gli altri). E come al solito un grave evento imprevisto (come l’abbattimento dell’aereo civile ucraino perché il sacro fuoco della vendetta acceca animi e occhi) farà calmare per un poco le acque. Si spera.

La legalità internazionale la fa il più forte o il governo che vuole rischiare nel forzare o interpretare le consuetudini facendo atti di forza e mettendo gli altri stati, cioè i pochi che contano in grado di muoversi, nella condizione di decidere se vale la pena agire con minacce o con azioni militari oppure limitarsi alle dichiarazioni retoriche (a volte non ci sono nemmeno quelle come nel caso della NATO sempre in silenzio contro la Turchia per le tre invasioni della Siria, nel 2016, 2018 e 2019).

Per essere onesti i leader che contano dovrebbero dire che in Libia il generale Haftar è la figura politica più coerente con il dichiarato principio di “stabilità” della cosiddetta comunità internazionale (cioè sempre i pochi stati che contano): meglio un leader “forte” che duri nel tempo (per i contratti economici e per il controllo dei migranti) che non sarebbe diverso da al Sisi in Egitto, dai monarchi del Golfo Persico, dallo stesso Erdohan, se quest’ultimo non fosse sempre più preso dalla presunzione rivendicativa neo-ottomana che crea qualche problema di immagine e nei fatti alle democrazie occidentali sue alleate.

Regimi autoritari come alcune monarchie del Golfo Persico, la Russia, l’Egitto appoggiano Haftar; con l’ambigua posizione della Francia che comunque ha riconosciuto geo-politicamente la leadership di Haftar (oltre a dargli discretamente qualche supporto concreto), e gli USA di Trump che non prendono posizione, ma il cui presidente telefona ad Haftar, anche perché va ricordato che il generale è diventato una ventina di anni fa un cittadino statunitense.

L’Unione Europea, nelle sue figure istituzionali e coerentemente l’Italia, rimane nei limiti formali delle dichiarazioni dell’ONU: cioè riconoscimento del governo di unità nazionale guidato da al Sarraj, divieto di fornire armi ai contendenti, cessate il fuoco e colloqui per una soluzione politica negoziata.

Banalmente lo stato di fatto è che alcuni membri dell’ONU non rispettano tali regole, anzi agiscono apertamente contro le dichiarazioni dell’ONU (che usano opportunisticamente se gli fa comodo come l’Egitto che protesta quando la Turchia agisce a favore di Tripoli quando loro lo fanno a favore di Haftar!). Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, unico organo abilitato ad intervenire, nemmeno si riunisce perché USA, Russia (e Francia) bloccano perfino la discussione del tema Libia.

In questo contesto la situazione al momento vede le forze del generale Haftar che, dall’offensiva lanciata nell’aprile del 2019, ha circa 4/5 della Libia sotto il suo controllo; anche se molte zone sono desertiche o poco abitate le sue forze sono le uniche che possono intervenire velocemente ed essere più consistenti di chi resiste. Il che vuol dire che controlla la gran parte dei pozzi petroliferi e di gas, che continuano a produrre fonti energetiche (con un ruolo importante dell’ENI italiana), che vengono regolarmente vendute dalla NOC, l’ente di stato con sede a Tripoli a cui unicamente si riconosce il diritto di vendere e incassare i soldi i quali ….. venivano passati anche ad Haftar e a pagare pensioni e stipendi della Cirenaica che è la sua base; almeno fino ad aprile 2019 quando è iniziato l’attacco del generale a Tripoli.

Questa è la questione di fondo: navi “internazionali” bloccano e rimandano indietro le petroliere che hanno provato a rifornirsi da Haftar pagando direttamente a lui. Si tratta di una guerra per la spartizione dei soldi del petrolio e gas che per la Libia, poco abitata, sono tanti. Finché non si vede scritto in eventuali accordi quanti soldi andranno alla Cirenaica e che ruolo istituzionale può avere Haftar nella futura Libia, non c’è speranza che siano firmati oppure che, anche se sottoscritti, durino nel tempo. I “nostri” interessi (cioè quelli dell’ENI”) si trovano prevalentemente nella Tripolitania (nell’ovest del paese), dove si trova anche il gasdotto che porta direttamente in Italia il gas libico; e siccome i gasdotti non si possono muovere la Libia può esportare gas solo verso o attraverso l’Italia. A meno che la Libia decida di iniziare a congelare il gas e a venderlo tramite navi, ma ci vogliono investimenti e tranquillità politica per farlo.

Haftar assedia Tripoli e le città o le zone delle milizie locali che appoggiano al Sarraj; soprattutto le milizie di Misurata, le più forti, e quelle di Zintan. In dicembre sembra che le forze del generale siano riuscite ad essere più efficaci grazie anche all’aiuto dei mercenari russi di una compagnia privata, la Wagner. Vedete? Formalmente la Russia può dichiararsi a favore dei negoziati e del cessate il fuoco, perché dice che i mercenari sono altra cosa e la Russia non c’entra. A questo punto il presidente turco Erdohan fa approvare dalla maggioranza volontariamente asservita del parlamento turco (dopo che ha incarcerato molti deputati dell’opposizione) l’invio di armi, milizie (quelle siriane [e jihadiste] di Idlib in Siria, che sono sotto attacco di Assad e dei russi) e militari turchi, definiti “istruttori”. Contro le dichiarazioni dell’ONU,  contro lo statuto della NATO, e in cambio di un accordo con Sarraj sullo sfruttamento dei fondali del Mediterraneo che esclude gli interessi legali riconosciuti di Cipro e della Grecia.

Il paradosso è che al Sarraj è sostenuto da milizie musulmane idealmente vicine ai Fratelli Musulmani, che Haftar definisce terroristi islamici, dalla Turchia musulmana e dal Qatar emirato musulmano del Golfo Persico, mentre il generale è sostenuto dall’Egitto musulmano, dagli Emirati e dall’Arabia Saudita musulmani oltre che indirettamente e discretamente dalla Russia (cristiana ortodossa e anche atea), oltre che ancor più discretamente da USA e Francia che storicamente si sono proposti e ancora pretendono di essere i migliori esempi di separazione tra stato e religione in politica. E la recente dichiarata conquista della città di Sirte sembra sia dovuta al cambio di schieramento della Brigata 604 che ha consentito ad Haftar di avanzare; Roberto Bongiorni sul Sole24 ore del 10 gennaio ricorda che la Brigata 604 ha miliziani salafiti, più rigidi nell’interpretazione dell’islam rispetto ai Fratelli Musulmani (appoggiati dalla milizia di Misurata) e che quindi Haftar dovrebbe considerare ancor più “terroristi islamici” degli altri. Ma Haftar già usa alcune milizie salafite tra le sue truppe.

Visto che Tripoli non gli dà i petrodollari come fa Haftar a combattere? Russia, Egitto (e un po’ la Cina come semplice venditore per esempio di droni, come vende i gommoni ai trafficanti di migranti) ci mettono le armi e Arabia Saudita e Emirati ci mettono i soldi. La Francia qualche supporto tecnologico sofisticato. Dalla parte di Tripoli la Turchia ci mette le armi e il Qatar i soldi.

Così ora la Libia è divisa in due parti, anche tre se consideriamo che i territori del sud sono in realtà controllati dalle milizie tuareg a sud-ovest e dalle tribù localmente nomadi a sud-est che decidono di allearsi con il maggior offerente di vantaggi economici. Dal mio punto di vista la gabbia mentale geopolitica della cosiddetta “integrità territoriale” crea sempre più danni e ricadute negative soprattutto sulla popolazione civile; in questo caso è l‘idea che la Libia debba o possa essere solo “una” per essere stabile e pacifica,  non tenendo conto, come al solito, della storia, della geografia, dei gruppi umani che vivono in quello specifico territorio. Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, rispettivamente autonome che si dividono la torta della rendita petrolifera potrebbero essere più disposte a cooperare in una Libia federale o, meglio ancora, confederale.

USA-Iran e divisioni tra stati musulmani, tra fatti e narrazioni (17gen2020)

In Libia il paradosso è che il conflitto interno ad un paese musulmano è un conflitto con attori sostenuti da forze esterne, molte delle quali musulmane, ma divise tra loro in campi opposti. Questo in netto contrasto con l’immagine ancora diffusa a livello di percezione popolare in Occidente di un islam monolitico che agisce in modo compatto. Il sistema mediatico non può più rappresentare il pericolo musulmano come unitario e anti-Occidentale come ha fatto per anni dopo l’attacco alle Torri Gemelle a New York nel 2001 e dopo gli attentati terroristici in Europa.

In realtà è in atto già da qualche decennio uno scontro interno al mondo musulmano che ha a che fare proprio con la questione del rapporto tra politica (e società) e religione. Il complesso rapporto con la cosiddetta modernità ha voluto dire per il mondo musulmano, nel suo complesso e nelle sue molto differenziate sfaccettature, come risolvere istituzionalmente, giuridicamente e nelle pratiche sociali il rapporto tra la politica e una religione che fa riferimento ad un dio unico e quindi ad un’unica pretesa verità. Verità che è stata sempre interpretata dagli esseri umani, quasi sempre maschi, e in contesti storici che necessariamente cambiano nel tempo.

I tre principali soggetti geopolitici di questa dinamica, va sottolineato moderna, nel mondo musulmano sono 1) l’Arabia Saudita (appoggiata dalle altre piccole monarchie del Golfo, anche se non tutte) e la sua interpretazione dell’islam (anche politico) secondo il conservatorismo wahhabita e le tradizioni beduine, 2) la proposta “moderna” dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, nata in Egitto e quindi post coloniale e in rapporto con lo stato moderno; in una prima fase violenta contro le élite corrotte e filo occidentali, oggi più disposti verso le elezioni nei paesi musulmani dove sanno di poter vincere 3) la visione teocratica iraniana di Khomeini che dopo l’estromissione dello scià Reza Pahlevi nel febbraio 1979 ha teorizzato e realizzato con mezzi brutali un islam sciita che abbandona il tradizionale distacco dalla politica e si attiva invece come modello di stato islamico, non a caso repubblicano e non monarchico-beduino. A titolo di esempio: in Arabia Saudita le donne sono escluse dalla soggettività politica e sociale pubblica, mentre in Iran si vota senza discriminazioni di genere dai 16 anni e hanno anche ruoli politici pur se tutte devono obbligatoriamente coprirsi in pubblico.

Nelle dinamiche geopolitiche Arabia Saudita, Emirati, vari leader militari (anche arrivati al potere con colpi di stato) sono alleati validi per l’Occidente se hanno un potere interno stabile, se fanno affari con noi e costruiscono grattacieli (ciò che chiamiamo “essere aperti alla modernità”), se sono affidabili (cioè non cambiano bandiera e restano stabilmente nostri alleati); durante la Guerra Fredda con l’URSS portare dalla propria parte gli stati che man mano diventavano indipendenti era uno degli sforzi principali nella geopolitica. Oggi la preoccupazione rimane la stessa e gli stati che si propongono con una visione indipendente (non importa quale sia e quanto sia credibile) sono “instabili” e tendenzialmente nemici. Di volta in volta e in generale lo sono stati (e alcuni ancora lo sono) la Libia di Gheddafi, la Corea del Nord, il Venezuela di Chavez e poi di Maduro, l’Afghanistan dei talebani, l’Iran di Khomeini, per fare qualche esempio.

Il caso Iran ha però avuto un risalto particolare perché la sua proposta politica è entrata in rotta di collisione diretta con l’Arabia Saudita rinfocolando la primaria divisione tra sunniti e sciiti che ha spaccato da quasi subito la comunità musulmana dopo la morte di Maometto proprio sulla questione di chi fosse il più adatto a “guidare i credenti”: chi era del sangue del profeta (cioè Ali e quindi quelli dalla sua parte: scia Ali, gli sciiti) o chi era scelto dal consenso della comunità come da tradizione e costume (la sunna)? Questione complicata modernamente dal fatto che la proposta iraniana si appoggia su istituzioni repubblicane mentre i custodi dei luoghi sacri e i suoi vicini mantengono strutture monarchiche assolutiste.

Per logiche di schieramento geopolitico, di convenienza economica e di visione del mondo l’Iran, diventata una repubblica teocratica in pochi anni, non poteva che essere “nemico” dell’Occidente. Così nemico che abbiamo appoggiato Saddam Hussein che gli ha fatto la guerra per 8 anni dal 1980 al 1988 senza riuscire a sconfiggerlo; un Saddam Hussein diventato a sua volta nemico pubblico numero uno per sua protervia e per motivazioni false e pretestuose dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York nel 2001 in cui non centrava niente.

Per l’Iran gli USA sono diventati il satana mondiale, responsabile di tutti i mali del mondo soprattutto nel Medio Oriente grazie anche ai suoi protetti Israele e Arabia Saudita; per gli USA l’Iran è diventato la fonte di pericolo costante per tutto il Medio Oriente, sobillatore di rivolte e finanziatore di atti terroristici. Dal sequestro dei diplomatici statunitensi a Teheran (per il quale gli USA non smetteranno mai di volersi vendicare) e dalla guerra di Saddam Hussein (per la quale l’Iran non perdonerà mai gli USA) il confronto-scontro è continuato con azioni di guerra limitate, attentati, minacce reciproche, attacchi digitali e qualche raro caso di negoziazione; con effetti collaterali indesiderati (così li chiamano), come l’abbattimento di un aereo di linea iraniano da parte di una nave militare USA nel Golfo Persico il 3 luglio 1988: 290 vittime civili.

La questione del nucleare iraniano (solo civile dicono loro, per farsi le bombe dicono gli USA e Israele) è diventata la cornice (ideologica e fattuale) di questo scontro e della narrazione prevalente dei mass media mondiali. In suo nome prima dell’accordo sul nucleare del 2015 le sanzioni economiche decise dal’ONU hanno colpito la rendita petrolifera iraniana; dopo l’accordo l’Iran si aspettava un alleggerimento delle sanzioni fino alla loro scomparsa, ma Trump si é ritirato dall’accordo e ha aumentato le sanzioni, operando lo stesso tipo di ricatto che ho descritto nel mio precedente  podcast: chi fa affari con l’Iran (o compra il suo petrolio) non commercerà più con gli USA. La UE ha cercato di trovare una via d’uscita (anche perché non ha rinnegato l’accordo con l’Iran), ma il ricatto economico della più ricca economia mondiale divide gli stati “sovrani” della UE che puntano solo ai propri cosiddetti interessi nazionali. La situazione economica interna dell’Iran peggiora sempre più e gli USA di Trump sperano con questo che il regime degli ayatollah crolli.

L’uccisione mirata in Iraq da parte degli USA del generale Soleimani ritenuto, per prestigio e ruolo, secondo solo alla Guida Suprema Khamenei è stato in questo senso in continuità con lo scontro in atto, anche se di livello molto alto; più in relazione con la personalità egocentrica di Trump che per una valutazione razionale della sua utilità. Una uccisione presentata dall’ambasciatrice statunitense all’ONU in una lettera al Consiglio di Sicurezza come “un atto di auto-difesa”, così riporta Riccardo Barlaan sul Sole24ore del 10 gennaio. Un’autodifesa fatta a migliaia di chilometri di distanza dal proprio territorio, in un paese terzo senza nemmeno avvisarlo; una soggettiva interpretazione del cosiddetto diritto internazionale, fatta dal paese militarmente più forte del mondo.

Morto un capo ce n’è pronto subito un altro, probabilmente di minor qualità di Soleimani. E paradossalmente mentre la ritorsione iraniana è stata più morbida di quanto ci si potesse aspettare dopo le grandi manifestazioni di massa di cordoglio in Iran per i funerali di Soleimani, cinicamente si deve dire che l’abbattimento per errore di un aereo di linea iraniano da parte della propria contraerea (che si aspettava la contro-ritorsione USA) è stato un elemento calmierante del conflitto anche perché ha rinvigorito una opposizione interna al regime che già ha manifestato più volte in passato pur subendo pesanti repressioni.

Per concludere la situazione conflittuale dei casi dell’Iran e della Libia non è cambiata in modo significativo anche se alcuni eventi alzano il livello dello scontro (soprattutto emotivo e mediatico) e aumentano la conseguente possibilità che non si riesca a controllare la situazione o che le dinamiche non si auto-riequilibrino come spesso fanno.

I pochi attori in gioco rimangono gli stessi con le stesse caratteristiche. Fattori nuovi possono venire solo da nuovi approcci geopolitici di cui però non si vede traccia nei leader attuali, da eventi imprevedibili che danno una scossa alle dinamiche e magari da qualche mossa di Trump che vuole essere rieletto presidente a novembre, è sotto impeachment, e quindi ha bisogno di gesti simbolici, fatti e dichiarazioni che sostengano la sua immagine di leader forte e vincente che piace tanto ad una bella fetta di elettori bianchi statunitensi (maschi e femmine) convinti che gli USA abbiano un “destino manifesto” (voluto da dio) di guidare il mondo.

In tutto questo sanzioni economiche per violazione dei diritti umani, troppe condanne a morte, repressione e incarceramento di gruppi etnici, crimini ambientali, ecc. non sono mai utilizzate.

I limiti fisici e culturali nel Medio Oriente e di Daesh (gennaio 2019)

I limiti fisici e culturali nel Medio Oriente e del cosiddetto Califfato

Fabrizio Eva, 31 gennaio 2019

Le dinamiche geopolitiche contemporanee vanno sempre lette nel contesto territoriale e culturale più ampio rispetto alle zone dove effettivamente si stanno verificando i fatti. Ed è necessario anche cercare di individuare quali fattori vengono dal passato e da quanto lontano. Questo è il tipo di approccio del geografo politico, che parte dall’oggi, pratica la comparazione e risale al passato di alcuni fattori per verificare quanto sia lunga la loro durata.

Nel caso delle dinamiche del Medio Oriente, nel caso specifico il territorio della Mesopotamia storica, i fattori principali da considerare sono sostanzialmente tre: 1) la specificità delle strutture socio-culturali presenti, 2) le fasi storiche che si sono succedute e il cambio di “visioni” che hanno comportato, 3) gli effetti del colonialismo prima e dopo la formazione degli stati-nazione “guidata” da inglesi e francesi.

Oggi la situazione va vista anche all’interno delle grandi dinamiche geopolitiche globali che sono orientate dal gioco delle grandi potenze (i cinque membri permanenti con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza ONU) e dalle potenze regionali che cercano uno “spazio” localmente: Arabia Saudita, Iran, Turchia. Fa parte del quadro complessivo anche la situazione di neocolonialismo economico centrato sulla necessità di controllo della produzione energetica (petrolio e gas) così necessaria al nostro stile di vita e che orienta, se non determina, le nostre alleanze geopolitiche, a favore di Egitto (nonostante il colpo di stato) e Arabia Saudita, che interpreta l’islam in modo più rigido dell’Iran.

Per quanto riguarda la specificità delle strutture socio-culturali presenti dobbiamo sottolineare che ci sono diversi islam (divisione sciiti e sunniti), ma anche diversi modi di vivere e praticare la religione nei diversi stati. La ormai pluridecennale divisione confinaria ha innescato la formazione di pratiche e visioni “nazionali” circa il rapporto tra politica e religione. In Libano, in Giordania o in Egitto sarebbe inaccettabile un controllo “visivo” e spaziale sulle donne come in Arabia Saudita.

Le fasi storiche che si sono succedute in Mesopotamia sono sostanzialmente 4: l’impero ottomano fino alla prima guerra mondiale, 2) i mandati inglese e francese tra le due guerre, 3) il periodo della presa del potere dei militari “modernisti” e laici poco dopo la seconda guerra mondiale, 4) la riproposizione dell’islam come proposta politica di gestione dello stato dal 1980 (circa) in poi.

Sotto l’impero ottomano i poteri e i nobili locali avevano un discreto margine d’azione purché riconoscessero l’autorità del sultano, dei turchi e pagassero le tasse. Questo non ha impedito lo scoppio ripetuto di rivolte dovute ai contrasti (anche storici) tra i diversi gruppi locali e/o per protesta per le condizioni di inefficiente dominio dell’impero. In questo contesto i curdi periodicamente sono riusciti a ritagliarsi degli spazi di autonomia.

Durante i mandati inglese e francese vennero formati gli stati nazionali dell’intera area, ma sotto controllo di tipo coloniale, con istituzioni (regni con gli inglesi e repubbliche con i francesi) e soprattutto confini definiti dalle potenze mandatarie. I confini decisi dall’alto sono una delle cause della conflittualità odierna tra gruppi umani perché costretti entro uno stesso stato o divisi da linee di separazione subite. Da segnalare il periodo tra il Trattato di Sevres (1920) e il Trattato di Losanna (1923) perché la Turchia da soggetto inesistente, con conseguente spartizione del suo territorio tra protettorati (di Inghilterra, Francia, Grecia e Italia) e promesse di futuri stati indipendenti (Armenia e Kurdistan) diventa (dopo aver sconfitto militarmente i greci) uno stato-nazione riconosciuto con i confini vicini a quelli attuali a spese di greci (espulsi) e armeni e curdi che non ottengono il loro stato. Kemal Atatürk con la sua scelta di laicismo modernista e nazionalista turco diventa il più affidabile nell’area per le potenze mandatarie (Regno Unito e Francia).

Dopo la seconda guerra mondiale la progressiva fine del controllo inglese e francese su stati corrotti e inefficienti ha stimolato la diffusione di colpi di stato militari (da Nasser nel 1952 a Gheddafi nel 1969) che avevano l’obiettivo dichiarato di raggiungere una reale indipendenza e di modernizzare i propri stati. Forte ruolo politico dei militari e partito unico, oltre all’incarceramento degli oppositori, “rivoluzione modernista” e tecnocratica (inizialmente) laica sono stati tra gli strumenti principali di tale processo.

Dopo la crisi petrolifera degli anni ’70 e l’inizio del processo di globalizzazione gli stati erano comunque ancora autoritari, clientelari e inefficaci nel distribuire la ricchezza interna in modo più equo; l’insoddisfazione e la protesta sono state raccolte da movimenti di base come le antiche confraternite e relativamente nuovi soggetti tra cui i Fratelli Musulmani che erano da tempo i più presenti e conosciuti. I leader autoritari, in ogni caso appoggiati dall’Occidente o dalla Russia perché mantenevano la “stabilità”, con la loro repressione non sono riusciti comunque a ridurre il consenso ai movimenti sociali islamici, ma hanno favorito anche la crescita di gruppi che non vedevano altra via dell’azione violenta per il cambiamento e per l’affermazione dell’islam come pratica politica istituzionale.

L’appoggio a gruppi combattenti religiosi contro i russi in Afghanistan (da cui è nato Bin Laden e poi al Qaeda), l’intervento militare sempre in Afghanistan e poi lo sconsiderato intervento contro l’Iraq di Saddam Hussein dopo averlo sostenuto con armi e soldi nella guerra contro l’Iran, la ripetizione dell’errore con il sostegno ad alcuni gruppi ribelli in Siria hanno provocato la proliferazione dei gruppi violenti cosiddetti salafiti e la crescita del ruolo di alcuni attori locali quali Turchia e Qatar (a sostegno dei Fratelli Musulmani) e dell’Arabia Saudita (a sostegno dei salafiti). L’esperienza del presidente Morsi in Egitto ha evidenziato la disponibilità della Fratellanza a partecipare alle elezioni (anche perché tendenzialmente le vince) oltre alla incapacità di gestire uno stato; passare da gruppo represso politicamente e auto-organizzato socialmente alla base alla gestione efficace di uno stato necessità tempo per imparare. Lo slogan “l’islam è la risposta” ossessivamente dichiarato “prima”, alla prova dei fatti ha mostrato tutta la sua genericità e l’incapacità dei suoi leader.

Una volta innescate e favorite le dinamiche combattenti i leader degli stati che vorrebbero essere egemoni tendono a dimenticare le lezioni passate (come il caso Bin Laden) e che i soggetti combattenti (o qualcuno di essi) cominciano a decidere autonomamente obiettivi, strategie e modalità di comunicazione grazie al fatto che il sistema mediatico mondiale è sempre più sensazionalistico e contribuisce a rafforzare e a ingigantire la forza e l’importanza dei cosiddetti “terroristi”.

L’ISIS-DAESH si inserisce in questo quadro come esito della dinamiche evidenziate. Il suo riferimento  iconografico (cioè ideale-culturale) dichiarato è arabo-sunnita e rimanda agli inizi dell’islam, inteso come periodo della purezza teologica e della pratica religiosa, e non a caso il leader si è autoproclamato califfo con il nome di Abu Bakr, primo califfo alla morte del profeta, suo amico e compagno dalla prima ora. L’interpretazione dell’islam affermata dal cosiddetto califfo è molto semplificata e parziale, ma siccome si rivolge prevalentemente a giovani maschi impreparati sia culturalmente che teologicamente che si muovono per spinte più psicologiche personali che per altro, l’effetto di giustificazione religiosa di ogni nefandezza compiuta funziona con molta efficacia.

Il tipo di soggetti geopolitici a-statali come il califfato, e Boko Haram in Nigeria per esempio, saranno sempre più presenti e difficili da combattere perché la flessibilità/mobilità (molto sui pick-up) sono la loro arma migliore, difficile da contrastare sia da bombardamenti aerei che da un esercito di terra. Per combatterli sul terreno ci vogliono un esercito organizzato o delle milizie determinate, e costanti nell’azione di contenimento e contrattacco; l’appoggio aereo è di grande aiuto, ma non sufficiente da solo a vincere un soggetto flessibile come Daesh.

Dal punto di vista territoriale il califfato è giunto alla sua massima estensione nel 2016; la sua retorica iconografica può trovare terreno fertile in ambito arabo-sunnita, ma l’Iraq e la Siria, che sono la rivendicazione ufficiale territoriale iniziale, non sono “tutti sunniti” e sono circondati da gruppi umani e stati con altre iconografie anche se si tratta sempre di un ambito musulmano. Ma le differenze sia nazionali che di “etnicità” sono più forti del richiamo al califfato.

A est c’è l’Iran sciita che si è attivato per combattere Daesh sul terreno e per difendere la sua zona di alleanze presidiata dagli alauiti (minoranza musulmana, mezzi sciiti) guidati dal clan Assad; e anche per avvicinarsi ad Israele nel “gioco” delle reciproche minacce.0

A est e nord-est ci sono i curdi sunniti, ma che lottano per avere un loro stato o l’autonomia da decenni (contro i quattro stati in cui sono stati divisi nel 1923), e che grazie alla guerra civile in Siria, combattendo molto efficacemente contro Daesh, sono riusciti non solo a liberare il proprio territorio, ma anche a occuparne e gestirne quasi il doppio. Dal confine con la Turchia a nord al fiume Eufrate a sud-ovest (perfino oltre il fiume in alcuni punti), nel Rojava (occidente, in curdo) hanno messo in pratica la proposta politica di Őcalan (dal 2011) del Confederalismo Democratico; sono l’unico gruppo in tutto il Medio Oriente (fino al Pakistan) che fa una proposta politico-istituzionale laica e “modernista” più ancora “esagerata” della Confederazione svizzera.

A nord c’è la Turchia, sunnita (ma con rilevante presenza alevita, una derivazione sciita) ma che si sente diversa e migliore per l’eredità storica dell’impero ottomano, contro cui gli arabi, “traditori”, hanno combattuto in alleanza con gli infedeli inglesi e francesi. Una Turchia gestita in maniera sempre più autoritaria dal leader musulmano sunnita Erdohan che vede come un estremo pericolo politico la realtà del Rojava curdo-arabo; un pericolo democratico che cerca di presentare invece come terrorismo per giustificare l’entrata a due riprese dell’esercito turco nel nord-ovest della Siria. Nel 2016 nella zona di Jarablus e nel 2018 nel cantone curdo di Afrin. Bombarda solo ogni tanto il Rojava perché la presenza di militari statunitensi e francesi (suoi alleati nella NATO) rappresenta un deterrente.

A ovest, oltre al Libano che ha una realtà socio-identitaria articolata e in difficile equilibrio tra musulmani (sciiti e sunniti), cristiani (maroniti e ortodossi) e drusi, c’è Israele che certo è refrattario (come pure i suoi cittadini arabi-israeliani) al richiamo del califfo. Una qualche disponibilità di ascolto potrebbe esserci tra i palestinesi, vista la sistematica strisciante apartheid attuata da Israele nella West Bank e verso il “campo di concentramento” di Gaza, ma la recente cosiddetta “Intifada dei coltelli” si presenta con modalità e parole d’ordine ben diverse da quelle di Abu Bakr al Baghdadi.

Verso sud c’è la Giordania, inizialmente neutrale, ma dopo l’uccisione del suo pilota catturato e propagandisticamente “bruciato” in una gabbia, ha innescato la voglia di vendetta della sua parte tribale-beduina della popolazione. Infine c’è l’Arabia Saudita, che dopo aver finanziato i gruppi salafiti in Siria (tra cui anche Daesh) e aver atteso di vedere gli sviluppi sul terreno dell’offensiva dell’ISIS-Daesh, nel momento in cui al Baghdadi rivendica di essere il califfo si mette in diretta concorrenza, inaccettabile, con chi custodisce i luoghi sacri dell’islam e pretende che l’interpretazione wahhabbita, che sostiene da decenni con soldi, imam e moschee, sia la migliore e l’unica vera.

Territorialmente Daesh è ridotto a poche sacche di irriducibili (o che sono in trappola), pur avendo provocato e potendo provocare ancora danni e soprattutto sofferenze e morti alle persone nelle zone che controlla.

Dove risulta ancora potenzialmente pericoloso sarà nel sollecitare nel mondo islamico e nei paesi occidentali l’azione violenta e eclatante individuale o di piccoli gruppi: le società tecnologiche sono fragili e soprattutto deboli sul piano delle emozioni che sempre di più sono ostaggio di un sistema mediatico che ha fatto della sensazionalità, della paura e della superficialità informativa la cifra prevalente della propria azione e dei propri contenuti. In questo Daesh e chiunque si ponga su questo piano della comunicazione vince o appare più forte di quello che è in realtà. Questo in aggiunta alla tendenza degli stati democratici a diventare sempre più Security States, come sono stati definiti, cioè stati che riducono gli spazi di protagonismo politico dei cittadini al di fuori delle elezioni, aumentano i controlli sulla vita sociale e individuale dei cittadini, legiferano norme restrittive che trasferiscono sempre più poteri esecutivi-operativi agli organi dello stato (in divisa e segreti) riducendo la trasparenza sui modi di agire per ragioni “di sicurezza”.

The study-cases : Ukraine-Crimea, Libya, Syria-Daesh-Kurds. (original text April 2016, part of the article “Always too late. The Iconographies of the so-called international community limiting the tools for solving the geopolitical crisis”, published by the Turkish Journal of Security Studies). Current revision March 2018.

In the case of Ukraine the main change was about the meaning of the borders not their change. When the USSR still existed the “proletarian brotherhood” was a pretended Iconography, false but efficient in making the function of the borders among “brother” countries irrelevant. In fact it was the dominance of the socialist Russian state and the Communist Party  which drove that irrelevance. One of the secondary consequence of that dominance was the spread of Russian-speaking people in all the 15 Socialist Republics. With a special situation of Ukraine, considering its historical legacy and dynamics: Russia considers itself as the heir of the so-called Rus of Kiev; eventually Ukraine was formally joined to the Russian empire since more than three centuries, so that the communist leader Khrushchev was able to “donate” Crimea to Ukraine in order to remind it without any kind of changes in the economic and social dynamics in the interested areas.

But after the collapse of the URSS the Iconography of all the socialist countries changed dramatically and the concepts of sovereignty and territorial integrity took a completely different meaning. And the presence of Russian-speaking people moved from the dominant and sometimes privileged position to the one of a minority, even if sizeable in some case.

This is the specific case of Ukraine, but everywhere in Europe and in the European Union there are similar situations; in the past they were managed sometimes peacefully, sometimes not, but the EU policy was and consists in funding the cross-borders cooperation along almost all the internal borders of the EU states and giving money to the less developed parts of the Union. Even if not all the problems are completely solved the EU way to solve those dynamics is clear: economic cooperation without changing the borders and support local autonomies also trough cross-border cooperation. Why not in Ukraine? Because all the former socialist countries moved from the internationalist iconography to the nationalist one and in the new symbolism and narratives borders, territorial integrity, sovereignty are the pivotal, undisputable points of reference.

So the case of Crimea and the case of Eastern Ukraine (inhabited by a majority of Russian-speaking people) have been managed according to the nationalism/iconography and  not according to cooperation also by Germany (Merkel) and France (Hollande) leaders, who took a (self-elected) negotiating role with Russia and Ukraine. Within this impeding conceptual frame the dynamics of Crimea (fast managed, already Russian military presence in Sevastopol, referendum, annexation to Russia) got a peaceful result while the Eastern Ukraine dynamics (slowly managed, with rolling symbolic declarations by the opposite political leaders,  asymmetric presence of military forces on the ground thus Russian “hidden” help to the secessionist forces) fell in an armed conflict.

The situation (March 2018) still remains stable at a low conflict level (which but provoked about 10.000 victims on both sides and about 2 million of displaced people), despite two agreements signed Minsk 1 and Minsk 2 (September 2016).

Simple solution: dismiss the “territorial integrity” iconography: the human rights must be granted regardless of the juridical status of the territory where the individual is; see the article 2 of the Declarations of the Universal Human Rights.  The annexation of Crimea is acceptable; the “separatist” areas of Luhanks and Donetsk (along the current conflict lines as temporary administrative borders) should be autonomous recognized parts of Ukraine (the juridical structure of the Italian Sud Tirol – Alto Adige province could be a good example for the future status).

 

Libya was a case for a “perfect war” (Eva 2011). Geographically the territory is mainly desert, non so much inhabited, a state established in 1950-51 by a (English) colonial approach, with the two main inhabited areas, Tripolitania and Benghazi, traditionally separated and often in reciprocal opposition and separated also by hundreds of kilometers of an almost arid area, little inhabited only along the strip along the coast, with the gas-oil wells and facilities mainly divided in two parts between East and West. With this socio-geographical structure when the rebellion against Gaddafi aroused in Cyrenaica and the UN Council declared the no-fly zone the more useful and practical way to stop the fights would be to separate the combatant parts and to have for a while two, maybe three Libya: Tripoli (with Gaddafi), Benghazi (guided by Senussi tribes), maybe Fezzan, controlled by Tuareg and Toubu tribes. For giving time to negotiate.

But the ideological discourse of the leaders of the major powers and the narratives of the mass media supporting the “unity” and the “territorial integrity” of the Libyan state drove the local dynamics to a blind support (by France, UK and USA) to all the militias fighting against Gaddafi until his physical elimination. With the result to have now (in 2016) many, many Libyas: the one of the moderate Islamic government in Tripoli in the West, the one of Tobruk in the East recognized by the major powers but without an efficient territorial control of the surrounding areas, then the many local militias (more or less Islamic) in Zintan, Misurata and many others cities, finally the traditional  tribal militias in the Fezzan. The final growing force of the Daesh-affiliated militias signs the concrete failure of the managing of the dynamics by the so-called international community (i.e. the major powers). And now the growing presence of Daesh is the official reason for a announced military intervention  again in Libya. Currently (March 208) the situation changed a lot formally but only a bit geographically: in Tripoli there is an international recognized government which got a unstable agreement with part of the Muslim Brotherhood leaders and militias (Misurata, Zintan, Sabrata and minors), in Benghazi the general Haftar (supported by Russia, Turkey and Egypt) is the main leader and controller of the eastern troubled area. The internal tribes and municipalities were included in the Italian program for ameliorating the border controls towards Niger and Burkina in order to stop/reduce the migration pressure; Italy is offering economic funds for the local communities needs trying to be more attractive than gaining money by the migration flows.

I defined in 2011 the dynamics in Libya a “perfect war” because the geographical conditions were and still are “perfect” for a more useful and practical, even if temporary, partition solution in order to give time for negotiating a political exit. Is it better a partition with less casualties and with peaceful perspectives or an ideological “integrity” difficult to realize on the ground and at the cost of deaths and destructions as it is now the situation in Libya?  Theoretic question: in the spring of 2016 the only iconographic idea for reaching the “stabilization” of Libya (i.e. to try to restore the territorial integrity) is a limited military intervention by the same leading powers of spring 2011; but rumors said that the special forces of France, UK and USA were secretly already in action in Libya and the USA didn’t hesitate at the end of February 2016 to bomb a coastal city in order to kill a Daesh leader: isn’t it a clear violation of the sovereignty and territorial integrity of the state of Libya, a violation of the so-called international legality? This is the usual praxis in the hierarchical, real World Order: interpreting and/or forcing the rules by the powers or by the proxy states.

 

A similar dynamics initially happened in Syria. But the grave mistake was the expectation that the regime of Bashar al Assad could collapse rapidly. A simple socio-geographical analysis would allow to understand the many differences with Libya. There was more than the double of population than in Libya with a different distribution of the internal human groups, sometimes mixed and sometimes not, with different characters according to religion (Sunni, Shiite-Alawites, Christians and Yazides etc.) and language (Arabs and Kurds, some Turks), and a not irrelevant presence of Palestinian refugees. An unbalanced distribution of the population with the majority in the West and mostly of the Kurds in the North and North-East. A common sense of belonging to Syria by the inhabitants depending from the historical legacy of Damascus (capital of some institution since more than 2500 years, says a touristic slogan), Aleppo, Homs, Hama, Bosra, Palmyra and the surrounding areas witnessed by the huge presence of historical or religious sites; and also thanks to the regime for some group like the Christians who felt themselves like the more protected Christian group in the Middle East. Finally the strong link with Russia, one of the main world power, witnessed by the presence of the military and naval base in Tartus.

Instead to do an immediate pressure on the regime for pushing/forcing it to discuss and negotiate with the protesting (more or less spontaneous) political groups, the UN waited  and the major powers in some way secretly supported the rebels. In a different way than in the case of the isolated Libya leader Gaddafi Syria was and still is in the middle of an “hot area” of geopolitical geostrategic interests with many actors: Western countries, Turkey, Israel, Saudi Arabia and the Emirates, Egypt on one side and the Lebanese Hezbollah, Iran on the other side. In addition there are the Kurds claims by now linked with the Iraq internal dynamics after the previous “grave mistake” in managing the post-Saddam-Hussein-defeat situation.

This is not the place where covering the series of facts in Syria since 2011 but it’s possible to underline that also in this case the ideological-iconographic goal to defeat the Assad regime maintaining the territorial integrity and the unity of the state and the external multiple and contrasting “national” interests had as result the current fragmentation of Syria, the terrible conditions of the majority of Syrians (about 7-8 million displaced internally and more than 5 million sheltered abroad). Finally the surge and consolidation of Daesh-IS as a new kind of combatant subject with a mixed combination of iconographic-territorial-psychological message and attraction.

After the Afghanistan and Iraq military interventions the USA and the Western countries don’t want anymore to put “the boots on the ground”, as it is said in the media. So on the ground the best combatant forces are the Kurd Peshmerga in Iraq and the Kurd YPG in Rojava, the Shiites militias of Hezbollah, the Daesh fighters. Each of them with different political and geographical goals: territorial for the Kurds, political for the Shiites, mainly ideological-iconographic for Daesh.

Despite the formal declarations of the self-appointed caliph Abu Bakr al Baghdadi ISIS-ISIL-DAESH, now self-declared Islamic State, was conceptually and geographically  locked in its territorial ambiguity: there were, in my opinion since the beginning,  limited possibilities of local territorial expansion by war and also by the Islamic iconographies. Daesh hadn’t  sufficient forces (in the sense of human beings) for prevail militarily; money can’t buy the victory. Also because on the concrete ground there are surrounding adverse iconographies against the caliphate vision: Turkish people are Sunni, but not along the rigid view of Daesh, Kurds are Sunni but they have more political-territorial claims,  Iran and Iraqi population in the South are Shiites, Saudi Arabia for sure won’t give up with its pretended guiding role of the Sunni Umma being the guardian of the Holy Sites of Mecca and Medina and the main supporters of the Wahhabi Islam and finally Jordan and Israel have nothing good to expect from the caliphate.

So the Islamic State couldn’t hope to have eventually any territory. But it has demonstrated the psycho-physical dimension of a successful brand via barbaric videos and a very smart use of the weak spot of the Western media system: foreign fighters coming from abroad also from Western countries, affiliation of self-declared Islamic groups in Libya, Mali, Nigeria, Somalia etc., bomb-cars and “kamikaze-martyrs”. Thus Daesh can only get an a-territorial (and psychological motivated) individual terrorism as “successful” action (in Europe or elsewhere), but terror doesn’t drive to victory as evidence that  “terrorism  is the continuation of the political desperation with other means” (Graziano, 2014).

Since the direct Russian intervention (September 2015) no-one of the fighters on the ground was able to win and still now no-one could imagine to conquer the entire surface of Syria in order to get “stability” through the “territorial integrity” of a unique state. According to Mearsheimer (2001) that only the presence of the army on the ground grants the control of the territory not by chance the always-too-late current diplomatic action of the major powers and UN tries to get an almost stable ceasefire dealing with the forces concretely on the ground with the exception of al Nusra and Daesh, considered as iconographic enemies.

But a ceasefire implies the recognition and the substantial stabilization of the conquered terrain; i.e. giving way to imagine a fragmentation of Syria, maybe not only for humanitarian goals (primarily stopping the huge migration pressure in Europe!), but also for a future political structure. That’s why Turkey is against the general frame of the ceasefire, accusing Russia and bombing along the border the Kurdish YPG, accused to be allied with Assad, supporter of PKK and also terrorist like Daesh. The danger from the Turkish point of view, it seems to me, is not the existence of a second Kurdish area after the one in Iraq, with which Turkey has good relations, but the supposed/perceived danger that YPG could pursue with PKK  the formation of a bigger Kurdish state joining the Syrian and the Turkish areas where Kurds are the majority of the population.

The cited EU solution (economic support) and negotiations can be more useful that fighting a terrorist war from both sides. It was useful in Italy, after the WWII, for solving the issue of the German speaking minority in the Northern province of Alto Adige – Süd Tirol after about two decades of bombs and attacks. Economic support (more than in the rest of Italy), official bilingualism, a major role in the local institutions for the Süd-Tiroler Volks-Partei (Popular Party of South-Tirol) after multi-parties elections, allowed not to change the border between Italy and Austria, to avoid violent rebellion and to make the province as one of the rich in the country. Of course the local and national leader have to accept a sort of “forgetting the past” in order to build the future for the new generations. Considering the official declaration of the jailed leader of the PKK, Abdullah Ocalan: “The Democratic Confederalism in Kurdistan is an anti-nationalist movement.  Its aiml is [… omissis…] the pursuing of democracy in all parts of Kurdistan without questioning the existing political borders. Its goal is not the foundation of a Kurd nation-state.” (Ocalan, 2011), and the ones of the leaders of Rojava and YPG (and their democratic structure) it seems to me that this kind of proposal could be acceptable by Kurds, but it seems to me also that the current Turkish political leadership is still too much inside the caging mental iconography of a rigid typology of sovereignty. Actually the first limited “invasion” by Turkey in 2016 in the Northern Syria area close to Jarablus, controlled by Daesh allies, was a warning (its goal was to keep separated the Kurdish areas of Rojava, in the East, from the Afrin canton in the West. Erdohan has no problem with the Islamist, but the Kurds, all the Kurds, are “terrorist”. Finally Turkey attacked the Afrin canton the 20th January 2018 with the theoretical excuse to fight/eliminate the “terrorists” of YPG: for what it’s worth Afrin is Syria and the always cited by leaders and mass media “international legality” strongly prohibits invasion by the army of a bordering state. But Russia on Turkish side and USA on Kurds side said to be moderate, Bashar Assad protested but opted to attack the Ghouta area close to Damascus, the Islamist militias caged in the Idlib bordering area of Afrin took the opportunity to fight again, protected and used by Turkey, the “infidels”: i.e. the Kurds, Sunni but not with the personal and very extreme interpretation of Daesh, al Nusra and similar. The so-called “international community” seems to have nothing to say.

The crude lesson of what happens on the ground in Syria-Iraq (and Libya) seems not yet sufficient for decreasing the theoretical iconographies still present in the mind of the decision makers: “sovereignty”, “territorial integrity” etc.. Unfortunately this blindness is paid by millions of innocent people.

Also in the case of Syria stabilizing autonomous areas, without changing the state borders, putting separation forces by the troops of USA and Russia (under the UN umbrella), and give money and time for the reconstruction could be the best exit strategy. But the Icon of the “national interests” should be damned.

North Korea – USA: My not-so-bad forecast in December 2016

Written in December 2016 – published 12th March 2017

Is North Korea a redeemable pariah state?

North Korea apparently is acting outside the Western influenced  geopolitical categories of the International Relations, but this doesn’t mean that “they are mad”. The North-Korean leaders don’t reply to the large majority of what Western diplomacy and the mass media system say about them, thus we are used to say everything we want without a real debate. I suggest that ” they” are rational, and predictable, from their point of view and not only.

They believe to be besieged and under attack from the outside, so the choice of getting the nuclear weapon is coherent (and rational) to this perspective and also to the internal dynamic of power. The inner political leadership, like any one, is always in a process of (re)positioning within the power and in each rigid system the political fight is hard and he transition phases are always perceived as dangerous. The monarchic-imperial-like top level system  applied in North Korea eliminates one of the incertitude factor.

Kim Jong-un has his predictable geopolitical regularity; the familial dynasty in a communist background is an ostensible contradiction for our iconographies, but not within an  imperial-Confucian tradition.

The so-called World Order and the assumed International Community have rigid ideological iconographies (territorial sovereignty, fixed borders, territorial integrity, etc.) and they seem to be blind in relation to what happened and it is happening in the several geopolitical crisis after the end of the Cold War. This mental conceptual frame has as a consequence on one side ineffective rhetoric declarations and on the other side the inability to intervene (always too late) and to solve the geopolitical crisis, using officially a range of means but often, eventually, the military intervention with conventional weapons.

North Korea is a free rider in the world hierarchical “Order” and it is irrational to expect that they do the first move, begging for being accepted.

Donald Trump as US president could be a dynamic factor if he will confirm with actions his “irrational” foreign policy declarations during the presidential campaign. He could be able to call directly Kim Jong-un or even to meet him. Theoretically on a basis of a flexible, democratic relation between “equal” UN members. A recognition of status for North Korea and his leadership that could have, perhaps, positive consequences; at least shaking the current “caged” geopolitical dynamics.

In any case the political reunification of the Korean peninsula should be abandoned as an iconographic point of reference; no more cited, no more analyzed in academic articles, no more spread in the “popular geopolitics” of the mass media.

“Reunification” could be, giving (long) time, the practical result of a flexible relation between two equal parts: couldn’t it be an acceptable situation the existence of two separated states, but peacefully collaborating without danger for the surrounding countries? The internal lack of political democracy (along the Western parliamentary way), like in North Korea, seems to be a marginal issue for many countries “accepted” in the World Order. The human rights issue must be managed in the field of culture and iconographies; Anthropology and Geography could be more useful than Political Science and I.R. theories.

South Korea should have a more effective and independent geopolitical role; in producing new or at least more dynamic iconographies based on the shared cultural and local iconographies. The more than 60 years of physical separation of the Korean peninsula already provoked a minor linguistic drift and a major social behavioral division within the two countries. The Korea issue is a cultural/iconographic one, not a “simply” unbalanced power relation or a threat to the so-called International Community.