La guerra per il Nagorno Karabakh tra fatti, regole e narrazione orientata (27 novembre 2020)

Dopo 45 giorni dal 27 settembre 2009 in cui l’Azerbaigian ha attaccato il Nagorno-Karabakh si è arrivati ad un armistizio, favorito dalla Russia, che mette a disposizione circa 2000 soldati e mezzi per garantire il cessate il fuoco tra i due contendenti.

Vorrei sottolineare alcuni elementi che, secondo me, sono piuttosto significativi su sia sul piano dei fatti concreti che del racconto delle narrazioni che possiamo leggere sui quotidiani italiani.

Intanto voglio ricordare che il mio criterio interpretativo delle dinamiche geopolitiche è che queste si muovono all’interno di un quadro di ambiguità e ipocrisia della cosiddetta comunità internazionale; una “comunità internazionale” che in realtà è fatta, di volta in volta, al massimo da 10 stati. Quattro o cinque di questi sono sempre gli stessi e sono i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU con diritto di veto. E’ una “comunità” in realtà soltanto dichiarata nei discorsi ufficiali o negli articoli dei giornali, ma in realtà non è una vera comunità perché è in ostaggio di qualche stato-nazione molto potente oppure di stati-nazione che sono i loro cosiddetti proxy, ovvero nazioni meno potenti che però in certi casi si muovono o  intervengono per inseguire i loro interessi che sono anche in favore degli interessi dello stato più potente che li protegge o di cui sono alleati. Sono comunque tutti stati con una forza militare consistente perché quando si dice potente si intende la forza militare; e hanno anche la potenza economica, perché non si ha abbastanza forza militare se non si ha anche una potenza economica e popolazione. Gli stati piccoli o poco popolati, anche se ricchi, non riescono ad essere abbastanza “potenti” perché la loro forza militare sia risolutiva.

Questi stati infrangono o forzano le regole, o si comportano al di fuori della cosiddetta “legalità internazionale” anche se quasi sempre vi si appellano o rivendicano quella parte delle “regole” che fa loro più comodo. In questo quadro l’atteggiamento diffuso nei confronti delle dinamiche geopolitiche segue la regola dei due pesi e delle due misure, ovverosia “noi” e i nostri alleati siamo nel giusto mentre i “nemici” o gli stati che sono considerati o percepiti come diversi da noi, altro da noi, sbagliano o sono infidi.

Le narrazioni, sia nei discorsi pubblici e ufficiali, le relazioni diplomatiche, le narrazioni dei quotidiani e delle TV evidenziano certi fatti o sottostimano altri fatti all’interno di questo quadro di due pesi e due misure perché tutte queste narrazioni più o meno consapevolmente sono all’interno del proprio discourse politico, ovvero della propria visione di che cosa è giusto e cosa è sbagliato e degli schieramenti in campo.

Se vige la legge del più forte sono molto rari i casi in cui ci sia una reale negoziazione per risolvere un problema geopolitico; le negoziazioni efficaci possono venire generalmente dopo una grave crisi oppure se c’è un cambio di leadership all’interno di uno dei due paesi contendenti oppure se cambiano tutti e due. Per esempio il raggiungimento di un accordo nella ex Iugoslavia nel 1996 c’è stato perché alla fine sono venuti a mancare i mezzi per tutte le parti in causa, sono morti tanti uomini combattenti e sono finiti gli appoggi esterni che venivano dai paesi esterni più potenti.

Chi vince o sta vincendo non è disposto a trattare e quando ha vinto o si sente più forte dell’avversario e quindi prima di negoziare pretende che l’altro faccia qualche dichiarazione oppure che rinunci a qualche cosa. Questo naturalmente non può portare a delle negoziazioni efficaci se resta  questa situazione di squilibrio. Chi perde, prima di andare a negoziare o a negoziare di nuovo, vuole diventare più forte per poter essere in condizioni migliori altrimenti sa che comunque ha perso e quindi non è disposto a perdere ancora di più; e anche qui la negoziazione non porta a buon fine. Questo avviene in genere quando c’è un conflitto militare e quindi alla fine c’è qualcuno che sul terreno ha vinto. Se la pace viene imposta da qualche attore esterno super-potente, la tensione continuerà a covare e prima o poi riscoppierà in uno scontro violento.

C’è poi una caratteristica umana, che si potrebbe controllare volendo, ma l’abitudine storica, invece, è stata da moltissimo tempo questa: chi vince tende a vendicarsi o a prendersi delle soddisfazioni; a più livelli naturalmente. Per esempio nel territorio conquistato si mettono delle nuove istituzioni che comandano favorendo i propri interessi e cercando di escludere gli interessi dei perdenti; e questo può verificarsi sia a livello dei dirigenti che a quello dei semplici funzionari o anche a quello dei soldati che controllano il territorio: ad un checkpoint nel modo di controllare i documenti o andando in giro per la città, entrando in un bar e prendendosi delle libertà, ottenere dei privilegi, o intimidendo gli “altri”.Si fanno sentire i membri dell’altro gruppo in una condizione di inferiorità che può essere manifestata dall’obbligo dell’uso della lingua dei vincitori e la proibizione dell’uso proprio lingua, se ci sono gruppi con linguistici diverse; oppure gli appartenenti al gruppo dominante hanno dei privilegi evidenti, oppure il gruppo perdente subisce delle vessazioni o percepisce di essere in una condizione di inferiorità, eccetera, eccetera.

Nel caso del Nagorno-Karabakh la cosa da sottolineare è che all’interno dell’impero russo armeni e azeri di fatto subivano una condizione di inferiorità nei confronti dei russi e di quelli che parlavano russo e quindi il conflitto tra i due gruppi era limitato a scontri locali che non avevano spazio per esplodere su larga scala. Con la fine dell’Impero russo e la prima guerra mondiale e durante gli anni turbolenti della formazione dell’Unione Sovietica lo scontro nazionalista per avere uno stato-nazione proprio da parte dei due gruppi ha provocato scontri, pogrom e ondate di profughi nei due sensi a seconda di chi in quel momento era più forte o vinceva. Il consolidamento dell’Unione Sovietica e l’imposizione di un ordine politico rigido dall’alto, ancora una volta russo e russofono, ha represso le spinte nazionaliste. Che non sono scomparse, ma sono state coperte dal mantello dell’internazionalismo proletario; in questo quadro la definizione dei confini di Armenia e Azerbaigian fatta negli anni ’20 e poi riconfermata nel 1936, ha creato la base del contenzioso di oggi nell’attribuzione all’Azerbaigian dell’area del Nagorno Karabakh, abitato prevalentemente da armeni.

In effetti il problema di fondo è quello dell’idea dello stato-nazione che viene concepito come uno stato che corrisponda ad una sola “nazione” cioè ad un solo gruppo umano che condivide lingua e abitudini di vita. Nessuno stato al mondo è o è mai stato “puro”.  Ricordo che tra il 1923 e il 1929 nella striscia di terra contesa oggi e identificata nei 7 distretti azeri conquistati dagli armeni nel 1994 c’è stata una entità politica autonoma riconosciuta come curda! Per inseguire la “purezza” dello stato-nazione appartiene all’Azerbaigian un pezzo di territorio, il Nakhichevan, che confina con la Turchia ed è separato dal resto dello stato dall’Armenia, come gli armeni del Nagorno Karabakh sono staccati dall’Armenia dai 7 distretti di cui si è già accennato.

Oggi gli azeri sono in una condizione di maggiore forza militare e la loro operazione militare ha consentito di conquistare terreno; in parte nel sud del Nagorno Karabakh, autoproclamatosi Artsakh, indipendente da 25 anni, e in parte nel territorio azero al confine con l’Iran, a sud, che era stato conquistato militarmente dagli armeni nel 1994.

Si stima che circa 40.000 armeni del Nagorno-Karabakh siano fuggiti dal territorio per andare in Armenia e vivono ospitati da altri o vivono in baracche o si arrangiano come possono,  ma nel 1992-94, quando c’è stata la guerra in cui gli armeni del Nagorno-Karabakh appoggiati dall’esercito della Armenia hanno vinto conquistando 7 distretti che erano abitati in maggioranza da azeri, ebbene si stima che almeno 600.000 persone siano scappate dal conflitto, siano state costrette a scappare o per paura siano scappate spontaneamente;  sono ancora in varie parte dell’Azerbaigian e un certo numero spera di tornare alle proprie case che hanno dovuto lasciare 25 anni fa.

La creazione di profughi, in mancanza di una negoziazione e quando si usa la guerra, è la conseguenza più frequente nelle dinamiche geopolitiche.

Il titolo del quotidiano Domani del 28 settembre, cioè il giorno dopo dell’attacco, è molto significativo e preciso: L’Azerbaigian prova a farla finita coi separatisti armeni. In questo titolo si sottolinea che chi si muove militarmente e cerca di chiudere questo contenzioso in sospeso, di farla finita con gli armeni del Nagorno Karabakh che sono dei separatisti è l’Azerbaigian.  Un Azerbaigian che oggi si sente forte militarmente perché nel corso degli ultimi vent’anni, grazie anche alle entrate petrolifere e alla vendita del gas, a noi per esempio e ai paesi europei, ha migliorato molto, con l’appoggio turco e armi di Israele, le proprie capacità militari; secondo, ha una umiliazione da vendicare, cioè la sconfitta del 1994; terzo, afferma che rivuole quello che è “suo”, e in effetti la cosiddetta legalità internazionale, ovverosia il riconoscimento internazionale dei confini, é dalla parte dell’Azerbaigian (l’ONU e tutti gli stati riconoscono che il Nagorno-Karabakh è una regione che dovrebbe essere autonoma, ma che fa parte dell’Azerbaigian). Infine, essendo tutti e due gli stati membri dell’ONU, questi non riconosce conquiste territoriali tramite l’uso della guerra e quindi gli armeni che nella guerra del 1991-94 hanno conquistato 7 distretti dell’Azerbaigian da questo punto di vista sono fuori dalla cosiddetta legalità internazionale; ben quattro risoluzioni ONU, peraltro mai rispettate dall’Armenia, hanno chiesto nel 1993il ritiro incondizionato dei militari armeni dal territorio azero; nella fattispecie la 822, la 853, la 874 e la 884.

In passato i negoziati sono sempre stati inconcludenti per responsabilità di ambedue, ma naturalmente nel quadro ambiguo di cui si è accennato all’inizio. L’Armenia, avendo conquistato il territorio, era in una posizione di forza e meno disponibile mentre gli azeri erano una condizione di inferiorità e quindi le richieste che si sentivano fare erano per loro inaccettabili. Oggi sono più forti e in effetti militarmente lo hanno dimostrato. Sottolineo che da un punto di vista pratico gli azeri hanno colpito il territorio del Nagorno-Karabakh e dei distretti circostanti e non il territorio della Armenia e quindi formalmente stanno riconquistando un pezzo di territorio che è il loro mentre gli armeni, se vogliono appoggiare il Nagorno Karabakh, devono sparare dei missili da territorio azero che loro hanno conquistato più di 25 anni fa e quindi formalmente si muovono in un territorio che non è loro e non ne avrebbero diritto.

Comunque, oltre ai profughi, come sempre, la guerra ha avuto i soliti effetti collaterali e cioè la morte dei civili sotto i bombardamenti oltre a quella dei combattenti.

I nostri giornali come hanno raccontato questa guerra? Spesso sui giornali si cita, paradossalmente, una frase di Eschilo, il drammaturgo greco di 2500 anni fa che aveva inserito in una sua opera la frase: “in guerra la verità è la prima vittima”. Però quello che si può vedere è che la logica della narrazione è una logica di schieramento e quindi in Occidente tendenzialmente noi siamo da parte degli armeni perché sono cristiani e perché li consideriamo più “europei”, anche se territorialmente sono fuori dall’Europa, per una serie di legami soprattutto culturali e religiosi. E quindi noi inquadriamo questo racconto anche all’interno di una storica iconografia del confronto fra cristiani e musulmani: gli armeni cristiani e gli azeri musulmani rientrano in un quadro di interpretazione che è coerente con un racconto che noi abbiamo utilizzato anche nei nostri libri di testo nelle scuole. E’ un racconto piuttosto tradizionale e quindi la narrazione italiana vi si adegua: siamo più “morbidi” e favorevole agli armeni e la questione della legalità internazionale, che come ho già detto a in realtà a favore dell’Azerbaigian, compare negli articoli soltanto in brevi incisi  nel testo, quindi mescolata alla gran parte dell’articolo che parla anche di altro, oppure in piccoli box con altre informazioni. Come se fosse una notazione non particolarmente importante.

Per confronto voglio ricordare che invece quando c’è stata la crisi ucraina nel 2014 e 2015 e il passaggio della Crimea dall’Ucraina alla Russia nell’arco di 7-8 mesi (e senza scontri a fuoco,  senza morti e con pochi profughi che hanno lasciato la Crimea), ebbene tutto l’Occidente ha insistito sul principio inderogabile dell’integrità territoriale dell’Ucraina, che andava difesa al punto tale che l’Unione Europea da allora ha in atto delle sanzioni economiche nei confronti della Russia. Per il passaggio della Crimea dopo un referendum, abitata al 75% da russofoni e di cultura russa, “regalata” nel 1954 da Krusciov all’Ucraina, cioè dal leader del nemico storico dell’Occidente durante la Guerra Fredda. Stalin viene citato con disapprovazione come causa del problema del Nagorno Karabakh, ma non nello stesso modo viene valutato l’agire del suo successore per la questione della Crimea.

Quindi nel caso dell’Azerbaigian, che è musulmano e appoggiato dalla Turchia e che quindi è considerato “altro” culturalmente, viene sottostimata la perdita di territorio da parte sua e sostanzialmente viene presentato come un qualcosa di negativo, ma che non meriterebbe la guerra.

Le condizioni di inferiorità militare hanno convinto il premier armeno e il comandante militare dei secessionisti del Nagorno Karabakh che la difesa era ormai impossibile e quindi che era meglio mantenere il territorio che ancora si controllava prima di perdere tutto. Il presidente russo Putin ha fatto da mediatore ed è riuscito a far firmare un armistizio con tappe in più fasi di realizzazione, garantito per 5 anni dal dispiegamento di circa 2000 soldati russi (con carri armati e blindati). Un titolo di un nostro quotidiano scriveva “Putin Impone la pace” con un vago senso di coercizione.

Alla fine di novembre i soldati russi sono dispiegati, le fasi del ritiro armeno vengono rispettate e anche la richiesta armena di piccoli ritardi per forza maggiore non crea tensioni. La Turchia ha cercato di inserirsi come attore della trattativa e anche di posizionare suoi militari sul terreno con i russi, ma Putin non lo ha permesso. Allora ha chiesto al parlamento turco di autorizzare l’invio di soldati “per fini umanitari” e ha proposto di allargare ad altri stati la partecipazione alla “stabilizzazione” della situazione. Forse sottintende il Gruppo di Minsk (USA, Francia, Russia) che in precedenza non era riuscito a mediare.

Sul terreno servizi TV di Euronews mostrano una situazione tranquilla, movimenti nei due sensi ai check point del corridoio di Lachin, che è il canale garantito di contatto tra Armenia e Nagorno Karabakh, ancora sotto controllo degli armeni, Profughi armeni intervistati affermano di voler tornare a Stepanakert, capitale del Nagorno.

Ora è il momento delle proposte geopolitiche, ma essendo finita la guerra, le distruzioni, le morti, i profughi, i casi lacrimevoli, i servizi TV e i quotidiani parlano di altro.

Ora che i combattimenti sono fermi è il momento di fare proposte politiche per una soluzione stabile. Proposte che abbiano come perno, secondo lo statuto dell’ONU e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948,  il rispetto dei diritti degli individui ovunque essi si trovino e la protezione delle minoranze.

Sotto il controllo ONU-russo un’ampia autonomia amministrativa degli armeni del Nagorno Karabakh con libertà di uso della lingua, sia pure entro lo stato azero; mantenimento del corridoio garantito di Lachin (sono circa 9 chilometri) tra Armenia e Nagorno Karabakh. Potrebbe essere una via d’uscita che dia tempo ai due gruppi umani di ricominciare a frequentarsi e a smorzare l’odio scatenato dalla propaganda delle due parti. E anche a smorzare il risentimento per i reciproci torti subiti.