Il cosiddetto “dopo Hamas” a Gaza: che fare? (19nov2023)

19 novembre 2023 – testo del podcast pubblicato su Spreaker, Spotify e Youtube

Mentre procede la sistematica distruzione di case e l’occupazione del territorio di Gaza da parte dell’esercito israeliano, a livello dei soliti pochi che decidono le sorti geopolitiche mondiali qualcuno ha cominciato domandarsi cosa fare a Gaza per il “dopo Hamas” e quali attori potrebbero prendere il controllo della situazione.

Intanto, come geografo, devo partire dalle condizioni concrete sul terreno che si possono prevedere quando Israele deciderà  che “Hamas è stato eliminato”.

E qui cominciano le note dolenti. Hamas non si può eliminare fisicamente; si possono distruggere fisicamente i bunker sotterranei e molti tunnel, chiuderne gli accessi, ma certo non tutti. Comunque non è questa l’essenza di Hamas. Che è una entità che nasce e dipende dalle persone e non dalla potenza delle armi. L’ideologia di Hamas, l’islam politico, continuerà a vivere nei dirigenti che oggi non si trovano a Gaza, nel sostegno ideale e religioso che ha nei diversi stati del mondo arabo-musulmano e soprattutto nel numero consistente di nuovi volontari miliziani fatti da tutti quei giovani maschi palestinesi che in questi e nei prossimi giorni hanno visto la propria casa distrutta, i propri parenti (genitori, mogli, fratelli e sorelle, figli) e amici uccisi dai bombardamenti israeliani.

A Gaza si può stimare che ci siano circa 300mila giovani maschi palestinesi tra i 18 e i 30 anni e penso che sia concretamente possibile che il 10% possa voler vendicarsi con le armi contro qualsiasi ebreo israeliano; anche con le intollerabili modalità usate il 7 ottobre dai miliziani di Hamas e degli altri più piccoli gruppi che hanno agito con loro tipo la jihad islamica locale.

Questo implica che quello che viene delicatamente definito “controllo della sicurezza” a Gaza, e cioè la capacità di controllare le persone e impedire che in futuro si riformino gruppi armati, dovrà essere fatto da soggetti contrari all’islam politico che non abbiano remore a reprimere, anche con la forza, miliziani e attivisti di quel campo.

E tutto questo in un contesto di distruzione di case e di infrastrutture di ogni tipo: non solo edifici e strade, ma anche centrali elettriche, tubature dell’acqua, fognature, connessioni elettriche eccetera; oltre alla devastazione psicologica, soprattutto nei bambini, che le bombe e l’esodo forzato a piedi o su carretti hanno provocato nella popolazione di Gaza.

Per riportare il contesto fisico di Gaza ad una condizione di vita appena passabile ci vorrà tempo, anni, e soldi, molti soldi. Quindi un controllo prolungato del territorio dal punto di vista amministrativo e politico abbinato, come già detto, ad un controllo militare della situazione.

Checché ne dica Netanyahu, e sempre che il suo destino politico non sia alla fine, Israele non potrà restare a Gaza per anni a controllare militarmente e reprimere, come fa dal 1967 nella Cisgiordania. E soprattutto non potrà (e credo non vorrà) amministrare Gaza; gli costerebbe troppo in termini economici e soprattutto geopolitici. Già ora le migliaia di morti sotto i bombardamenti, fatti in maggioranza da minori e donne, in continua crescita, stanno minando il sostegno occidentale di cui gode e perfino negli Stati Uniti, la cui opinione pubblica è da decenni stabilmente dalla sua parte qualunque cosa faccia. E nel mondo arabo-musulmano anche gli stati che hanno sottoscritto gli Accordi di Abramo riconoscendo diplomaticamente Israele, penso che saranno in qualche modo costretti quantomeno a sospenderli se non a rigettarli del tutto.

Chi allora?

Prendo atto, a prescindere dai miei desideri e principi etici, che il contesto geopolitico mondiale non è democratico e chi decide sono sempre pochi leader di stati ricchi e potenti militarmente. Mai più di 10; alcuni governi sempre presenti a livello decisionale, Stati Uniti in testa, e altri coinvolti a seconda di dove si trova geograficamente la crisi.

Quindi le condizioni ineludibili mi sembra che siano sono queste quattro:

1) Israele deve accettare (cioè fidarsi almeno un poco) che soggetti terzi siano presenti con proprie truppe a Gaza;

2) gli stati che forniscono i militari devono essere solidi economicamente (per mantenere truppe per anni) e ideologicamente contrari all’islam politico di Hamas e di gruppi come la jihad islamica e/o al Qaeda e simili; devono essere anche “credibili” militarmente, e credibili significa che abbiano dimostrato le proprie capacità militari sul terreno, cioè in qualche conflitto armato concreto.

3) bisogna che arrivino molti fondi e per anni per ricostruire le condizioni fisiche di una vita civile;

4) il governo di Gaza deve essere solo amministrativo e non politico perché venga accettato sia da Israele che da chi invia i militari e/o i soldi. Questo significa niente elezioni per qualche anno; cosa a cui i palestinesi, per altro, sono comunque abituati da un bel po’.

Per i punti 1) (accettazione da parte di Israele), 2) (militarmente e economicamente solidi), e in parte anche il 3) (fornitori di fondi) mi sembra che gli unici due stati possibili siano l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi hanno sottoscritto gli accordi di Abramo con Israele e i sauditi erano coinvolti in una strategia statunitense e israeliana per convincerli a sottoscriverli. Economicamente sono forti e militarmente si stanno facendo le ossa nel conflitto yemenita in cui sono direttamente coinvolti. Ambedue sono stati “anti Iran”, soprattutto i sauditi, anche se grazie alla Cina negli ultimi mesi c’è stato un riavvicinamento diplomatico sostanziale. E soprattutto sono emirati, non democratici in senso occidentale, e decisamente contrari all’islam politico della Fratellanza Musulmana, soprattutto nei suoi aspetti militanti tipo Hamas e simili.

Il controllo militare della situazione a Gaza da parte di emirati e sauditi farebbe certo da garanzia perché da una buona parte degli stati arabo-musulmani possano arrivare fondi per la ricostruzione di Gaza; penso anche che il Qatar potrebbe continuare a inviare fondi per le infrastrutture di Gaza e forse anche la Turchia che potrebbe “offrire” il contributo operativo delle sue aziende esperte nei settori edilizi e infrastrutturali ed averne un tornaconto economico.

Il punto 4) è quello più sensibile politicamente e anche dal punto di vista del  contesto del “teatro” politico locale e internazionale; cioè del prestigio, delle iconografie e della diffusa ipocrisia del discourse , il quadro concettuale dei pochi che decidono per interessi propri ammantati da nobili principi. Per questo suggerivo come soluzione il fatto che la gestione futura di Gaza debba essere solo amministrativa e non politica. L’ANP non è un soggetto politico possibile: ha dimostrato di non essere né capace né credibile.

Ci vuole un governo di tecnici esperti in diversi specifici settori operativi, di diverse provenienze statuali, proposti e valutati da una commissione internazionale, formalmente sotto l’ombrello dell’ONU, ma in sostanza supervisionato, in posizione dominante, da Usa, Israele, Arabia Saudita, Emirati;  per opportunità geopolitica vanno coinvolti Egitto e Giordania. Il gruppo di controllo può essere allargato a qualche rappresentante di altri governi coinvolti economicamente: Qatar, Turchia e qualche governo europeo se ci mette fondi o capacità tecniche operative sul campo tramite sue società.

Visto che le gravi crisi, e questa di Gaza lo è di certo, producono cambiamenti che prima della crisi venivano o rifiutati o considerati inaccettabili o impossibili, potrebbe essere possibile affrontare anche la questione irrisolta da decenni della Cisgiordania. Che però è in una situazione concreta molto più difficile da risolvere politicamente, proprio per le condizioni sul terreno; non ci sono distruzioni, ma al contrario una crescita di edificazioni che sono il punto centrale del problema e contribuiscono a limitare le possibili soluzioni a meno che non si pensi in maniera creativa e si separi nettamente la questione della cittadinanza da quella della gestione amministrativa del territorio. Bisogna uscire dalla mentalità dello stato-nazione, cioè dall’idea che uno “Stato” abbia un territorio contiguo, confinato chiaramente e governato dai rappresentanti di una sola “nazione” in maniera esclusiva.

Paradossalmente la situazione di Gaza, da questo punto di vista, è molto più chiara e interna alla dominante concezione dello stato-nazione: c’è un territorio unitario, chiaramente confinato e abitato da una sola “nazione” dal punto di vista culturale. Un caso raro nel mondo, sostanzialmente unico con una popolazione di 2 milioni di abitanti.

Per questo ritengo che possa (e debba) avere un futuro separato dalla Cisgiordania; ha più abitanti di molti piccoli stati nel mondo, possibilità di autosufficienza economica (si affaccia sul mare, con un giacimento di gas-petrolio sfruttabile) e la convivenza politica interna meno problematica per l’assenza di gruppi culturali consistenti e “altri”, soprattutto di cittadini israeliani.

Ecco perché l’ipotesi che suggerisco qui per il dopo Hamas a Gaza la vedo come praticabile.

Hamas non sparirebbe nel mondo arabo-musulmano, ma a Gaza avrebbe un margine di azione molto ridotto se non nullo e quindi non verrebbero più lanciati razzi, se non occasionalmente, in numero ridotto e ininfluente. Certo per fare un attentato con una bomba o con uccisioni mirate non servono molti uomini, ma la possibilità di incidere sulle dinamiche complessive a Gaza sarebbe sostanzialmente irrisoria.

La difficoltà maggiore che vedo è nella testa di quei pochi che decidono. Non ho nessuna fiducia in Netanyahu, in Gallant ministro della difesa israeliano e in molti ministri dell’attuale governo. Non credo che i consiglieri e gli esperti di cui si avvale Biden siano così flessibili e creativi per uscire dalle logiche di pensare la geopolitica e la politica in maniera piramidale e di potere. Paradossalmente l’autocratico saudita Mohamed bin Salman e il consiglio degli emiri degli Emirati possono essere più rapidi nel decidere e opportunisti nel capire quali azioni portino loro prestigio e vantaggi economici. L’ONU è ostaggio del diritto di veto dei membri permanenti e non credo che il Consiglio di Sicurezza, unico abilitato ad approvare il piano che suggerisco, potrebbe (e vorrebbe) opporsi. Se piace agli Usa di solito Francia e soprattutto UK si accodano e gli interessi di Russia e Cina non vengono toccati.

Per questo nell’attuale contesto geopolitico, che pure non mi piace per niente, credo che la mia proposta potrebbe essere quella più utile e “comprensibile”, anche accettabile dai potenti che ho citato, ma anche dalla gente comune, soprattutto per dare tempo e opportunità perché le distruzioni vengano riparate e perché le menti provino ad attutire dolore e desiderio di vendetta per guardare ad un futuro più tollerabile sul piano dei diritti e delle condizioni di vita a Gaza e sperabilmente anche in Cisgiordania.

La guerra per il Nagorno Karabakh tra fatti, regole e narrazione orientata (27 novembre 2020)

Dopo 45 giorni dal 27 settembre 2009 in cui l’Azerbaigian ha attaccato il Nagorno-Karabakh si è arrivati ad un armistizio, favorito dalla Russia, che mette a disposizione circa 2000 soldati e mezzi per garantire il cessate il fuoco tra i due contendenti.

Vorrei sottolineare alcuni elementi che, secondo me, sono piuttosto significativi su sia sul piano dei fatti concreti che del racconto delle narrazioni che possiamo leggere sui quotidiani italiani.

Intanto voglio ricordare che il mio criterio interpretativo delle dinamiche geopolitiche è che queste si muovono all’interno di un quadro di ambiguità e ipocrisia della cosiddetta comunità internazionale; una “comunità internazionale” che in realtà è fatta, di volta in volta, al massimo da 10 stati. Quattro o cinque di questi sono sempre gli stessi e sono i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU con diritto di veto. E’ una “comunità” in realtà soltanto dichiarata nei discorsi ufficiali o negli articoli dei giornali, ma in realtà non è una vera comunità perché è in ostaggio di qualche stato-nazione molto potente oppure di stati-nazione che sono i loro cosiddetti proxy, ovvero nazioni meno potenti che però in certi casi si muovono o  intervengono per inseguire i loro interessi che sono anche in favore degli interessi dello stato più potente che li protegge o di cui sono alleati. Sono comunque tutti stati con una forza militare consistente perché quando si dice potente si intende la forza militare; e hanno anche la potenza economica, perché non si ha abbastanza forza militare se non si ha anche una potenza economica e popolazione. Gli stati piccoli o poco popolati, anche se ricchi, non riescono ad essere abbastanza “potenti” perché la loro forza militare sia risolutiva.

Questi stati infrangono o forzano le regole, o si comportano al di fuori della cosiddetta “legalità internazionale” anche se quasi sempre vi si appellano o rivendicano quella parte delle “regole” che fa loro più comodo. In questo quadro l’atteggiamento diffuso nei confronti delle dinamiche geopolitiche segue la regola dei due pesi e delle due misure, ovverosia “noi” e i nostri alleati siamo nel giusto mentre i “nemici” o gli stati che sono considerati o percepiti come diversi da noi, altro da noi, sbagliano o sono infidi.

Le narrazioni, sia nei discorsi pubblici e ufficiali, le relazioni diplomatiche, le narrazioni dei quotidiani e delle TV evidenziano certi fatti o sottostimano altri fatti all’interno di questo quadro di due pesi e due misure perché tutte queste narrazioni più o meno consapevolmente sono all’interno del proprio discourse politico, ovvero della propria visione di che cosa è giusto e cosa è sbagliato e degli schieramenti in campo.

Se vige la legge del più forte sono molto rari i casi in cui ci sia una reale negoziazione per risolvere un problema geopolitico; le negoziazioni efficaci possono venire generalmente dopo una grave crisi oppure se c’è un cambio di leadership all’interno di uno dei due paesi contendenti oppure se cambiano tutti e due. Per esempio il raggiungimento di un accordo nella ex Iugoslavia nel 1996 c’è stato perché alla fine sono venuti a mancare i mezzi per tutte le parti in causa, sono morti tanti uomini combattenti e sono finiti gli appoggi esterni che venivano dai paesi esterni più potenti.

Chi vince o sta vincendo non è disposto a trattare e quando ha vinto o si sente più forte dell’avversario e quindi prima di negoziare pretende che l’altro faccia qualche dichiarazione oppure che rinunci a qualche cosa. Questo naturalmente non può portare a delle negoziazioni efficaci se resta  questa situazione di squilibrio. Chi perde, prima di andare a negoziare o a negoziare di nuovo, vuole diventare più forte per poter essere in condizioni migliori altrimenti sa che comunque ha perso e quindi non è disposto a perdere ancora di più; e anche qui la negoziazione non porta a buon fine. Questo avviene in genere quando c’è un conflitto militare e quindi alla fine c’è qualcuno che sul terreno ha vinto. Se la pace viene imposta da qualche attore esterno super-potente, la tensione continuerà a covare e prima o poi riscoppierà in uno scontro violento.

C’è poi una caratteristica umana, che si potrebbe controllare volendo, ma l’abitudine storica, invece, è stata da moltissimo tempo questa: chi vince tende a vendicarsi o a prendersi delle soddisfazioni; a più livelli naturalmente. Per esempio nel territorio conquistato si mettono delle nuove istituzioni che comandano favorendo i propri interessi e cercando di escludere gli interessi dei perdenti; e questo può verificarsi sia a livello dei dirigenti che a quello dei semplici funzionari o anche a quello dei soldati che controllano il territorio: ad un checkpoint nel modo di controllare i documenti o andando in giro per la città, entrando in un bar e prendendosi delle libertà, ottenere dei privilegi, o intimidendo gli “altri”.Si fanno sentire i membri dell’altro gruppo in una condizione di inferiorità che può essere manifestata dall’obbligo dell’uso della lingua dei vincitori e la proibizione dell’uso proprio lingua, se ci sono gruppi con linguistici diverse; oppure gli appartenenti al gruppo dominante hanno dei privilegi evidenti, oppure il gruppo perdente subisce delle vessazioni o percepisce di essere in una condizione di inferiorità, eccetera, eccetera.

Nel caso del Nagorno-Karabakh la cosa da sottolineare è che all’interno dell’impero russo armeni e azeri di fatto subivano una condizione di inferiorità nei confronti dei russi e di quelli che parlavano russo e quindi il conflitto tra i due gruppi era limitato a scontri locali che non avevano spazio per esplodere su larga scala. Con la fine dell’Impero russo e la prima guerra mondiale e durante gli anni turbolenti della formazione dell’Unione Sovietica lo scontro nazionalista per avere uno stato-nazione proprio da parte dei due gruppi ha provocato scontri, pogrom e ondate di profughi nei due sensi a seconda di chi in quel momento era più forte o vinceva. Il consolidamento dell’Unione Sovietica e l’imposizione di un ordine politico rigido dall’alto, ancora una volta russo e russofono, ha represso le spinte nazionaliste. Che non sono scomparse, ma sono state coperte dal mantello dell’internazionalismo proletario; in questo quadro la definizione dei confini di Armenia e Azerbaigian fatta negli anni ’20 e poi riconfermata nel 1936, ha creato la base del contenzioso di oggi nell’attribuzione all’Azerbaigian dell’area del Nagorno Karabakh, abitato prevalentemente da armeni.

In effetti il problema di fondo è quello dell’idea dello stato-nazione che viene concepito come uno stato che corrisponda ad una sola “nazione” cioè ad un solo gruppo umano che condivide lingua e abitudini di vita. Nessuno stato al mondo è o è mai stato “puro”.  Ricordo che tra il 1923 e il 1929 nella striscia di terra contesa oggi e identificata nei 7 distretti azeri conquistati dagli armeni nel 1994 c’è stata una entità politica autonoma riconosciuta come curda! Per inseguire la “purezza” dello stato-nazione appartiene all’Azerbaigian un pezzo di territorio, il Nakhichevan, che confina con la Turchia ed è separato dal resto dello stato dall’Armenia, come gli armeni del Nagorno Karabakh sono staccati dall’Armenia dai 7 distretti di cui si è già accennato.

Oggi gli azeri sono in una condizione di maggiore forza militare e la loro operazione militare ha consentito di conquistare terreno; in parte nel sud del Nagorno Karabakh, autoproclamatosi Artsakh, indipendente da 25 anni, e in parte nel territorio azero al confine con l’Iran, a sud, che era stato conquistato militarmente dagli armeni nel 1994.

Si stima che circa 40.000 armeni del Nagorno-Karabakh siano fuggiti dal territorio per andare in Armenia e vivono ospitati da altri o vivono in baracche o si arrangiano come possono,  ma nel 1992-94, quando c’è stata la guerra in cui gli armeni del Nagorno-Karabakh appoggiati dall’esercito della Armenia hanno vinto conquistando 7 distretti che erano abitati in maggioranza da azeri, ebbene si stima che almeno 600.000 persone siano scappate dal conflitto, siano state costrette a scappare o per paura siano scappate spontaneamente;  sono ancora in varie parte dell’Azerbaigian e un certo numero spera di tornare alle proprie case che hanno dovuto lasciare 25 anni fa.

La creazione di profughi, in mancanza di una negoziazione e quando si usa la guerra, è la conseguenza più frequente nelle dinamiche geopolitiche.

Il titolo del quotidiano Domani del 28 settembre, cioè il giorno dopo dell’attacco, è molto significativo e preciso: L’Azerbaigian prova a farla finita coi separatisti armeni. In questo titolo si sottolinea che chi si muove militarmente e cerca di chiudere questo contenzioso in sospeso, di farla finita con gli armeni del Nagorno Karabakh che sono dei separatisti è l’Azerbaigian.  Un Azerbaigian che oggi si sente forte militarmente perché nel corso degli ultimi vent’anni, grazie anche alle entrate petrolifere e alla vendita del gas, a noi per esempio e ai paesi europei, ha migliorato molto, con l’appoggio turco e armi di Israele, le proprie capacità militari; secondo, ha una umiliazione da vendicare, cioè la sconfitta del 1994; terzo, afferma che rivuole quello che è “suo”, e in effetti la cosiddetta legalità internazionale, ovverosia il riconoscimento internazionale dei confini, é dalla parte dell’Azerbaigian (l’ONU e tutti gli stati riconoscono che il Nagorno-Karabakh è una regione che dovrebbe essere autonoma, ma che fa parte dell’Azerbaigian). Infine, essendo tutti e due gli stati membri dell’ONU, questi non riconosce conquiste territoriali tramite l’uso della guerra e quindi gli armeni che nella guerra del 1991-94 hanno conquistato 7 distretti dell’Azerbaigian da questo punto di vista sono fuori dalla cosiddetta legalità internazionale; ben quattro risoluzioni ONU, peraltro mai rispettate dall’Armenia, hanno chiesto nel 1993il ritiro incondizionato dei militari armeni dal territorio azero; nella fattispecie la 822, la 853, la 874 e la 884.

In passato i negoziati sono sempre stati inconcludenti per responsabilità di ambedue, ma naturalmente nel quadro ambiguo di cui si è accennato all’inizio. L’Armenia, avendo conquistato il territorio, era in una posizione di forza e meno disponibile mentre gli azeri erano una condizione di inferiorità e quindi le richieste che si sentivano fare erano per loro inaccettabili. Oggi sono più forti e in effetti militarmente lo hanno dimostrato. Sottolineo che da un punto di vista pratico gli azeri hanno colpito il territorio del Nagorno-Karabakh e dei distretti circostanti e non il territorio della Armenia e quindi formalmente stanno riconquistando un pezzo di territorio che è il loro mentre gli armeni, se vogliono appoggiare il Nagorno Karabakh, devono sparare dei missili da territorio azero che loro hanno conquistato più di 25 anni fa e quindi formalmente si muovono in un territorio che non è loro e non ne avrebbero diritto.

Comunque, oltre ai profughi, come sempre, la guerra ha avuto i soliti effetti collaterali e cioè la morte dei civili sotto i bombardamenti oltre a quella dei combattenti.

I nostri giornali come hanno raccontato questa guerra? Spesso sui giornali si cita, paradossalmente, una frase di Eschilo, il drammaturgo greco di 2500 anni fa che aveva inserito in una sua opera la frase: “in guerra la verità è la prima vittima”. Però quello che si può vedere è che la logica della narrazione è una logica di schieramento e quindi in Occidente tendenzialmente noi siamo da parte degli armeni perché sono cristiani e perché li consideriamo più “europei”, anche se territorialmente sono fuori dall’Europa, per una serie di legami soprattutto culturali e religiosi. E quindi noi inquadriamo questo racconto anche all’interno di una storica iconografia del confronto fra cristiani e musulmani: gli armeni cristiani e gli azeri musulmani rientrano in un quadro di interpretazione che è coerente con un racconto che noi abbiamo utilizzato anche nei nostri libri di testo nelle scuole. E’ un racconto piuttosto tradizionale e quindi la narrazione italiana vi si adegua: siamo più “morbidi” e favorevole agli armeni e la questione della legalità internazionale, che come ho già detto a in realtà a favore dell’Azerbaigian, compare negli articoli soltanto in brevi incisi  nel testo, quindi mescolata alla gran parte dell’articolo che parla anche di altro, oppure in piccoli box con altre informazioni. Come se fosse una notazione non particolarmente importante.

Per confronto voglio ricordare che invece quando c’è stata la crisi ucraina nel 2014 e 2015 e il passaggio della Crimea dall’Ucraina alla Russia nell’arco di 7-8 mesi (e senza scontri a fuoco,  senza morti e con pochi profughi che hanno lasciato la Crimea), ebbene tutto l’Occidente ha insistito sul principio inderogabile dell’integrità territoriale dell’Ucraina, che andava difesa al punto tale che l’Unione Europea da allora ha in atto delle sanzioni economiche nei confronti della Russia. Per il passaggio della Crimea dopo un referendum, abitata al 75% da russofoni e di cultura russa, “regalata” nel 1954 da Krusciov all’Ucraina, cioè dal leader del nemico storico dell’Occidente durante la Guerra Fredda. Stalin viene citato con disapprovazione come causa del problema del Nagorno Karabakh, ma non nello stesso modo viene valutato l’agire del suo successore per la questione della Crimea.

Quindi nel caso dell’Azerbaigian, che è musulmano e appoggiato dalla Turchia e che quindi è considerato “altro” culturalmente, viene sottostimata la perdita di territorio da parte sua e sostanzialmente viene presentato come un qualcosa di negativo, ma che non meriterebbe la guerra.

Le condizioni di inferiorità militare hanno convinto il premier armeno e il comandante militare dei secessionisti del Nagorno Karabakh che la difesa era ormai impossibile e quindi che era meglio mantenere il territorio che ancora si controllava prima di perdere tutto. Il presidente russo Putin ha fatto da mediatore ed è riuscito a far firmare un armistizio con tappe in più fasi di realizzazione, garantito per 5 anni dal dispiegamento di circa 2000 soldati russi (con carri armati e blindati). Un titolo di un nostro quotidiano scriveva “Putin Impone la pace” con un vago senso di coercizione.

Alla fine di novembre i soldati russi sono dispiegati, le fasi del ritiro armeno vengono rispettate e anche la richiesta armena di piccoli ritardi per forza maggiore non crea tensioni. La Turchia ha cercato di inserirsi come attore della trattativa e anche di posizionare suoi militari sul terreno con i russi, ma Putin non lo ha permesso. Allora ha chiesto al parlamento turco di autorizzare l’invio di soldati “per fini umanitari” e ha proposto di allargare ad altri stati la partecipazione alla “stabilizzazione” della situazione. Forse sottintende il Gruppo di Minsk (USA, Francia, Russia) che in precedenza non era riuscito a mediare.

Sul terreno servizi TV di Euronews mostrano una situazione tranquilla, movimenti nei due sensi ai check point del corridoio di Lachin, che è il canale garantito di contatto tra Armenia e Nagorno Karabakh, ancora sotto controllo degli armeni, Profughi armeni intervistati affermano di voler tornare a Stepanakert, capitale del Nagorno.

Ora è il momento delle proposte geopolitiche, ma essendo finita la guerra, le distruzioni, le morti, i profughi, i casi lacrimevoli, i servizi TV e i quotidiani parlano di altro.

Ora che i combattimenti sono fermi è il momento di fare proposte politiche per una soluzione stabile. Proposte che abbiano come perno, secondo lo statuto dell’ONU e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948,  il rispetto dei diritti degli individui ovunque essi si trovino e la protezione delle minoranze.

Sotto il controllo ONU-russo un’ampia autonomia amministrativa degli armeni del Nagorno Karabakh con libertà di uso della lingua, sia pure entro lo stato azero; mantenimento del corridoio garantito di Lachin (sono circa 9 chilometri) tra Armenia e Nagorno Karabakh. Potrebbe essere una via d’uscita che dia tempo ai due gruppi umani di ricominciare a frequentarsi e a smorzare l’odio scatenato dalla propaganda delle due parti. E anche a smorzare il risentimento per i reciproci torti subiti.

Caging, selfcaging, materialità, piramidi, meme, come migliori strumenti di analisi geopolitica. Un approccio epistemologicamente anarchico?

(Pubblicato nel 2012 in inglese su Human Geography; rivisto il 28 ottobre 2023)

 

La forza dell’immaginazione e dell’imitazione: isole e derive culturali

 

L’immaginazione degli esseri umani è fervida e molto spesso si diventa ostaggio di essa.

Jim Giles in un articolo su New Scientist (tradotto da Internazionale del 23/29 luglio 2010, pp. 51-52), cita l’economista David Hirshleifer che nel 1993 ha scritto “più sentiamo o leggiamo una notizia e più la consideriamo vera”; “la forza delle immagini reiterate è tale da poterci indurre a considerare i messaggi che ci vengono imposti come la storia stessa, la pura e semplice realtà” (Augé, 2009, p.39). Il meccanismo mentale per cui si crede che quello che è pensato o ripetuto continuamente sia vero può essere analizzato e compreso a partire dal concetto di meme, “egoista” come il gene, elaborato da Richard Dawkins (1995). Il meme-idea è l’ “unità di trasmissione culturale o unità di imitazione” (ibid, p. 254), “una entità, il meme-idea, che è capace di essere trasmessa da un cervello all’altro” (ibid, p. 258) “l’imitazione, in senso lato, è il modo in cui i memi possono replicarsi” (ibid, p. 256).

In pratica un meme-idea è qualsiasi cosa che ci entra nella mente (e nella memoria), spesso senza che ce ne rendiamo conto, e che progressivamente si accumula per formare l’insieme delle nostre opinioni, convinzioni, valori, identità, percezioni, ecc. ecc.. Anche i nostri studi e le cose che impariamo (per nostra volontà o inconsapevolmente) si comportano come dei memi, e cioè tendono non solo a consolidarsi nella nostra mente, ma anche a replicarsi in altre menti grazie alla trasmissione (cosciente o no) che ne facciamo noi stessi con parole e azioni. Un video di youtube come il videoclip coreano Gangnam Style che viene visto, cliccato più di 2 miliardi di volte (al 31 maggio 2014) o un “hoax” (bufala, falso) che diventa “virale” sul web sono esempi contemporanei di memi di successo.

Possiamo considerare risultato di un insieme di memi il tifo sportivo e i conseguenti comportamenti, che vengono descritti come “passione” e così vengono quindi interpretati. La diffusione tra i tifosi di certi convincimenti (arbitraggi ostili, squadre “nemiche”, giudizi sui giocatori, comportamenti “giusti” dei tifosi, autostima, ecc.) sono il tipico risultato del gioco delle unità di imitazione e di trasmissione. Che è identico in tutte le dinamiche di gruppo, compreso l’ambito ideologico ed evidenti in quelle della politica, del nazionalismo, delle identità. Chi condivide gli stessi memi tende a costituire ciò che si può definire, riprendendo l’approccio di Luigi Luca Cavalli Sforza (2010), una isola culturale; che si cerca di preservare dai cambiamenti rafforzando la ripetizione (a parole, coi simboli e nei comportamenti) dei memi che vengono definiti “tradizioni” e/o “valori”. La finalità inconsciamente condivisa e profondamente umana è quella di proteggersi grazie alla solidarietà del gruppo in quanto “il ruolo primordiale della cultura è di assicurare l’esistenza del gruppo come gruppo, e dunque di sostituire l’organizzazione al caso” (Lèvi Strauss, 1978, p.75).  L’antropologo Stefano Boni parla di una “omogeneità [che] si ottiene mediante meccanismi comunicativi minuti e quotidiani (il pettegolezzo e la lode, la smorfia e il sorriso, l’esclusione e l’accoglienza, la multa e il premio) che scoraggiano la devianza e incoraggiano il conformismo” (Boni, 2011, p.51).

 

Però, essendo essenzialmente una dinamica incontrollabile, anche se influenzabile, il meme innesca anche una deriva culturale che nel tempo può cambiare il significato e il senso delle parole perché “a prima vista sembra che i memi non siano per nulla dei replicatori ad alta fedeltà” dato che “i memi vengono trasmessi in forma alterata” (Dawkins, 1995, p.257). Il processo della deriva culturale è spesso così lento che i soggetti coinvolti difficilmente lo percepiscono e questo, a volte, porta alla paradossale convinzione  che “sia sempre stato così” riferito a dinamiche, idee, comportamenti che in realtà sono il risultato di un cambiamento più o meno recente. E questa convinzione è fortemente presente nelle nuove generazioni, che non avendo esperienza diretta di come stavano le cose nel passato, tendono a pensare che la loro esperienza quotidiana sia “stabile” e tendenzialmente la stessa dovunque.

Per esempio, il termine rete indica da millenni uno strumento usato per imprigionare e spesso per uccidere chi o cosa è rimasto preso nella rete. Oggi “rete” (e “net”), riferito al sistema di collegamenti computerizzati, viene usato così tante volte nel senso di “libertà”, “movimento”, “interconnessione” che il significato originario è sfumato quasi del tutto se non scomparso per le nuovissime generazioni. Almeno nelle società “ricche” dove lo spazio (strade, case, cavi, immagini, computer, ecc.) è sempre più artificiale e virtuale. E dove i confini, mobili e invisibili, che gli esseri umani creano e/o subiscono nella vita quotidiana vengono ancor di più “nascosti” tramite il meccanismo di una vera e propria diversione, una distrazione di massa risultato sia di un tipo di sviluppo della comunicazione sia di una volontà politica nell’usarla strumentalmente per la creazione del consenso o per esercitare il potere.

Le isole culturali sono dunque costituite da un insieme di memi ripetuti e confermati dalle abitudini di vita e di relazione, in spazi fisici concreti. Però l’arrivo di nuove generazioni, senza memoria del passato e tendenzialmente creatrici di nuovi memi, provoca un cambiamento nel tempo, una deriva culturale che si sviluppa sempre nello stesso spazio fisico. E’ un  processo tendenzialmente lento, salvo l’intervento di agenti “rivoluzionari” interni e/o esterni (es. movimenti politici, guerre, disastri naturali, ecc.); per derive culturali quasi totali in condizioni normali genetisti come Luca e Francesco Cavalli Sforza hanno genericamente quantificato il lasso di tempo necessario in mille anni, paragonandole alle derive genetiche (Cavalli Sforza, 1993). I sette-ottocento anni passati dall’inizio dell’uso scritto dell’italiano volgare ci rendono la lettura di molti passi delle opere del Duecento-Trecento molto difficile; per chi ha un basso livello di istruzione quasi impossibile.

Le resistenza al cambiamento delle isole culturali dipende dal contesto spaziale, dagli eventi storici, dallo scambio/contatto con altre isole, dalle caratteristiche specifiche dei memi delle singole culture e da quanto questi memi vengono sistematicamente praticati nella vita quotidiana di relazione. L’imitazione dei simili e la pratica continua sono probabilmente i due principali fattori di resilienza delle isole culturali.  

 

La deriva culturale avviene anche per spostamento  in un altro spazio fisico; esempio principale il fenomeno migratorio. Un gruppo umano che si muove in uno spazio fisico diverso da quello della propria isola culturale si porta dietro i propri memi e tende a riprodurli nel nuovo contesto. La lingua parlata è il veicolo fondante di questo tentativo di riprodurre/mantenere la propria isola culturale. La ricostituzione di aree (soprattutto cittadine) e di comunità su base linguistica è il tratto più diffuso, ripetuto e interculturale del fenomeno migratorio. Perché nel volere vivere nel gruppo di simili coi quali puoi parlare e farti capire, in questo meccanismo-meme psicologico, gli esseri umani sono tutti decisamente uguali.“Sarebbero le barriere linguistiche a rafforzare l’isolamento genetico e viceversa” (Farinelli, 2003, p.74, riferendosi a Cavalli Sforza, Menozzi e Piazza, 1994).

Ma la barriera linguistica non può resistere a lungo in certi contesti; questo tipo di deriva culturale deve fare i conti con nuovi e diversi fattori rispetto al processo di cambiamento interno delle isole culturali che rimangono nello stesso spazio fisico. Per prima cosa le condizioni fisico-ambientali del territorio di arrivo (ad esempio nuove condizioni climatiche provocano cambiamenti nell’alimentazione, nel modo di vestire), in secondo luogo la consistenza numerica del gruppo umano eventualmente già presente. Arrivare in uno spazio vuoto o quasi facilita la ricostituzione dell’isola culturale (vedi quanto sono ancora “British” Australia e Nuova Zelanda), mentre l’essere minoritari in una società già costituita e organizzata obbliga alla “negoziazione”, alla rinuncia o modifica delle proprie abitudini anche se tendenzialmente si cerca di mantenere la vicinanza fisica con chi parla la tua lingua e condivide la tipologia delle relazioni sociali; vedi ad esempio le Chinatown o le Little Italy nel mondo. Come pure sono significativi i casi di lingue o dialetti marginali che rischiano l’estinzione (o sono quasi estinti) nei luoghi di origine, ma che mantengono la loro fissità, ormai anche un poco arcaica, a New York (censiti più di 800) perché i parlanti la tengono in vita grazie al fatto che continuano ad usarle per le relazioni sociali interne al gruppo (Scevola, 2010).

Nonostante ciò figli e nipoti,  le seconde e terze generazioni, manifestano i segni evidenti del processo di deriva culturale. Questi acquisiscono una doppia comprensione linguistica e vivono in uno spazio fisico che per loro non è “nuovo”, ma il proprio, e quindi subiscono l’effetto di memi più differenziati rispetto a genitori e nonni e nello stesso tempo ne producono di originali. Che hanno effetti anche sulla comunità preesistente (soggetta anch’essa al processo di deriva culturale) a seconda della consistenza numerica del gruppo di recente immigrazione e anche della tipologia e dell’impatto dei memi culturali di cui sono portatori (i memi del legame di sangue famigliare sono tra i più potenti e stabili, ma la diffusione del consumo della pizza negli USA è un evidente esempio di deriva culturale al punto tale che più della metà dei giovani pensa che l’abbiano inventata loro). In ogni caso sia l’assetto del territorio (come è fatto) che gli stili di vita confermano e/o creano i memi. Nella geografia politica – geopolitica, intesa come pratica di analisi intellettuale di dinamiche in territori e tra gruppi umani, non si presta sufficiente attenzione a tali pratiche (isole e derive culturali), oppure è un’attenzione marginale e/o settoriale.

 

 

Essere epistemologicamente anarchici per capire lo spazio

 

William Godwin, considerato (a posteriori) il padre teorico fondatore dell’anarchismo, iniziava (1783) la sua riflessione sulle pratiche e i presupposti “ideali” dell’educazione con la frase “i due strumenti principali del potere umano sono il governo e l’educazione” (citato in Pancera, 1992, p.5). Si era ancora prima dell’affermazione ideale e pratica della necessità di impartire una educazione sistematica, generalizzata e “pubblica” ai giovani per sostenere il comportamento civico ed il benessere dei cittadini nell’era del post-Illuminismo e Godwin sottolineava che “per educazione […] io intendo il senso più comprensivo che può essere associato a questa parola, incluso ogni incidente che fa sorgere un’idea alla mente” (ibid, p.54, corsivo mio). Quest’ultimo riferimento è concettualmente vicino se non uguale all’idea di meme.

Ma certo l’azione dell’educazione oggi è sempre più dipendente dalla diffusione di memi-idea veicolati dal sistema globale dei mass media (e dei social media) piuttosto che dai sistemi scolastici. Un sistema mediatico mondiale che tende ad essere sempre più multipolare come proprietà e raggio di diffusione, ma i cui poli sono comunque strumenti al servizio di chi detiene il potere (economico e/o politico) locale o “glocale”, che ha interesse a diffondere informazioni e narratives (cioè descrizioni-racconti-rappresentazioni) che non mettano in discussione la struttura stessa del potere, qualunque forma politica essa prenda. Dal lato dei social media c’è un maggior dinamismo e certo una maggiore presenza e diffusione di “pensiero divergente” e di informazioni non censurate rispetto a quello dominante, ma i social media sono anche il terreno fertilissimo di hoax (bufale), affermazioni e tesi di ogni tipo e in ogni campo che sono campate per aria, inverificate e inverificabili. Ma che diventano punto di aggregazione volontaria (tutte, seppur in diversa misura numerica) per un certo numero di “fedeli” che provvedono a ridiffonderle seguendo lo stesso meccanismo dei memi. La forza globale del sistema mediatico “tradizionale” (TV soprattutto e stampa) rimane però ancora molto più forte soprattutto col crescere dell’età dell’utilizzatore.

 

E se questo meccanismo di diversione, l’azione di questo meme potente ed egoista, fosse dilagato nel campo della geopolitica e delle sue dinamiche al punto che le narratives (narrazioni) con cui vengono raccontate (e le riflessioni teoriche su di esse), come pure i discourses (quadri ideali-concettuali) che le sottendono, fossero delle invenzioni dell’immaginazione, talmente ripetute e dibattute che vengono credute  vere? Che ci sia stata una trasmissione e ripetizione dei memi tra leader politici, decision makers, esperti e accademici che “sembra sia soggetta a mutare in modo non discontinuo e anche a omogeneizzarsi” (Dawkins, op.cit., p.257), creando così una “necessità” a partire da una mutazione “casuale” proprio come nel caso dei geni (Monod, 1970)? Con il risultato che si parla di territorio, di spazio, di strutture politiche spazializzate, di confini, di identità etniche quando in realtà si tratta dei “normali”, basilari comportamenti degli esseri umani, come singoli e come gruppi. La nostra atavica consapevolezza che lo spazio fisico ci è necessario, ma che “esiste” come altro da noi, ci ha portato ad attribuirgli parte del nostro pensiero e della nostra immaginazione; perché noi stessi siamo necessariamente “fisici”. Lo abbiamo umanizzato a tal punto, lo spazio, da perpetuare di generazione in generazione il meme-idea che esista un  qualsiasi rapporto causa-effetto tra il luogo dove si nasce e le caratteristiche culturali, perfino intellettuali di chi vi è nato. E’ un potente e ripetuto meme che è diventato una idea-transfer (in senso psicologico).

E invece dobbiamo partire dal fondamento concettuale che la terra, di suo, non ha nessun nomos (nel senso di Carl Schmitt): sono i singoli e i gruppi umani che li inventano; per se stessi e in modo differenziato nello spazio e nel tempo.

Come geografi dobbiamo osservare lo spazio e gli esseri umani, e prestare attenzione a non confondere le caratteristiche dell’uno con quelle degli altri. Sono due soggetti diversi con un rapporto che è imprescindibile e necessario solo per gli esseri umani. Lo spazio fisico può fare a meno di noi, mentre le capacità mentali umane non possono prescindere dalla fisicità del corpo umano e dall’ambiente naturale circostante. Anche quando lo abbiamo trasformato a nostro vantaggio gli elementi fisici dello spazio artificiale che abbiamo creato hanno una “vita” propria  (Weisman, 2008). Altrimenti non si romperebbero e non dovremmo mai fare manutenzione.    

 

“Lo spazio è fondamentale in ogni forma di vita comunitaria; lo spazio è fondamentale in ogni esercizio del potere” (Foucault, 1982), “ma se il territorio è simbolo del potere” (Farinelli, 2009, p.15)  per i geopolitici dominio e spazio sono gli oggetti principali della loro analisi. “Il controllo dello spazio è una delle poste in gioco del potere (insieme al controllo del tempo, del simbolico, della produzione)” (Galli, 2001, p.11). In genere gli esperti di Relazioni Internazionali o di Scienze Politiche considerano lo spazio, quando lo considerano veramente, con occhi diversi dai geografi, ma c’è chi ha una lettura più consapevole e quando dice che “la modernità intrattiene con lo spazio un rapporto particolarmente difficile” tiene a precisare “lo spazio inteso in senso naturale” (ibid., p.12)

Ma il dominio cambia frequentemente forma e strumenti e quindi la nostra analisi deve usare strumenti adeguati per comprenderne a fondo le dinamiche. Strumenti flessibili, dinamici, anche creativi; si lavora con metodo, ma senza “un/il” metodo.

Troppo anarchico, troppo caos? “L’auto-organizzazione si nutre di disordine, che sa trasformare in ordine” (Farinelli, 2003, p.180). E’ una delle componenti della “sfida anarchica” quella di “azzardare chiavi di lettura  e soluzioni inedite ai problemi organizzativi  della società (l’assenza di dominio come stile plurale di vita)…” (Vaccaro, 2009).

Le caratteristiche umane, psicologiche e istintuali, rimangono nel tempo e in questo senso le dobbiamo considerare come “fisiche” cioè connaturate all’essere umano; siamo obbligati fisicamente a pensare e ad avere immaginazione come ad avere fame, dormire, ecc..

Si dovrebbe cercare di usare gli strumenti di analisi che fanno riferimento all’insieme di quelle caratteristiche umane, attingendo liberamente da qualunque sollecitazione intellettuale e combinandoli senza pregiudizi di “metodo” a priori, ma con un atteggiamento che Paul Feyerabend ha chiamato anarchismo epistemologico (Feyerabend, 2002, p.155). Feyerabend ha sottolineato la sua diffidenza per l’anarchismo politico a causa dell’accettazione della violenza per la distruzione delle regole sociali imposte e per la critica, che gli fa, di essere troppo fiducioso nella funzione sempre progressista della “scienza”, che invece lui stesso denuncia come una struttura mentale e sociale ormai costituita in forma di potere. Ma nel recente confronto teorico a proposito di post-modernismo e post-anarchismo non trova spazio la divisibilità tra il pensiero teorico e la prospettiva politica (che casomai è una pecca/mancanza del pensiero post-moderno), e si concorda  che “l’anarchismo è un sistema filosofico che incorpora le teorie del potere, la soggettività, la storia, la libertà, l’etica e la società” (Newman S., 2001).

 

Piramidi spaziali e caging

 

In campo socio-antropologico e geografico l’approccio epistemologicamente  anarchico parte dalla considerazione che quasi tutte le società umane sono organizzate secondo una piramide socio-economica fondata sulla diseguaglianza. Ma questa è una considerazione condivisa a largo raggio: “la distribuzione delle ricchezze [….] è semplicemente il risultato del potere puro e semplice. La ricchezza genera potere, quel potere che consente alla classe dominante di mantenere quella ricchezza.” (Stiglitz, 2006, p. 157)

In alto il ristretto numero di chi decide e/o controlla il potere economico e poi verso il basso il numero sempre più crescente di chi ha meno potere e reddito. Elisée Reclus (1905) indicava questo come una delle “leggi” (nel senso della frequenza) dei gruppi umani, cioè la tendenza di questi a organizzarsi in gruppi gerarchici; tale tendenza è contrastata dalla irrefrenabile spinta alla libertà dei singoli individui e per Reclus le dinamiche delle relazioni umane erano osservabili e spiegabili con la continua oscillazione tra queste due spinte contrastanti. Sostanzialmente come nel Tao il bianco e il nero, l’uno necessario all’altro, continuano a confrontarsi dinamicamente senza possibilità che uno prevalga sull’altro, producendo stabilità ed equilibrio in ogni attimo, all’interno di un continuo dinamismo.

E lo spazio fisico è l’oggetto, il campo di azione e di manifestazione di queste due forze in equilibrio dinamico e quindi costituisce il “soggetto” di studio del geografo perché lì si cristallizza la piramide gerarchica e si manifestano le relazioni umane; dove i memi “prendono corpo” e forma spaziale.

 

Oggi più che mai, in un mondo che si suppone globalizzato, dovremmo leggere le dinamiche geopolitiche e le strutture socioeconomiche dei diversi gruppi umani non restando intrappolati nei  memi quali “stati”, “identità”, “culture” “etnie”, “guerre”, ecc., ma partendo dalle semplici e chiare manifestazioni spaziali dei rapporti di potere che si dispiegano nello spazio fisico, che ne condizionano il suo uso, che lo “costruiscono” e lo “rappresentano”.

Dinamiche di potere spaziale che si potrebbero definire forse meglio in processi largamente diffusi di caging e selfcaging.

Ogni gruppo umano organizza la vita di relazione (e di potere) nello spazio fisico ed è in grado di essere autonomo nell’elaborazione dei propri criteri “giusti” di relazione, nel formare la propria isola culturale. Le forme politiche di questa autonomia e i principi che la sottendono sono oggetto di confronto interno, discussione, anche conflitto;  le forme di struttura decisionale sono sempre il risultato di una elaborazione teorica sviluppata nel tempo e che può cambiare (ad esempio in Europa il passaggio dalla monarchia assoluta a quella costituzionale fino alla democrazia parlamentare); anche per la relazione/contatto con altre forme di elaborazione autonoma. Per poter durare nel tempo  le strutture politiche e le ”regole” della vita sociale si devono fondare su caratteristiche istintuali, comportamentali e psicologiche presenti in tutti gli esseri umani, che tuttavia possono “sostenere” forme diverse di regole e abitudini. Quando ciò si verifica vediamo che strutture politico-sociali, anche diversissime e tra loro contraddittorie, durano per periodi lunghi (anche lunghissimi), ma in spazi differenti. L’idea di impero della Cina e il comunitarismo di villaggio dell’Africa sub sahariana ne sono l’esempio più chiaro.

Le piramidi socioeconomiche attuali fondamentali dell’azione (geo)politica negli spazi fisici sono sostanzialmente due: 1) c’è la piramide dell’iconografia (nel senso di Jean Gottmann, 1952), quella del sangue e/o dell’onore oppure dell’ideologia o della teocrazia, e poi 2) quella della circolazione (sempre nel senso di Gottmann), cioè economica e dei soldi; più rigida nella mobilità interna la prima, più dinamica la seconda, ma ambedue necessariamente, strutturalmente piramidali. I due modelli fondamentali di piramide si possono sovrapporre/intrecciare dando luce, per deriva culturale, a differenti strutture decisionali legate a isole culturali in spazi identificabili.

Il che comporta che l’azione della politica di potere si esercita tramite la stratificazione e la separazione degli spazi fisici e la differenziazione nel loro uso come,ad esempio, il privilegio nella qualità e nell’esclusività degli spazi dell’apartheid sudafricana fino al 1994 e non solo (Yiftachel, 2012). Come siamo oggi in presenza della guerra asimmetrica, così abbiamo (e c’è dagli inizi della storia dei gruppi umani, anche se in misure e modalità differenti nel tempo) un uso asimmetrico dello spazio fisico in base al potere detenuto/esercitato.

A partire da queste due strutture piramidali fondanti, nel mondo (cioè nello spazio fisico) ci sono diverse e numerose combinazioni (sovrapposizioni e/o varianti) delle due piramidi, giustificate da chi le controlla in base a riferimenti a valori ideali “naturali” e/o “universali” o culturali (la rappresentazione simbolica, iconografica dei “valori” e delle “tradizioni” ) e che oggi hanno preso in larga parte la forma dello stato (di vari stati) come struttura e modalità operative. Le varie tipologie di stato presenti nel mondo hanno a che fare con le caratteristiche dell’isola culturale dove si sviluppano; cambia il modo di funzionare e di operare dello stato, ma non cambia la struttura socio-economica che è sempre piramidale.  

 

A differenza dei tempi di Reclus oggi siamo ben più consapevoli che il “potere” si esercita non solo a partire dal vertice della piramide e dallo stato, ma che tutti sono in grado di esercitare un potere, non importa quale che sia la posizione relativa nella piramide socio-economica (Foucault, 2001). Cambia solo il “peso” e la portata spaziale dell’esercizio del potere. Può essere quello del padre nei confronti dei figli, o del marito/fidanzato nei confronti della moglie/fidanzata, o del dirigente nei confronti del sottoposto, del burocrate, del poliziotto che chiede la mancia, ma anche del più forte, del furbo, del bullo nei confronti dei pari grado, fino ad arrivare allo stato e alle sue istituzioni. In un contesto di potere ogni individuo lo esercita secondo le proprie possibilità e inclinazioni, ma la differenza di efficacia e di potenza tra chi agisce dalla punta della piramide e chi no rimane; è più potente il ministro dell’interno che il poliziotto che vediamo in televisione picchiare o sparare per reprimere una manifestazione non autorizzata. La fisicità degli atti ci lascia intendere i contesti di potere.

Ogni forma di potere, a qualunque livello, si trasforma in un processo di ingabbiamento, di caging, che viene esercitato (rin)chiudendo (ma anche escludendo da) spazi fisici e anche mentali, cioè limitando la possibilità di pensare un’azione, nei casi estremi perfino la possibilità di immaginare. Al regista iraniano Jafar Panahi è stato proibito perfino di pensare ad un film:  il processo di caging è sempre un processo di potere. Ma Panahi ha messo una minicamera sulla sua auto ed ha prodotto un “film” basato sulle parole e le vicende delle persone a cui ha dato un passaggio (“Taxi”, Orso d’oro al festival di Berlino 2015).

 

 

La rilevanza delle Iconografie  nel selfcaging

 

Ma perché i molti che hanno ben poco potere e/o reddito accettano una situazione che li vede maggioritari come numero e minoritari come possibilità d’azione e di decisione? Che li vede spesso ingabbiati o esclusi?

Perché la struttura sociale, il discourse culturale, lo spazio fisico del locale, quello dell’esperienza (Taylor, 1982), in cui si nasce e si cresce ha un “senso” così come è; per il solo fisico fatto di esserci e viverci. “Noi accettiamo la realtà del mondo così come ci si presenta” (detto dal personaggio Christof, regista del Truman Show nel film di Peter Weir, The Truman Show, 2005). E mantenere questo senso, tendenzialmente immutato, dà sicurezza. Rappresenta un’isola culturale che difficilmente viene messa in discussione a livello di massa. Inoltre il “senso” di un’isola culturale viene continuamente alimentato (e a volte costruito volutamente per fini politici) grazie a quelle che Jean Gottmann (1952) ha definito Iconography, quel complesso di memi di riferimento che si strutturano stabilmente e che danno sicurezza e senso di appartenenza, soddisfacendo alcuni dei più profondi bisogni psicologici degli essere umani. Tutti questi memi “forniscono una risposta superficiale plausibile a problemi profondi e inquietanti dell’esistenza” (Dawkins, 1995, p. 255) e il meccanismo simile a quello della selezione naturale “favorisce i memi che sfruttano a proprio vantaggio l’ambiente culturale” (ibid, p.262); cioè le cosiddette  “tradizioni”, le “identità”, o più semplicemente i luoghi comuni e le abitudini quotidiane, quali che siano. Questo è essenzialmente il processo quotidiano e diffuso dell’autoingabbiamento, del selfcaging. Fare scelte dichiarate e vissute come libere che portano a comportamenti imitativi omogenei e largamente condivisi (portare il velo nel mondo musulmano o cambiare colore e/o pettinatura nel mondo occidentale).

Si tratta di un meccanismo comportamentale tipicamente umano e quindi largamente diffuso soprattutto perché inconsapevole. Ma non sempre obbligato e senza via di scampo. Gli esseri umani hanno tutti una spinta individuale (che in certi contesti e condizioni può diventare diffusa e collettiva) al cambiamento, alla scoperta; Gottmann l’ha definita Circulation e sembra molto simile concettualmente alla insopprimibile spinta degli individui verso la libertà affermata da Reclus. E anche Dawkins ricorda che un aspetto unico dell’uomo “è la sua capacità di previsione conscia”, quindi “abbiamo il potere di ribellarci ai nostri creatori” (ibid., p.264). ). “Volgere lo sguardo alle nostre appartenenze permette di acquisire coscienza di dinamiche di socio potere che subiamo inconsciamente e che dettano il nostro agire (Boni, 2011, p.205).

 

Dovrebbe valere anche per i geopolitici, per i giornalisti, per gli accademici, per gli esperti di Relazioni Internazionali e per gli attori delle dinamiche geopolitiche (leader di governo). Ma viene  il dubbio che non sia così. O almeno che non lo sia se non occasionalmente; perché come esseri umani tutti siamo dentro la dinamica del caging-selfcaging e delle iconografie mentali consolidate.

 

Le Iconographies sono rappresentate oggi non solo dalle manifestazioni simboliche e retoriche dello stato e dell’autorità in genere, ma anche dai fenomeni di massa, che si manifestano in dimensioni sempre più globali: calcio, moda e mode, consumismo, programmi TV, film, comportamenti che vengono visti e imitati, ripresi e diffusi (vedi YouTube, Istagram e Tik Tok, ecc.), culto di personalità (persone famose, influencer o leader), ecc.. Non c’è differenza tra questi memi e i meccanismi mentali geopolitici che producono e diffondono memi-idea come nazione, identità, etnia, legame emozionale con la “mia terra”, (in)sicurezza, indipendenza, autodeterminazione, l’Altro cattivo, la pace, terrorismo, Occidente, Islam, ecc.. E come nel caso citato della “rete” il processo di caging, di irrigidimento tramite iconografie passa sempre di più attraverso una narrative di libertà di scelta individuale e/o di “valori” scelti senza costrizioni e spesso pensati come universali. Ed è il paradosso anche del selfcaging, cioè della nostra “scelta” di costruirci volontariamente la nostra gabbia nei gesti quotidiani; da non prendere solo nell’accezione negativa di privazione. Banalmente tendiamo a ripetere lo stesso percorso per fare la spesa, per prendere il giornale, siamo ripetitivi nel frequentare gli amici, cerchiamo omogeneità/vicinanze culturali o di classe sociale nella scelta della scuola per i figli, nel scegliere e arredare la nostra casa … all’Ikea. Ci si sente liberi perché abbiamo “scelto” o magari attivato uno o più gruppi su Facebook e milioni di individui cedono volontariamente, a un sistema gestito da pochi per fare un mucchio di soldi, informazioni personali che poi si cerca di proteggere con difficoltà tramite l’approvazione di leggi che garantiscano la privacy sui dati sensibili personali.

E allora il quotidiano “giusto” o il canale televisivo o il sito web migliore è quello che dice o mostra quello di cui siamo già convinti; è “la tendenza naturale a cercare elementi di prova che corrispondano alle nostre idee preconcette e a crederci, ignorando tutto il resto” (Giles, 2010).

 

Se questa è la dinamica diffusa e dominante, allora, forse anche noi geopolitici abbiamo contribuito a sviluppare una deriva culturale che ci ha portato alla costruzione di una isola culturale in cui, mostrando anche sofisticate capacità di analisi, dibattiamo e approfondiamo con grande dispendio di intelligenze e pagine stampate concetti, teorie, dinamiche, ecc. che sono solo la rappresentazione della realtà. Siamo talmente immersi nella piramide socio-economica e di potere (e delle sue iconografie) che non ne abbiamo quasi più percezione; e quello che è più grave è che dando per scontato lo spazio fisico non lo osserviamo più con la dovuta capacità di analisi; umanizziamo la fisicità e dimentichiamo la fisicità umana.

 

Allora, forse, la banalità, la semplicità della condizione umana e delle sua necessità fisiche, e nel contempo la consapevolezza della complessità della psicologia umana sono più utili per capire conflitti e dinamiche; e quindi nelle nostre riflessioni bisogna dare centralità, considerare come fattori decisivi “geopolitici”, più importanti di altri per quanto riguarda le motivazioni comportamentali, le esigenze di base, fisiche, degli esseri umani: bere, mangiare, dormire, avere bisogni corporali, fare sesso, avere vestiti e una casa adeguati al clima. E quelle psicologiche che possiamo considerare come necessità “fisiche” della mente umana, cioè quei meccanismi biologico-istintivi che sono presenti in tutti gli esseri umani e che non derivano dai memi anche se ne vengono fortemente influenzati: vivere in gruppo, essere apprezzati, essere solidali, proteggere i piccoli, sognare il futuro (soprattutto per i figli) e avere desideri, avere “cattivi pensieri” (come l’invidia e la rabbia), avere paura, avere consapevolezza della morte. La crescente pressione migratoria cui è stata sottoposta l’Europa negli ultimi anni e soprattutto nel 2014-2016, per la mancata soluzione della questione siriana (e di altre) oltre che per la permanente disparità economica mondiale, nasce proprio da quei “bisogni” che sono basici. I flussi migratori superano ostacoli fisici (naturali o artificiali) e quando non ci riescono (o vengono bloccati in un punto) sanno trovare e si reindirizzano verso altri punti più “deboli”.

La qualità della vita quotidiana è un fattore geopolitico.

A titolo di esempio nel caso della Striscia di Gaza, il blocco del movimento delle persone, il contingentamento fisico dei beni in entrata e il processo di caging che queste cose innescano sono elementi rilevanti, il punto di partenza per capire quella dinamica geopolitica (e sicuramente per cercare soluzioni) al pari, se non di più, delle dichiarazioni iconografiche (scontate e ripetitive) di un qualsiasi esponente di Hamas o di un ministro israeliano. L’affermazione iconografica del caging esterno (sicurezza di Israele in pericolo) consente al governo israeliano, tramite i mass media e l’azione militare, un caging della e nella Striscia, fisicamente asimmetrico, come numero di privazioni, vittime e distruzioni, rispetto ai danni verso Israele dei razzi Qassam. E grazie all’ingabbiamento fisico della Striscia ed al suo valore iconografico i leader di Hamas operano un caging sulla popolazione palestinese che è giocato sia sui simboli che sull’uso degli spazi fisici. L’iconografia dell’Islam si traduce in slogan e gesti retorici, in comportamenti ammessi o proibiti e sorvegliati dalla milizia; quella della resistenza armata al sionismo si materializza nel lancio di razzi Qassam che certo non ha prospettive di vittoria. Ma intanto Hamas non ha concorrenti nella gestione del potere.

Del resto l’intervento strutturale sull’altro territorio palestinese della West Bank, operato tramite gli insediamenti/colonie in stile occidentale e in continua espansione, e il complesso delle comunicazioni stradali, sono indicatori e fattori fondanti del processo di caging, sotto la forma di check-point, Muro-“fence”, strade vietate-separate, e selfcaging che diventa esclusività ebraica, anche come stile di vita, negli outpost illegali e in quasi tutti gli insediamenti tollerati o autorizzati dal governo (Weizman, 2009). Le forme del processo sono diverse (anche per l’evidente enorme differenziale di disponibilità economica tra lo stato di Israele e l’Autorità Palestinese), ma la dinamica è la stessa che a Gaza. Lo spazio fisico (bloccato o modificato) che diventa condizionante geopoliticamente e produce comportamenti e azioni “geopolitiche”, prevalentemente una abitudine/assuefazione mentale alle condizioni di vita quotidiane oppure un minoritario senso di ribellione. Che comunque non può essere sconfitto proprio per la fisicità quotidiana dell’esercizio squilibrato e asimmetrico del potere che continua ad alimentare il senso di ingiustizia.

 

Manifestazioni spaziali e comportamentali (selfcaging) della differenziazione primaria

 

Se sono le esigenze umane che sostengono (o provocano) le dinamiche geopolitiche i criteri e gli strumenti di analisi cambiano: la differenziazione più evidente nella piramide socio-economica e nella gestione-soddisfacimento delle esigenze citate è quella tra ricchi e poveri, tra privilegiati e esclusi, tra sfruttati e sfruttatori, tra chi può decidere e chi deve subire; a prescindere dalle dichiarate appartenenze nazionali, dalle pretese identitarie, culturali, valoriali, ecc.. E appare significativo che  in questo tipo di struttura gerarchico-piramidale fondata sui soldi il mondo legale e quello criminale non hanno obiettivi differenti; cambiano i modi e gli strumenti d’azione, ma non sempre. Anzi, sempre più le modalità operative dell’economia criminale e del riciclaggio dei soldi “sporchi” si intreccia sinergicamente col processo di finanziarizzazione globale dell’economia (Galullo, 2010), si manifesta concretamente nel controllo e negli effetti che ha sul territorio oltre che sulle persone. Vale la pena di ricordare che la crisi finanziaria mondiale del 2007-09 ha avuto la sue radici nella disinvolta gestione dei mutui per l’acquisto di un bene primario ed essenziale per la vita umana come l’abitazione e che edilizia e infrastrutture sono tra i principali settori di investimento in cui le mafie nazionali e internazionali gradiscono “lavare” i proventi dei traffici illeciti. Non c’è stata crisi economica-finanziaria degli ultimi 30-40 anni che non sia stata preceduta da una cosiddetta “bolla immobiliare”. E’ la “particolare logica dell’industria finanziaria, tipicamente gerarchica e selettiva: mentre le sue attività si estendono alla sua base in continuazione, al tempo stesso cresce la concentrazione al vertice” (Farinelli, 2003, p.195).

 

Le differenze  di reddito e potere  incidono direttamente sia nel soddisfacimento dei bisogni primari sia nel “sogno” e nell’immaginario; e incidono direttamente anche nella proprietà e nell’uso differenziato degli spazi fisici, nella determinazione della loro forma e dimensione. L’abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni sotto la forma dello zoning dei quartieri cittadini, testimoniato dal costo differenziale per metro quadrato e da qualità-tipologia dei materiali usati come pure dall’aspetto delle case; con oscillazioni estreme che vanno dalle comunità fortezza e super sorvegliate dei ricchi agli enormi quartieri-slums  delle metropoli dei paesi poveri. Dice il noto architetto italiano Vittorio Gregotti: “la città più che accogliere seleziona, produce scarti sotto forma di quantità crescente di immondizie, ma anche di esuberi umani che il potere tenta di contenere in recinti. Il recinto, lo spazio sorvegliato (ricchissimo o poverissimo) è quindi un’idea che va molto al di là del tema della sicurezza, è il principio di una concezione della stessa città come somma di ‘accampamenti’ reciprocamente impermeabili” (Corriere della Sera, 27 luglio 2010, p.39).

Ma questa differenziazione primaria è presente anche nelle culture non urbane e anche lì si fonda sull’uso differenziato dello spazio fisico, come pure sulla differente qualità e quantità di proprietà di “cose”, sulla differente possibilità di incidere sui cambiamenti nello spazio fisico e sui comportamenti del gruppo.

L’asimmetria ricco/povero innesca un meccanismo per cui tendenzialmente ci si rinchiude (o si è costretti a rinchiudersi) in spazi dove i vicini sono “omogenei” a noi e si innesca un processo mentale che ci fa ragionare sempre intorno agli stessi concetti e nelle stesse modalità di vita, che fa circolare sostanzialmente gli stessi memi. E’ la logica del country club/campo da golf che oggi diventa di massa col villaggio turistico e la nave da crociera. E’ il meccanismo delle eterotopie (territori-spazi “altri”)  foucaultiane (Foucault, 1984).

I più giovani crescono in gabbie volute o costruite dai genitori, subiscono l’influenza “percettiva” dell’ambiente circostante e che frequentano; così pensano che il mondo, tutto lo spazio fisico, sia uguale a quello che conoscono e soprattutto che funzioni secondo le stesse abitudini che hanno visto e sperimentato. Ma diventano attori attivi di caging/selfcaging loro stessi quando copiano/ripetono comportamenti (fisicamente visibili in posti fisicamente frequentati o conosciuti tramite i mass media) o cercano luoghi dove sanno già cosa trovare: sempre quello che conoscono (come McDonald’s o KFC, o i mega centri commerciali con i vestiti e gli oggetti di moda al momento) e che dà quella tranquillità che consegue alla sensazione di esercitare un potere decisionale apparentemente autonomo, sia pure piccolo e limitato nel tempo e nello spazio; al limite basta anche solo guardare. E il Mall (centro commerciale) distrae dalla personale differenziazione di posizione nella piramide socioeconomica proprio mostrando in un ambiente accattivante e in assoluta evidenza la fisicità dei beni nelle vetrine che però possono essere acquistate solo in base alla propria posizione nella piramide. “L’individuo contemporaneo si percepisce a valuta gli altri prevalentemente in base alle scelte nel consumo” (Boni, 2009, p.150) e il Mall allo stesso tempo rafforza e nasconde che “l’esistenza economica dell’individuo viene appiattita su un paradigma unico: lavorare per guadagnare, per poi spendere come consumatore, il tutto all’interno della medesima logica mercantile” (ibid, p.147).

Il senso (voluto, subìto, accettato o vissuto inconsapevolmente) della propria isola culturale (individuale e/o di gruppo) produce un meccanismo di autoingabbiamento, di selfcaging mentale che diventa e/o produce selfcaging spaziale.

E’ un processo mentale profondamente umano, e quindi necessario, ineludibile. In questo senso protettivo ed equilibrante: ‘a home means walls’ (una casa significa muri) dice una donna migrante di oltre 80 anni che ha cambiato 17 volte “case” nella sua vita ( Tovi Fenster, conferenza su: ‘Migrant Women over 80: the Meanings of Home, Belonging and Memory’, Università Milano-Bicocca, 30 aprile 2010).

Però contrastabile quando si raggiunge la consapevolezza della sua portata politica e di potere (su di noi e sugli altri) perché anche il processo di selfcaging è un processo di potere, ma rivolto verso se stessi; molto spesso inconsapevolmente. Ma anche quando è consapevole spesso appare come “giustificato” da vantaggi, o male minore rispetto al non conosciuto/percepito, rispetto alla paura dell’ignoto o del “nemico”.

Risulta paradossale il caso estremo dei capi mafia/camorra italiani che restano latitanti per anni o anche decenni e che poi quando vengono scoperti e arrestati si scopre che pur di potere esercitare il potere, perfino  di vita e di morte (caging estremo), hanno vissuto prevalentemente rinchiusi in spazi piccoli o squallidi (selfcaging) insieme a quantità enormi di soldi (lì inutili), con videogiochi, giornali sportivi e immagini della religiosità cattolica popolare. Ma hanno investito in molte proprietà immobiliari e nel possesso della terra che non utilizzano se non occasionalmente o servono al funzionamento della struttura gerarchica e delle attività criminali.

 

 

Il geografo osserva lo spazio pubblico/privato, e inizia a considerarlo dal punto di vista fisico

 

Se accettiamo queste premesse, come possiamo, come intellettuali e geopolitici, affinare la nostra consapevolezza di tali meccanismi? Quali accorgimenti/criteri selettivi usare? Come uscire dal nostro selfcaging intellettuale?

Il modo è quello tipico del geografo: osservare con attenzione. Seguendo il suggerimento di Gerard Toal (1996) “an educated geographer is an observer” perché “Geography is seeing, not writing” (“un geografo ‘educato’ è un osservatore” perché “la geografia è vedere e non scrivere”).

 

Il cosa da osservare è principalmente la tripartizione dello spazio (Eva, 2012); poi il tipo di relazioni umane che vi agiscono.

Significa considerare, “vedere”, lo spazio da tre punti di vista: come fisico [-biologico] (la materialità di tutto ciò che non ha consapevolezza della propria morte, compresa la fisicità degli esseri umani), come percepito (tutto ciò che è soggettivo, emozionale, di ogni singolo essere umano), come rappresentato/simbolico (tutto ciò che viene raccontato da narratives o asserito tramite l’attribuzione di valore metafisico o trascendente, anche attraverso simboli da accettare come icone [indiscutibili]).

Con l’approccio suggerito dal creativo pensatore anarchico Colin Ward, attivo nell’auto-organizzazione territoriale e nell’educazione, scomparso nel 2010, che diceva “tendo a pensare in termini di esempi pratici o di esempi concreti” (citato in Goodway, 2003, p.69).

 

Lo spazio percepito (quello che noi crediamo di vedere come oggettivo mentre invece lo interpretiamo) è quello che sostiene il processo di selfcaging.

Lo spazio rappresentato/simbolico (quello che ci viene descritto/raccontato o che affermiamo come vero e/o pieno di significato) sostiene il processo del caging.

Questi sì sono meccanismi a fortissima (ma non totale) influenza psicologica; molto più di quanto in passato si pensasse fosse il condizionamento determinista dello spazio fisico (ambiente e clima) sui comportamenti dei gruppi umani e dei singoli. Il successo avuto dalla tesi di Samuel Huntington della Clash of civilization (1993) mostra come oggi “il senso comune”  attribuisca alla “cultura” (civilization) la stessa forza determinista che si attribuiva un tempo alla natura. “Il senso comune si nutre quindi di discorsi falsi ma potenti perché appetibili, seduttivi, introiettati e riprodotti nella prassi, a volte diffusi con caratteristiche analoghe in molti circuiti culturali” (Boni, 2011, p.193).

 

Ma il primo e fondamentale punto di partenza per il geografo (e il geopolitico), il suo approccio metodologico deve essere l’attenta osservazione dello spazio fisico, di una materialità (anche biologica) che è altro da noi, a partire dagli oggetti e dalla fisicità della nostra vita quotidiana, ma che include quello che in noi è fisico come la necessità di bere e mangiare, ecc., e che comprende anche la necessità di avere immaginazione. Una materialità così come è, a prescindere da “noi” come umanità, dai suoi rapporti con essa, dalle modifiche che gli esseri umani sono in grado di introdurre o hanno introdotto; e questo ci aiuta a liberarci dai pregiudizi (la percezione degli altri e di cosa ci circonda) e dalle costruzioni/incrostazioni mentali che ci “inventiamo” o che ci vengono somministrate (i memi del nostro immaginario e/o delle iconografie). A partire dallo spazio fisico possiamo leggere con più precisione la concretizzazione della piramide socio-economica e dei vincoli/condizionamenti all’agire umano (ad esempio la forma e la distribuzione delle case, la configurazione degli spazi pubblici e la loro fruibilità, le zone private/protette/esclusive, ecc.); perché se riusciamo a considerare la materialità dello spazio possiamo vedere e comprendere meglio le conseguenze fisiche dell’azione dei gruppi e dei singoli, e comprendere come si articolano le relazioni socioeconomiche in quel luogo, il diverso uso che dello spazio fanno i singoli e i gruppi. E anche le “forme” dell’immaginario che agisce in quel luogo.

 

E dunque, come geopolitici, di fronte a crisi più o meno conflittuali o a dinamiche che sembrano complesse invece di “chi comanda qui, e cosa pensa o dice di essere o voler fare?” possiamo domandarci “com’è strutturato lo spazio fisico ‘locale’? Cosa è frutto del caging e cosa del selfcaging?  Gli esseri umani, qui, di cosa hanno bisogno materialmente o cosa vorrebbero per una vita degna di essere vissuta?”. Osservare con attenzione e provare a rispondere a queste domande può fare di noi geopolitici soggetti utili a favorire processi di pace invece che analisti abili a descrivere gli effetti territoriali delle decisioni di chi comanda. Non perché le decisioni dei leader siano ininfluenti, ma proprio per capire meglio da dove vengono e che effetti possono produrre.

“Là dove la modernità ritiene di assistere all’azione di soggetti, occorre sforzarsi di vedere solo reti di pratiche contingenti, di constatare che avvengono cose, che succedono fatti” (Garcia, 2009).

 

A titolo di esempio, per sostenere o innescare processi negoziali di convivenza nello spazio e/o di pacificazione nei territori contesi in Israele/Palestina (Newman D., 1996) la questione nodale, fondamentale, non è quella della rappresentazione e di chi ha titolo per negoziare (si deve trattare con Hamas? E Hamas deve trattare con Israele?), ma è quella di come limitare disuguaglianze e privilegi (Eva, 1999), e limitare la portata e la proprietà degli spazi privati (senza farli sparire), visto che il controllo esclusivo dello spazio senza limitazione “concettuale” è uno dei pilastri simbolici e fattuale della piramide socio-economica e del processo di caging-selfcaging, che sono fattori generatori di conflitti.  Dare risposte “fisiche” ai bisogni umani costituisce la base irrinunciabile di qualsiasi processo di pace; e questo ha bisogno di tempo, che però deve essere reso visibile da cambiamenti effettivi nello spazio fisico. Certo, ogni processo di pacificazione va sostenuto anche sul piano del percepito e del simbolico, ma  i suoi effetti devono essere fisicamente visibili nella vita quotidiana. Affinché il processo di pace possa diventare una idea-transfert.

E’ curioso che gli spazi privati, la loro quantità, estensione, “protezione”, tipologia, non compaiano mai nelle analisi geopolitiche e nelle relazioni internazionali come fattori significativi. Gli spazi privati sembrano a-politici per definizione, perché non sono condivisi e al loro interno si danno regole d’uso autonome. Ma queste regole autonome sono quasi del tutto simili a quelle degli spazi pubblici gerarchici; perché si fondano sullo stesso atteggiamento mentale “piramidale”. Unica differenza sostanziale: negli spazi privati, in particolare economici, è esplicita e rivendicata la gerarchia di potere e/o l’esclusione dei molti dai processi decisionali. Ed è questa la più diffusa condizione di vita di noi tutti, il nostro caging quotidiano. La quantità di spazi privati dove spendiamo buona parte della nostra vita (lavoro e abitazione) è piuttosto consistente e sostiene la continua riproduzione del meme della “presenza del dominio come categoria centrale dell’immaginario sociale” (Bertolo, 2010, p. 86).

 

La ricchezza personale allarga non solo lo spazio fisico privato a disposizione, ma anche la quantità e la qualità di utilizzo degli spazi pubblici-condivisi; a chi ha meno o nessuna ricchezza rimangono solo questi ultimi, che gli appartengono solo formalmente e sul cui uso hanno solo un limitato (a volte limitatissimo o nullo) potere decisionale, quasi sempre indiretto.

L’azione della politica interviene principalmente sulle dinamiche e le relazioni negli spazi pubblici, quelli che necessariamente sono e devono essere condivisi e dove possono sorgere i momenti di conflitto visto che è qui che può dispiegarsi il processo di caging esercitato dal potere decisionale (politico e/o economico) e di selfcaging esercitato dai singoli individui e dai gruppi su se stessi. Ma dove è anche possibile una negoziazione più dinamica e aperta, perché negli spazi privati, invece, il meccanismo dell’esclusione e dell’esclusività della possibilità decisionale rende la negoziazione molto ridotta se non esclusa del tutto. Comanda il “capo” e/o chi è proprietario.

Chi negozia processi di pace deve confrontarsi su questioni concrete, relative allo spazio fisico e trovare proposte che affrontino/risolvano le necessità basilari, quotidiane degli esseri umani; e anche pensare come sostenere nel tempo il processo tramite “memi-iconografie” che favoriscano il confronto e la “circolazione”, perché i nemici più agguerriti sono i memi derivanti dalle percezioni soggettive della paura e dalle rappresentazioni iconografiche del potere, dal meme della spazializzazione esclusiva delle identità.

Con particolare attenzione agli spazi pubblici.

 

 

Nello spazio pubblico la negoziazione invece della piramide. Quali modelli?

 

Gli spazi pubblici possono e devono essere spazi di condivisione, ma le pratiche di relazione, le abitudini di vita, sono culturalmente orientate/determinate  e i diversi possibili presupposti culturali della condivisione (cioè come si manifestano i processi di caging/selfcaging) differenziano sensibilmente la loro fruizione e funzione da parte degli individui. Oltre alla differenziazione per disponibilità economica la differenziazione di genere, cioè cosa possono o non possono fare le donne, è la differenziazione “culturale” di uso degli spazi pubblici (ma anche privati) più evidente in tal senso, globalizzata e con rilevanti effetti geopolitici, tendenzialmente sottostimati nella geopolitica non critica (dell’Agnese, 2005).

Però, al di là delle diversità apparenti, i modelli culturali di piramide socio-economica in azione sono sempre i due già citati all’inizio:

Modello 1 = onore/sangue o ideologia o teocrazia, Modello 2 = economia/soldi;.

Un terzo modello sarebbe auspicabile e ci sarebbero anche esempi già praticati e/o in corso (es. il Confederalismo democratico in Rojava, nord-est della Siria, che propone e cerca di praticare le iconografie di femminismo, ecologia e democrazia dal basso, con lo slogan “donne, vita, libertà”).

Modello 1 = Lo spazio pubblico può essere condiviso, ma subendo una autorità gerarchica che ne “irrigidisce” l’uso con regole esplicite e cogenti, con “valori” affermati come giusti e quindi indiscutibili, e con sistemi di controllo forti e diffusi. La possibilità del conflitto (talvolta anche del dissenso) è negata per principio (esempio estremo la Corea del Nord), ma non può impedire scoppi violenti di insofferenza e rivolta (vedi l’Iran dopo le elezioni di metà 2009 e dal 2022 il movimento delle donne contro il velo obbligatorio, o la resistenza dei monaci buddisti in Myanmar/Birmania nel 2008, o il fatti di Tunisia, Egitto, Siria, Yemen, ecc. a inizio 2011, le cosiddette “primavere arabe”).

Modello 2 = lo spazio pubblico può essere condiviso senza conflitti destabilizzanti perché è in opera o è stato “costruito” (Iconografia) un immaginario di condivisione (meme della coesione nazionale oppure della società “migliore” perché democratica) che però produce un’isola culturale anch’essa tendenzialmente totalizzante. Il singolo vi si adagia per quieto vivere, o perché non la avverte, oppure perché la condivide e non ha ragioni di opporsi (non lo pensa nemmeno come possibile); si attiva il selfcaging. Le manifestazioni conflittuali sono più diversificate, frammentarie, ma meno violente in genere e abbastanza facilmente controllate (caging) dalla struttura politica che può contare sull’appoggio silenzioso e acquiescente della maggioranza dei cittadini, anche utilmente “distratta” dai mass media. Può valere per l’Occidente che ha i suoi modi di distrazione di massa o per la Cina del dopo Deng Xiaoping che può contare da molto tempo su abitudini sociali forti e coese oltre ad un sistema di controllo efficace, “confuciano”, da parte dell’autorità politica.

Ma ogni cultura che si sente o vuole (pretende di) essere “forte” ha i propri modi di dare senso (costrittivo) alla vita sociale. Rivendicando o inventando la superiorità delle proprie tradizioni e marchiando il territorio (vedi le centinaia di simboli uguali alla bandiera della Lega Nord nella scuola  pubblica elementare-media di Adro, Lombardia, nel settembre 2010, poi fatti togliere in gran parte per azione del prefetto perché illegali, dopo un esposto di una parte dei cittadini).

La Cina è un interessante caso di studio perché ha combinato alcuni elementi chiave dei due modelli indicati; finora con successo. E il trend globale sembra a chi scrive che vada verso  un “modello Hong Kong”. E’ un modello che prevede/accetta la differenza di ricchezza personale (senza limiti) e un sistema decisionale gerarchico-negoziale sotto tutela economica, in cui alle cariche pubbliche (cui si accede prevalentemente per cooptazione) si riconosce l’autorità perché e fintanto che garantisce gli interessi economici dei gestori dei capitali, delle proprietà e non mette mai in discussione la legittimità della struttura di potere;  i soggetti “forti” vengono cooptati nella negoziazione e nelle decisioni di ampio respiro (lobbies) e/o gli si garantisce la rappresentanza politica (quote di seggi riservate) o se la garantiscono autonomamente con il sostegno economico diretto al “proprio” candidato o partito facendo la differenza nel successo in elezioni democratiche. Alla cittadinanza di Hong Kong si consente di esprimersi, e di esprimere i propri rappresentanti, tramite elezioni multipartitiche che però non possono incidere più di una certa quota percentuale definita nel processo politico-decisionale (a HK era il 55% dei deputati). Appare significativo, però,  che nelle elezioni suppletive a Hong Kong del maggio 2010, provocate volutamente dal democratico Civic Party, sia andato a votare solo il 17% degli aventi diritto. Il boicottaggio voluto/imposto da Pechino (caging) si è saldato col selfcaging (rassegnazione e senso di impotenza? Disinteresse? Antipolitica? Altre priorità?) dei cittadini e dei leader economici locali. Quando però ci sono manifestazioni possenti di piazza, soprattutto di giovani in favore di più democrazia, l’intervento del governo di Pechino, in collaborazione con le élite locali, è stato potente e la nuova legge elettorale ha ridotto a 1/3 la percentuale di rappresentanti direttamente eletti dai cittadini.

Infine (ed è il terzo auspicabile modello) lo spazio pubblico può essere condiviso perché è “negoziato”; cioè c’è un reale confronto/dibattito pubblico in cui le decisioni politiche e gestionali  vengono decentrate al più basso livello possibile. Gli individui trovano un equilibrio o risolvono la conflittualità nella continua negoziazione negli spazi condivisi, ma a partire dagli spazi individuali (mentali e fisici) che vengono presupposti come uguali e per questo vengono, tramite la politica, orientati all’uguaglianza. In Italia un timido esempio sono le quote di “bilancio partecipato” (piccole percentuali dei fondi comunali) che alcuni comuni lasciano, per come utilizzarli, alla decisione diretta dei cittadini. Nel mondo in casi più noti, che dovrebbero essere più conosciuti e studiati, sono il già citato Rojava e il Chiapas “zapatista” messicano.

Ma per poter avere una negoziazione tra “uguali” gli spazi individuali devono essere limitatamente esclusivi (cioè lo spazio fisico del sé è garantito, ma deve avere una portata spaziale limitata) e limitatamente differenziati quanto a “ricchezza”, per avvicinarsi concretamente alla “posizione originaria” di John Rawls (1971). Brutalmente significa limitare la proprietà privata dello spazio perché non basta che una società si dichiari formalmente democratica e/o abbia costituzioni o norme giuridiche di equilibrio tra poteri dello stato quando gran parte (la quasi totalità) della vita quotidiana e delle relazioni politiche e economiche avvengono in dinamiche di caging/selfcaging in cui i soggetti sono diversamente dotati di poteri e strumenti di azione, di capacità e consapevolezza, di possibilità decisionale nel fissare le regole per dominare e dare forma allo spazio fisico, di differenti dimensioni di proprietà dello e nello spazio fisico. Gli effetti negativi della differenziazione primaria tra ricchi e poveri erano ben presenti ai costituenti italiani quando hanno elaborato l’articolo 3 della Costituzione ed infatti nel secondo capoverso affermano che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (corsivo mio); si veda il commento critico in merito di Gherardo Colombo (2023).

E’ un articolo che mantiene appieno la propria forza concettuale, ma per sottolineare una piccola deriva culturale dal 1948 vale la pena evidenziare l’uso della parola “lavoratori” che oggi verrebbe considerato riduttivo se non addirittura discriminante verso altre categorie sociali.

 

Il “modello Hong Kong” ha un corrispettivo nel sistema occidentale parlamentare che segue sempre di più l’esempio degli USA. La partecipazione (e la sovranità)  dei cittadini viene sempre di più limitata al fatto elettorale (tendenzialmente con sistema maggioritario), con libertà e opportunità formalmente assolute e “uguali” di partecipazione, ma il processo di selfcaging (come pure certi meccanismi formali per esercitare il diritto di voto) porta a percentuali di votanti intorno al 50% degli aventi diritto. Anche la possibilità di scegliere cariche locali (ad esempio giudici e capo della polizia negli USA) o la frequenza dei referendum popolari (come in Svizzera) hanno una portata limitata evidenziata dal fatto che il sistema piramidale-gerarchico  è “fisicamente” selettivo sempre (tramite la cooptazione dall’alto o per selezione di censo e/o ricchezza) e che gli outsiders e/o le scelte collettive controcorrente rispetto alle prassi comuni sono molto ridotti di numero e occasionali. Quasi mai “rivoluzionari” e  molto spesso con l’obiettivo di conquistare il potere per irrigidire qualche pratica di caging (espulsione/contingentamento stranieri, limitazione delle diversità, restaurazione dell’ordine e del senso di appartenenza nazionale, ecc.)

Inoltre i sistemi elettorali maggioritari aumentano la rilevanza dei sistemi di conquista del consenso il cui ottenimento per vincere passa necessariamente tramite la raccolta di consistenti fondi per la campagna elettorale; e questi possono venire quasi esclusivamente o prevalentemente da singoli o da gruppi economici del vertice della piramide socioeconomica. I quali tramite l’azione di lobbying eserciteranno il loro “diritto” ad orientare/condizionare le scelte dei rappresentanti politici eletti dai cittadini (si veda la sentenza della Corte Suprema USA a proposito dei finanziamenti elettorali [liberalizzati] criticata dal presidente Obama nel suo discorso del 27 gennaio 2010). Non è un caso la crescita ed il successo elettorale nel mondo di leader politici ricchi personalmente o che rappresentano apertamente interessi economici ben individuabili oppure che hanno raggiunto la notorietà popolare grazie al sistema dei mass media; il quale sistema, necessariamente, è in maggioranza di proprietà e controllato dagli stessi soggetti del vertice della piramide socioeconomica. E chi ricco non è adeguerà il proprio programma elettorale alle aspettative dei possibili finanziatori della campagna elettorale; perché l’obiettivo è vincere.

Tramite l’infotainment si canalizza il consenso dei “clienti”-elettori grazie all’apparente differenziazione di narratives di uno stesso discourse. Da questo punto di vista si può dire che se nel modello cinese la carriera ed il confronto politico si esercitano e si sviluppano all’interno del partito, nelle democrazie parlamentari la “scuola di politica” viene fatta ormai dentro e tramite il sistema del mass media. In ambedue i casi, nella larghissima maggioranza dei casi, non si “sale” verso il vertice se non si è omogenei e quindi cooptabili dal sistema socio-economico dominante. Per paradosso il caso di una struttura sceicco-emiro come quella del Qatar da metà degli anni ’90 (dopo un colpo di stato “bianco” del figlio contro il padre) ha mostrato una capacità di cambiamento/deriva culturale rispetto al proprio contesto molto più veloce e per certi versi più rivoluzionaria di molte democrazie parlamentari; il capo unico decide e cambia le cose in fretta. E l’esempio emblematico di tale deriva culturale è l’istituzione di Al Jazeera TV che, anche per un caso fortuito, è diventata una fonte ascoltata delle narratives mediatiche internazionali, sostenendo il ruolo geopolitico crescente del Qatar. Un ruolo che non è stato solo di supporto al punto tale che  Al Jazeera viene considerata e trattata come soggetto politico (in Iraq le è stato proibito di avere un ufficio e nell’Egitto con elezioni pretese “democratiche” di Al Sisi tre suoi giornalisti sono stati processati per “terrorismo” e tuttora in carcere).

 

I soggetti economici decisionali, le transnational corporations, si muovono sempre più a livello globale, ma hanno bisogno di ambiti territoriali fisici con confini certi e autorità politiche che garantiscano loro i titoli di proprietà e la prevedibilità delle “regole” (oltre che “favori”). Cioè il sostegno dei propri governi (nel caso degli stati più potenti a livello internazionale) e le garanzie/connivenze (più o meno valide) che possono dare i singoli governi degli stati deboli per quanto riguarda il proprio territorio; come pure la disponibilità a proprio vantaggio dell’uso legittimo della forza (cioè polizia ed esercito) e/o della favorevole tassazione che discende dallo stato. Per questo il processo di globalizzazione economico-finanziaria non fa sparire gli stati, ma ne cambia solo parzialmente le funzioni e la portata delle leggi. Modifica la rilevanza relativa delle funzioni degli stati e, potendo influire sulle modalità e le direzioni dei flussi finanziari, i soggetti leader della globalizzazione finanziaria sono in grado non solo di provocare disastri e crisi (come quella dl 2008 i cui effetti perdurano ancora), ma anche di ricattare i governi con lo spauracchio di far mancare i cosiddetti “investimenti” in mancanza di facilitazioni e/o garanzie o in caso di politiche socioeconomiche non gradite (vedi il caso Grecia).

Per questo rimane la logica mentale (il meme) e spaziale degli stati, della “territorial trap” (Agnew, 1998) che ingabbia il pensiero comune e quello geopolitico nel riferirsi allo stato, con caratteristiche vestfaliane (territorio con confini fissi e riconosciuti), come unico perno/soggetto/attore necessario della politica e delle Relazioni Internazionali; quella logica che sostiene idealmente chi condivide l’affermazione che buone recinzioni fanno buoni vicini.

 

 

Dalla piramide al piano: con o senza recinzioni

 

Buone recinzioni non fanno dei buoni vicini. Tra buoni vicini ci posso essere delle recinzioni, ma anche no. E tra cattivi vicini non c’è recinzione che tenga, nel tempo e nella pratica: vedi le centinaia di tunnel scavati a Gaza, il lancio di razzi da parte di miliziani e le ripetute operazioni militari israeliane (2008-09, 2012, 2014, 2021, 2023).

La nostra attenzione deve essere puntata su come e di cosa sono fatte le recinzioni e sugli elementi fisici (comprese le condizioni di vita di base degli esseri umani che vi vivono) che differenziano il territorio ai due lati della recinzione; e questo vale anche senza recinzioni. E i segni della differenza sono le manifestazioni fisiche del potere presenti nello spazio fisico da una parte e dall’altra (e in come è fatta la recinzione e chi la controlla), perché esercitare il potere dà soddisfazione e gli esseri umani spesso non resistono a mostrarlo. E’ in questo che si vede se i vicini sono “buoni”.

Gli esseri umani, singolarmente e collettivamente, sono allo stesso tempo vittime e protagonisti del continuo processo di caging (più iconografico e connesso al potere) e di selfcaging (più soggettivo e individuale, fattore sia iconografico che di movimento). L’azione indipendente e difficilmente controllabile dei memi svolge la funzione di circolazione e favorisce sia l’irrigidimento che la composizione, scomposizione, ricomposizione dei gruppi umani nelle società, costituendo forse il carburante principale dei meccanismi “immaginari” che (tras)formano le isole culturali e le derive culturali.

Questa dinamica continua si mostra e si cristallizza nello spazio fisico ed è lì che deve puntare l’osservazione attenta del geografo. In particolare del geopolitico, che analizza le stesse dinamiche anche sotto la forma di quelle piramidi socioeconomiche che sono gli stati o qualsivoglia altra struttura di potere dichiarata formalmente e/o riconosciuta socialmente.

Magari con l’aspirazione soggettiva di contribuire ai processi di risoluzione/gestione della conflittualità umana.

Tra esseri umani liberi, uguali non solo formalmente, solidali, soddisfatti nelle esigenze di base della vita, la negoziazione è più facile e meno conflittuale e la questione recinzioni perde di rilevanza e diventa solo un gusto personale o una utilità pratica.

I processi di pace hanno successo se incidono sullo spazio fisico in modo equilibrante (cioè livellano le piramidi),  fronteggiano i memi culturali (quando diventano Iconografie) e i processi di caging e selfcaging per limitarne la portata, danno tempo agli esseri umani come singoli e come gruppi di essere parti consapevoli nella dinamica tra iconografia e movimento/deriva.

Quando attivano nello spazio fisico il comune senso di appartenenza alla condizione umana, per “costruire reti al posto di piramidi” (Ward, 1976). Reti come intrecci di libertà e non come strumenti di prigionia o separazione.

 

 

 

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The so-called “after Hamas” in Gaza: what to do? (19nov2023)

While the systematic destruction of homes and the occupation of the territory of Gaza by the Israeli army proceeds, among the usual few who decide the world’s geopolitical fate, someone has begun to wonder what to do in Gaza for “after Hamas” and which actors they could take control of the situation.

Meanwhile, as a geographer, I must start from the concrete conditions on the ground that can be expected when Israel decides that “Hamas has been eliminated.”

Here, the sore points begin with. Hamas cannot be eliminated physically, underground bunkers and many tunnels can be physically destroyed, and the accesses can be closed, but certainly not all. However, this is not Hamas’s essence. This entity is born and depends on people and not on the power of weapons. The ideology of Hamas, political Islam, will continue to live in leaders who are not in Gaza today, in the ideal and religious support it has in the various states of the Arab-Muslim world and above all in the substantial number of new militia volunteers made by all young Palestinian males who in these and the coming days have seen their homes destroyed, their relatives (parents, wives, brothers and sisters, children) and friends killed by Israeli bombings.

In Gaza, it can be estimated that there are around 300 thousand young Palestinian males between 18 and 30 years old, and I think it is concretely possible that 10% could want to take revenge with weapons against any Israeli Jew, even with the intolerable methods used on October 7 by the Hamas militiamen and other smaller groups who acted with their own type of local Islamic jihad.

This implies that what is delicately defined as “security control” in Gaza, that is, the ability to control people and prevent armed groups from reforming in the future, will have to be carried out by subjects opposed to political Islam who have no qualms about repressing, even by force, militiamen, and activists from that camp.

All this in the context of destruction of homes and infrastructures of all kinds–not only buildings and roads, but also power plants, water pipes, sewerage systems, electrical connections, etc.–in addition to the psychological devastation, especially in children, that the bombs and the forced exodus on foot or on carts have caused in the population of Gaza.

To bring the physical context of Gaza back to a barely passable living condition will take time, years, money, and a lot of money. Therefore, prolonged control of the territory from an administrative and political point of view combined, as already mentioned, with military control of the situation.

Whatever Netanyahu says, and as long as his political destiny is not at an end, Israel will not be able to remain in Gaza for years to militarily control and repress, as has been done since 1967 in the West Bank. Above all, he will not be able (and I believe he will not want) to administer Gaza; it would cost him too much economically and above all geopolitical terms. Currently, the thousands of deaths under the bombings, the majority of which are minors and women, and which continue to grow, are undermining the Western support he enjoys and even in the United States, whose public opinion has for decades been stable on his side no matter what he does. . In the Arab-Muslim world, even the states that signed the Abraham Accords diplomatically recognizing Israel will, I think, be forced to at least suspend them if they are not rejected completely.

Who then?

I acknowledge, regardless of my desires and ethical principles, that the global geopolitical context is not democratic, and those who decide are always leaders of rich and militarily powerful states. Never more than 10, some governments always present at the decision-making level, with the United States leading the way and others involved depending on where the crisis is located geographically.

Therefore, it seems to me that the unavoidable conditions are as follows.

1) Israel must accept (i.e., trust at least a little) that third parties are present with their own troops in Gaza.

2) the states that provide the military must be economically solid (to maintain troops for years) and ideologically opposed to the political Islam of Hamas and groups such as Islamic jihad and/or al Qaeda and similar; they must also be “credible” militarily, and credible means that they have demonstrated their military capabilities on the ground, that is, in some concrete armed conflict.

3) Many funds must arrive for years to rebuild the physical condition of civilian life.

4) The government of Gaza must be only administrative and not political for it to be accepted both by Israel and by those who send military and/or money. This means no elections for a few years, something to which the Palestinians have been accustomed for quite a while.

For points 1) (acceptance by Israel), 2) (militarily and economically sound), and 3) (fund providers), it seems to me that the only two possible states are Saudi Arabia and the Emirates United Arabs. The latter signed the Abraham Accords with Israel, and Saudis were involved in a US and Israeli strategy to convince them to sign them. Economically, they are strong and militarily cutting their teeth in the Yemeni conflict, in which they are directly involved. Both were “anti-Iran,” especially the Saudis, although thanks to China there has been a substantial diplomatic rapprochement in recent months. Above all, they are Emiratis, not democratic in the Western sense, and decidedly against the political Islam of the Muslim Brotherhood, especially in its militant aspects, such as Hamas and the like.

The military control of the situation in Gaza by the Emirates and Saudis would certainly be a guarantee that funds for the reconstruction of Gaza could arrive from a good part of the Arab-Muslim states; I also think that Qatar could continue to send funds for Gaza’s infrastructure and perhaps also Turkey which could “offer” the operational contribution of its expert companies in the construction and infrastructure sectors and have an economic benefit.

Point 4) is the most sensitive politically and also from the point of view of the context of the local and international political “theater”; that is, of the prestige, of the iconographies and of the widespread hypocrisy of the discourse, the conceptual framework of the few who decide for their own interests cloaked in noble principles. For this reason, I suggest that the future management of the Gaza should be administrative and not political. ANP is not a possible political entity; it has been demonstrated that it is neither capable nor credible.

What is needed is a government of technical experts in different specific operational sectors, from different state origins, proposed and evaluated by an international commission formally under the umbrella of the UN, but essentially supervised, in a dominant position, by the USA, Israel, Saudi Arabia, and Emirates. Egypt and Jordan should be involved in some ways. The control group can be expanded to include representatives of other governments involved economically, such as Qatar, Turkey, and some European governments, if they provide funds or operational technical capabilities in the field through their companies.

Given that serious crises, and this one in Gaza certainly is, produce changes that before the crisis were either rejected or considered unacceptable or impossible, it may also be possible to address the issue of the West Bank, which has been unresolved for decades. This, however, is a concrete situation that is much more difficult to resolve politically, precisely due to the conditions on the ground; there is no destruction, but on the contrary, the growth of buildings that are the central point of the problem and contribute to limiting the possible solutions unless we think creatively and clearly separate the question of citizenship from that of the administrative management of the territory. We need to move away from the nation-state mentality, that is, from the idea that a “state” has a contiguous territory, clearly bordered and governed by the representatives of a single “nation” in an exclusive manner.

Paradoxically, the situation in Gaza, from this point of view, is much clearer and more internal to the dominant conception of the nation-state: there is a unitary territory, clearly confined and inhabited by a single “nation” from a cultural point of view. A rare case in the world is unique, with a population of two million inhabitants.

This is why I believe it can (and should) have a future separate from the West Bank; it has more inhabitants than many small states in the world, the possibility of economic self-sufficiency (it overlooks the sea, with an exploitable gas-oil field), and internal political coexistence is less problematic due to the absence of substantial and “other” cultural groups, especially Israeli citizens.

This is why I see the hypothesis that I suggest here for the post-Hamas situation in Gaza as being feasible.

Hamas would not disappear in the Arab Islamic world, but in Gaza it would have very little or no margin for action, and therefore rockets would no longer be launched, except occasionally, in small and irrelevant numbers. Of course, to carry out an attack with a bomb or targeted killings, many men are not required, but the possibility of influencing the overall dynamics in Gaza would be negligible.

The greatest difficulty I see is in the heads of those who decide. I have no faith in Netanyahu, Gallant, Israeli Defense Minister, and many ministers of the current government. I do not think that the advisors and experts used by Biden are flexible and creative enough to escape the logic of thinking about geopolitics and politics in a pyramidal and power-based manner. Paradoxically, the Saudi autocrat Mohamed bin Salman and the Council of Emirates’ emirs may be quicker in deciding and opportunistic in understanding which actions bring prestige and economic advantages. The UN is hostage to the veto right of permanent members, and I do not believe that the Security Council, the only one authorized to approve the plan that I suggest, could (and would) oppose it. If the US likes it, France, especially the UK, usually follow along, and the interests of Russia and China are not affected.

For this reason, in the current geopolitical context, which I don’t like at all, I believe that my proposal could be the most useful and “understandable,” also acceptable by the powerful people I mentioned, but also by ordinary people, above all to give time and opportunity for the destruction to be repaired and for minds to try to deaden the pain and desire for revenge to look to a more tolerable future in terms of rights and living conditions in Gaza and hopefully also in the West Bank.

Israele etnocratico e palestinesi senza politica. Un problematico stallo.

3 febbario 2023

Testo del podcast pubblicato su Anchor, Spotify, Spreaker e Youtube (La geopolitica di Fabrizio Eva)

Negli ultimi giorni la questione israelo-palestinese è ritornata sulle prime pagine dei quotidiani e nei servizi dei telegiornali serali. Questo a seguito dell’operazione del 26 gennaio nel campo profughi di Jenin da parte dell’esercito israeliano mirata a neutralizzare dei militanti di gruppi combattenti palestinesi sospettati di preparare un attentato in Israele. Nello scontro sono stati uccisi 8 militanti e due civili, tra cui una donna di 60 anni che si è affacciata alla finestra di casa sua per vedere cosa succedeva ed è stata colpita da un cecchino dell’esercito. Il giorno dopo un singolo attentatore ha sparato per ritorsione sui fedeli, uccidendone sette, che uscivano da una sinagoga del quartiere Neve Yaakov; quartiere costruito come altri in mezzo a cinque villaggi palestinesi a nord di Gerusalemme in un’area inclusa unilateralmente da Israele nel territorio della città, dichiarata nel 1980 “capitale unica, indivisibile ed eterna”. E il giorno dopo ancora un tredicenne palestinese ha sparato contro due civili riconoscibili come ebrei, ferendoli.

Ritengo che la giovane età di quest’ultimo responsabile sia strettamente correlata al contesto attuale in cui si manifesta quotidianamente il confronto-scontro israelo-palestinese.

Nei giorni seguenti ai fatti di sangue si è dispiegato il solito copione politico e mediatico: Israele dice che è stata una operazione necessaria di antiterrorismo per impedire un attentato e che non vuole una escalation coi palestinesi. Da Gaza sono sati lanciati razzi (in parte intercettati, gli altri caduti senza fare danni), e Hamas definisce eroica la ritorsione contro gli israeliani, i jihadisti rivendicano la vendetta, l’Autorità Nazionale Palestinese protesta e sospende la collaborazione con Israele per la sicurezza. Il segretario di stato Usa Blinken arriva per la sua visita già programmata da tempo, incontra i leader delle due parti e ripete le solite generiche frasi: sostegno indiscutibile a Israele per la sua sicurezza  quando incontra i politici israeliani e condanna di tutti gli atti violenti che incrinano il processo di pace quando incontra il presidente palestinese. Aggiunge che gli Usa sono contrari all’espansione delle colonie nei Territori Occupati, ma poi non ci sono mai conseguenze alle parole.

Assistiamo ad un teorico processo di pace senza iniziative e sostegno da anni, e una situazione quotidiana sul terreno nei territori occupati e a Gaza che compare nei notiziari solo se ci sono particolari fatti di sangue, altrimenti niente; se non su twitter o altri social media. Eppure nel solo gennaio, entro il giorno 22,  sono stati uccisi dalle forze israeliane 18 civili palestinesi, maschi e prevalentemente giovani.

Circa 20 anni fa, dopo una mia visita in Israele e nei territori occupati, avevo ricavato l’impressione che i due gruppi, israeliani e palestinesi, crescessero i propri giovani senza cercare di mitigare la spinta alla rabbia, e alla ritorsione e alla violenza in taluni casi, come conseguenza dello squilibrio di potere che veniva esercitato sul terreno dai militari, dai poliziotti e dai funzionari dello stato israeliano nei confronti della popolazione palestinese dei territori occupati ormai e a Gaza fin dalla vittoria nella guerra del 1967.

Come conseguenza di quello squilibrio di forze progressivamente una parte dei cittadini israeliani ha manifestato la propria preferenza elettorale verso i partiti più conservatori e religioso-conservatori, lasciando spazio a politici dichiaratamente di estrema destra; fino alla aperta approvazione formale che lo stato di Israele ha un carattere “ebraico”, nonostante la presenza di cittadini arabo-palestinesi che sono circa il 20% della popolazione. Con la diffusa paura che il tasso naturale di crescita dei cittadini palestinesi possa portare questi ad essere maggioranza e quindi a eleggere democraticamente un governo “arabo”. Anche per questo la aliyah, il diritto al ritorno degli ebrei nella terra promessa, viene favorita in tutti i modi con la concessione veloce della cittadinanza come è stato per il quasi un milione di russi nel decennio dopo la fine dell’URSS del 1991.

In questo quadro la costruzione di colonie e insediamenti (illegali, secondo lo statuto dell’ONU e secondo i trattati internazionali che Israele ha sottoscritto) ha continuato sotto qualsiasi governo portando il numero dei coloni a circa 700mila. Il problema è che c’è stata una progressiva occupazione fisica del territorio della West Bank, Cisgiordania, che non solo rende ormai impossibile la soluzione politica dei due stati separati, ma vede le azioni violente crescenti dei coloni, anche qui giovani maschi, contro pastori e contadini palestinesi che se si ribellano vedono intervenire i soldati a protezione dei coloni e se le proteste sono decise sono le vittime che vengono arrestate.

A ciò si aggiunga la situazione da Comma 22 nell’Area C degli accordi di Oslo del 1993 (60% circa della West Bank, sotto totale controllo militare e amministrativo israeliano) per cui tutto ciò che viene costruito dai palestinesi senza permesso viene sistematicamente abbattuto, ma se chiedono il permesso questo viene negato dai militari. E così sotto le ruspe cadono povere case, tettoie per gli animali, case-container e micro gabinetti e pannelli solari donati dall’Unione Europea, muretti divisori dei campi, serbatoi d’acqua, e anche tubi di impianti di irrigazione. Perfino scuole. Oltre agli ulivi che di tanto in tanto tagliano i coloni per sfregio.

Dalla parte palestinese la situazione di “strisciante apartheid” di uno stato di Israele sempre più “etnocratico”, queste le parole di un accademico israeliano in un suo articolo del 2012, ha portato la gran parte dei palestinesi ad una sensazione che lo sfavorevole rapporto di forza impedisca una soluzione negoziata e che l’idea della ribellione (anche violenta) sia l’unica risposta possibile. La maggioranza dei palestinesi, anche quelli di Gaza, sa bene che non è la via utile per negoziare una soluzione ed é anche disposta ad una convivenza pacifica; ma vie d’uscita non ne vedono e la frustrazione cresce, per taluni la rabbia.

La ribellione armata è praticata solo da frange molto minoritarie tra i palestinesi, però attrae i maschi più giovani. I ragazzi più piccoli lanciano pietre contro le auto israeliane riconoscibili per la loro targa gialla, invece di quella bianca palestinese. O, a Gaza, si avvicinano più dei grandi alla recinzione israeliana rischiando di essere colpiti alle gambe dai cecchini; sono più di 1800 i minori azzoppati o amputati di una gamba dal 2005 quando, per volontà del governo israeliano, Gaza è stata evacuata da tutti i circa 8-10 mila israeliani presenti.

Un articolo sul campo di Jenin di Roberto Bongiorni, su ilSole24ore del 28 gennaio, descrive molto bene il contesto geografico, sociale, economico e politico in cui è cresciuto e continuamente si alimenta la risposta armata dei gruppi militanti all’occupazione israeliana.

Quello che ho descritto è un chiaro esempio della pratica che però io vedo mettere in atto ovunque sulla terra nelle dinamiche geopolitiche e cioè quella del fatto compiuto e dell’atto di forza, e in seguito del guadagnare tempo da parte degli stati o dei vari gruppi armati (spesso appoggiati da qualche stato).

Il confronto per quel dopotutto piccolo pezzo di terra (è un po’ più grande della Sicilia per superficie) dura ormai da circa 130 anni ed è diventato progressivamente sempre più uno scontro che ha avuto diverse fasi e dinamiche nella storia. La questione israelo-palestinese è un concentrato, concettuale e territoriale, di quasi tutte le problematiche geopolitiche esistenti al mondo.

Ebrei e arabo-palestinesi si scontrano, più che confrontarsi, sulla base delle più diffuse diverse motivazioni per contenziosi geopolitici =

– per il principio (chi ci abitava [per primo], con quale gruppo c’è un “legame con la terra”[antichità e/o durata della presenza])(è la Terra Promessa a Mosé. Primi insediamenti dall’Europa: Petah Tikva 1878-1883 e Rishon LeTzion 1882, con i soldi dei Rotschild)(Theodor Hertzl 1896: libro Der Judenstaat)

– per la religione (Abramo e soprattutto Mosè, la terra promessa, e Maometto, viaggio notturno ad al Aqsa [l’ultima])

– per la storia (chi c’era un tempo e quali entità politico-istituzionali precedenti [mai stata una entità palestinese], fatti specifici)

– per la terra (chi è il proprietario, dimostrato dagli atti di proprietà [spesso ottomani per i palestinesi][“gli ebrei hanno comprato la terra dai proprietari arabi assenti”])

– per le abitudini di vita (genre de vie di Reclus) (“i palestinesi sono arabi senza una loro specificità, mentre gli ebrei ci sono da millenni à il confronto-scontro ha fatto crescere e consolidare l’autopercezione palestinese [e anche il comportamento istituzionale dei regimi-governi arabi che hanno usato opportunisticamente la questione palestinese contro Israele, ma hanno ghettizzato i rifugiati palestinesi sul loro territorio in modi diversi a seconda dei leader e della convenienza socio-economica)]).

Tutto questo entro la gabbia concettuale ambigua dello stato-nazione, idea inventata dall’Europa e diffusasi globalmentedurante il processo di decolonizzazione.

Al di là dei fatti di sangue che colpiscono le emozioni e solleticano l’interesse dei mass media, quello che ho già sottolineato sono le dinamiche di relazione squilibrata nella vita quotidiana tra israeliani e palestinesi. Parlo di alcune differenze normative tra cittadini ebrei e arabi in Israele; in particolare contro i beduini allevatori coi quali i governi israeliani hanno cercato di mettere in atto una sedentarizzazione e marginalizzazione forzata, parzialmente fallita.

Parlo, nei territori occupati, degli interventi sistematici di espulsione o di limitazione di attività, in particolare nell’Area C, contro singoli e villaggi beduini o di pastori e agricoltori; della sistematica tolleranza nei confronti dei coloni illegali (nei cosiddetti Outposts) e protezione militare degli insediamenti, legali solo per Israele, i cui abitanti giovani maschi sempre di più spesso attaccano e prevaricano personalmente i palestinesi delle aree circostanti, anche in quelle di loro proprietà.

C’è un crescente uso delle armi, di granate sonore e di arresti da parte di poliziotti e militari perché sono in una condizione si impunità sostanziale e le decisioni della Corte Suprema israeliana al 90% sono contro i palestinesi su questioni di denunce per distruzioni, sfratto e proprietà. Anche se si afferma che “se i palestinesi hanno il titolo di proprietà della terra questa è garantita”, questo avviene per una minoranza di loro, perché uno stato “moderno” come Israele non riconosce l’uso e il diritto consuetudinario sulla terra praticato da beduini, allevatori e contadini palestinesi.

Infine nel nuovo governo di destra israeliano c’è un ministro che si è auto dichiarato fascista e omofobo e altri due che da anni predicano l’espulsione forzata verso la Giordania di tutti i palestinesi.

Palestinesi che hanno 5 differenti status a seconda del territorio di residenza, evidenziato dai 5 diversi documenti di identità = (partendo dallo status meno garantito) quelli di Gaza, poi area C, Area B, Area A, Gerusalemme est; questi ultimi, circa 180 mila, possono avere la targa dell’auto gialla israeliana e una serie di servizi cittadini, ma non sono cittadini israeliani; cosa che del resto non vogliono in larga maggioranza.

Lo squilibrio di condizione giuridica e pratica è in azione quotidianamente tramite la normale amministrazione; ci sono:

  • Direttive-regolamenti amministrativi = regole e controlli per servizi, permessi di costruire (non concessi) e demolizione delle “illegalità”. Perdita della proprietà per mancata occupazione e occupazione di case vuote palestinesi da parte di gruppi e famiglie di ebrei ortodossi (questo soprattutto a Gerusalemme, ma anche a Hebron.
  • Ordinanze ministeriali = invito alla polizia ad agire contro l’esposizione della bandiera palestinese; sistematico rapporto dipendenza assoluta dalla polizia e dall’esercito per il controllo documenti, per il permesso o meno alla mobilità. Con l’esercito che occupa a qualsiasi ora e per giorni le case dei civili senza spiegazioni con confinamento interno degli abitanti. Con l’abbattimento delle pareti interne delle abitazioni durante le operazioni di sicurezza.
  • Leggi = aree destinate a esclusivo uso militare in Area C con sfratto di tutte le famiglie palestinesi residenti; mentre i maschi dei coloni possono girare armati, anche con fucili d’assalto, dopo la cerimonia ebraica del Bar Mitzvah, cioè formalmente dai 13 anni e un giorno.

Questo quadro di gabbia giuridico-amministrativa squilibrata è stata costruita nel tempo dopo il 1967, ma ancora non basta; non a caso il nuovo governo di destra vuole approvare leggi che riducano il potere dei giudici e della stessa Corte Suprema a favore delle decisioni governative, fino al punto da voler passare al governo la nomina dei giudici della Corte. Questo disegno ha subito portato in piazza gli israeliani democratici e progressisti, ma la situazione al momento è fluida e l’uso politico e mediatico spregiudicato della paura del palestinese terrorista fa ancora il suo effetto.

Il perdurare di questa situazione di squilibrio di potere che non produce fatti di sangue eclatanti per cui non viene raccontata sistematicamente non fa altro che alimentare l’insofferenza palestinese. Dall’altra parte c’è  la percezione dei cittadini israeliani ebrei che la situazione sia sotto controllo e che lo status quo possa andare avanti indefinitivamente grazie alla separazione fisica coi palestinesi; la sostanziale vita tranquilla ed economicamente dinamica di Israele ha portato molti giovani israeliani all’assuefazione al privilegio e voler considerare come “normale” lo stallo, votando partiti di destra che negano l’esistenza di un qualsiasi diritto per i palestinesi.

Il mio approccio nell’analisi delle dinamiche geopolitiche è molto basico e semplice: gli esseri umani sono tutti “uguali” nel senso che condividono la stessa condizione umana, e quello che vedo spesso è che sono disposti a relazioni pacifiche se si agisce nel tempo in favore di un contesto che aiuti.

Gli stati, tramite i governi, si dichiarano istituzioni “uguali” tra di loro e di cittadini “uguali”, ma in realtà sono molto diversi tra di loro per possibilità e anche per volontà e si muovono in un contesto concettuale di potere  sia a livello interstatale sia interno: in tutti gli stati c’è un rapporto gerarchico tra istituzioni e cittadini, anche se in diverse forme e modalità.

Nelle varie dinamiche geopolitiche quello che vedo è che  il concetto di “nazione”, cioè l’appartenenza per nascita (per “sangue”) ad una cultura e la sua indiscutibile e necessaria durata nel tempo sono la fonte della maggior parte dei problemi geopolitici, soprattutto quando la “nazione” si abbina al concetto di stato “moderno” nell’ambiguo connubio di stato-nazione.

Per uscire dalle dinamiche conflittuali, e questo vale anche per la questione israelo-palestinese, bisogna pensare ai – e partire dai bisogni di base comuni a tutti gli esseri umani, a prescindere dalla loro cittadinanza e stato giuridico del territorio. L’articolo due, secondo comma, della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 lo dice chiaramente e senza possibili equivoci.

Bisogna separate il concetto dei diritti da quello di nazione: si hanno diritti perché individui, a prescindere da “sangue” e dalla cultura dei genitori. Per il caso israelo-palestinese la proposta ormai ventennale di uno stato unico bi-nazionale con diritti uguali per tutti, anche se con amministrazioni autonome nelle diverse aree interne, potrebbe essere quello più percorribile se ci fossero leader e governi abbastanza “creativi” e forti per proporla, sostenerla e difenderla contro la rigida concezione e percezione dello stato territoriale moderno e della nazione.

Bisogna mettere alle strette i governi degli stati perché non agiscano per favorire solo chi li ha votati. Bisogna contrastare le tendenze gerarchiche di tutti gli stati e agire sugli individui perché collaborino per fare una società più giusta.

“Ci vuole un lungo periodo di educazione” diceva Lucy Parsons, attivista afroamericana ex schiava e diventata anarco-sindacalista tra fine Ottocento e prima metà del Novecento, ma agire sui contesti per favorire relazioni più pacifiche si può fare subito se ci sono movimenti di base attivi e leader dinamici se non anche creativi. Il problema è che oggi per poter diventare leader politici nella gran parte dei casi bisogna mostrare di aderire e accettare la logica di potere e la logica di potenza.

Purtroppo lo stallo tra un etnocratico Israele e l’ANP gerontocratica e senza politica durerà ancora; forse, come spesso succede in geopolitica, una grave crisi o un evento imprevisto produrrà  uno scossone significativo. Purché lo scossone non venga da un attentato sanguinoso o dalla trasformazione di Israele in autocrazia.

Confini rigidi o confini flessibili e funzionali?

(2022-04-25)

Con la fine della Prima guerra mondiale i nostri libri di storia dicono che è finita l’epoca degli imperi (in Europa) e che si affermano gli stati-nazione. L’idea di un simile cambiamento istituzionale e territoriale si è sviluppata soprattutto durante il XIX secolo e ha potuto concretizzarsi dopo lo sconvolgimento istituzionale e sociale, oltre che economico, provocato dalla guerra mondiale. Come molto spesso succede, solo dopo una grave crisi i gruppi umani e le autorità che dicono di rappresentarli accettano o propongo cambiamenti che prima sembravano impossibili o venivano affermati come tali.

Mi sembra, però, che i testi per le scuole tendano a sottostimare che la formazione degli stati-nazione dopo il 1918, con la fine degli imperi prussiano, austro-ungarico, russo e ottomano, ha significato anche un cambio di paradigma concettuale, sociale e istituzionale, che ha impiegato molto a essere interiorizzato, sia a livello popolare sia a livello di parte della classe dirigente dei singoli nuovi stati, che si era formata sotto gli imperi.

I modi e le pratiche della gestione interna degli imperi, il concetto di legittimazione dell’autorità, e quindi del potere e delle leggi, sono radicalmente diversi in uno stato-nazione, come pure la concezione dei confini. Gli imperatori concepivano come possibile una modifica dei “loro” territori: potevano espandersi o ridursi, perciò i confini erano percepiti come flessibili, modificabili a seconda delle circostanze e degli eventi storici (guerre, matrimoni, scambi negoziati, controllo di sfere di influenza). All’interno di un impero, la legittimità era riferita al sovrano e tutto il territorio era “suo”.

I legami affettivi con lo spazio locale, le pratiche sociali nel proprio territorio erano “confinate” nell’ambito delle relazioni personali, ma, tranne che per i confini delle proprietà private, non avevano valenza normativa territoriale. Le diverse comunità interne degli imperi, linguistiche, religiose, con pratiche sociali proprie, erano legate fisicamente alla comunità di relazioni entro cui preferivano vivere, ma si sentivano libere di muoversi entro l’impero. Individualmente, e/o come gruppo familiare, tutti tendenzialmente si adeguavano alle regole sociali della nuova comunità in cui vivevano, mantenevano alcune pratiche entro l’ambito e lo spazio familiare, ma certo non vivevano questo come una marginalizzazione o addirittura una esclusione dall’impero: non si sentivano cittadini esclusi perché la legittimità era riferita alla fedeltà all’imperatore che proteggeva tutti i sudditi leali alla sua persona, non allo spazio dell’impero. La patria era il corpo dell’imperatore, non il territorio di ciascuno.

Lo stato-nazione, invece, parte dal presupposto di rappresentare territorialmente una comunità umana, una nazione. Quindi i confini acquisiscono la valenza simbolica di contenere un gruppo umano che condivide pratiche sociali, abitudini, tradizioni, valori, simbolicamente rappresentativi di quella specifica nazione. Hanno un valore iconografico che deve essere affermato simbolicamente, mantenuto nella pratica e quindi difeso dai cambiamenti. Si è cittadini “veri” dello stato-nazione se si condividono le pratiche comuni. I confini, quindi, sono concepiti come rigidi contenitori di una comunità pensata come omogenea, che tendenzialmente non vuole cambiare, soprattutto le proprie iconografie.

Lo stato democratico, però, come idea e presupposti si fonda su principi diversi; vale come esempio l’articolo 3 della Costituzione italiana che riconosce la cittadinanza, cioè l’uguaglianza davanti alla legge, a tutti, a prescindere da idee politiche, religione, sesso, colore della pelle e pratiche sociali, con il solo limite che siano approvate dalle leggi. Ma anch’esso concepisce i confini come rigidi e non modificabili se non a condizioni procedurali articolate e complesse, che sostanzialmente li rendono quasi eterni.

Questa rigidità concettuale, post-imperiale, dei confini è ancora oggi la cornice dell’ambiguità irrisolta nell’abbinamento tra il concetto di stato e quello di nazione, che sono diversi. Ma poiché le relazioni internazionali sono gestite quasi esclusivamente dagli stati-nazione, l’idea dei confini rigidi è diventata un’iconografia internazionale, secondo cui sono da preservare così come sono, altrimenti c’è l’instabilità e quindi la guerra.

Dopo il 1918 in Europa e in Medio Oriente sono stati tracciati dei confini di stati-nazione, ma questo non ha garantito la pace. Dopo la Seconda guerra mondiale in Europa i confini sono stati cambiati e, per rispettare il principio che siano “contenitori” di nazioni, milioni di europei hanno dovuto, o voluto, spostarsi per restare vicini ad altri esseri umani con cui condividevano lingua e pratiche sociali.

Da allora l’idea dell’intoccabilità dei confini è diventata un mantra indiscutibile, diffuso in tutto il mondo con il processo di decolonizzazione, che ha di fatto imposto ai nuovi stati nazionali di Africa e Asia dei confini decisi o sostanzialmente orientati dai paesi colonizzatori, sulla base del principio del “contenimento” di singole nazioni. Il fatto è che non esiste uno stato al mondo che contenga una sola nazione: può cambiare la consistenza numerica della minoranza o delle minoranze esistenti, ma nessuno stato al mondo è “puro”. Perché una delle caratteristiche degli esseri umani è che si sono sempre mossi, si muovono e una parte di ogni gruppo umano, anche se minoritaria, vuole, o è costretta, muoversi.

Come analista geopolitico ho visto e studiato un continuo susseguirsi di guerre, conflitti, scontri, prevaricazioni, persecuzioni fatte tutte in nome della nazione e aventi come causa prima i confini che si vorrebbero cambiare. Il sistema concettuale e normativo delle relazioni internazionali però non consente di farlo, se non in casi limitati e a condizioni procedurali che ne rendono molto difficile la realizzazione.

Quindi non c‘è niente da fare? In realtà si potrebbe, e c’è chi ha suggerito da tempo di considerare i confini come funzionali. Cioè quelli che ci sono non si spostano, ma sono considerati funzionali alle relazioni transconfinarie, con normativa apposita che tenga conto delle esigenze pratiche, soprattutto economiche e di vita quotidiana, non delle iconografie, degli individui che vivono dalle due parti del confine. L’esempio UE dei finanziamenti a tutti gli accordi transconfinari interni e il Sudtirolo-Alto Adige sono i migliori e più adeguati esempi che si possano fare.

Ma questo è il risultato di un progressivo e voluto processo di avvicinamento, di omogeneizzazione normativa, di riduzione del valore iconografico delle proprie pratiche sociali per cercare l’accordo e il coordinamento con altri esseri umani non solo territorialmente vicini, ma anche entro tutta l’Unione Europea. Questo però è in contrasto con l’idea e con le pratiche dello stato-nazione; e infatti proprio alcuni stati-nazione negli ultimi anni (Polonia, Ungheria in primis) hanno attivato pratiche di resistenza rispetto alla direzione più integrata che l’Unione Europea vorrebbe praticare.

I confini possono essere funzionali, io dico anche flessibili e/o cambiati tramite negoziazione, ma viviamo ancora entro una gabbia concettuale internazionale che li pensa come rigidi, intoccabili, eterni. Quello che ho visto nella pratica è che così si fanno le guerre o gli atti di forza da parte degli stati-nazione militarmente più forti.

Rocco e i suoi fratelli. Sullo sfondo l’Italia in trasformazione (Geography Notebooks, Vol.4/2, 12/2021)

Ci sono dei film che sono dei saggi di geografia sociale. A patto che non ci si faccia troppo distrarre dalle sole vicende emotive dei protagonisti e si osservino con attenzione anche lo sfondo, gli esterni urbani e/o rurali, i mezzi di trasporto, gli ambienti, gli arredamenti, gli oggetti, gli abiti, le acconciature femminili e maschili. Certo anche la sceneggiatura può essere significativa quando evidenzia tipologie di relazione sociale tra i personaggi che danno indicazioni sulla struttura sociale, su quanto contino le differenze di disponibilità economica, di istruzione, di posizione sociale.

Uno dei film italiani più utili in questo senso è Rocco e i suoi fratelli (1960. Regia di Luchino Visconti), che mostra uno spaccato dell’Italia del Secondo dopoguerra, segnato dalla poderosa emigrazione dal sud al nord del Paese. Nello specifico si racconta la storia di una famiglia della Lucania, composta da una vedova recente e dai suoi quattro figli adulti (solo l’ultimo preadolescente), che raggiunge il quinto, primogenito, già emigrato a Milano.

La sceneggiatura è possente (il film dura quasi tre ore) e i personaggi, tutti di spessore, innescano diverse storie personali interconnesse dal legame famigliare; un legame messo sempre più alla prova dallo ‘spaesamento’ dovuto al trasferimento improvviso da un ambiente ‘marginale’ e tradizionale a quello urbano della ‘capitale’ economica e industriale d’Italia.

L’apparente paradosso è che questo “ritratto amaro e impietoso dell’Italia del boom economico” (Stefano Lo Verme. http://www.mymovies.it) sia stato girato dal conte Luchino Visconti di Modrone (1906-1976), antifascista e comunista fin dagli anni ‘30, ma discendente dal ramo della famiglia Visconti che resse Milano dal 1277 e dominò la scena politica dell’Italia settentrionale fino al 1447.

La pellicola è particolarmente comunicativa, si potrebbe dire ‘basta guardarla!’; resta vero che molto è legato al fruitore, alla sua capacità interpretativa di capire ciò che vede al di là dell’immagine stessa.

In questo film ritenuto controverso, più volte denunciato e soggetto a numerosi tagli di censura, si ritrovano elementi caratteristici della società di origine della famiglia. Ciò risulta particolarmente evidente nelle scene di dialogo, anche perché il regista fece la scelta di far recitare i protagonisti con l’inflessione dialettale meridionale, utilizzando un dialetto semplificato, ‘cinematografico’, molto inusuale all’epoca. Il rimando alle antiche abitudini appare già all’arrivo della famiglia a Milano, quando la madre richiama il figlio maggiore alle proprie responsabilità di sostegno al nucleo familiare, come pure lo critica per il fidanzamento fatto nel periodo del lutto. Analogamente, in un altro momento del film c’è la sequenza dei figli che escono di casa per il lavoro (l’occasionale spalare la neve) e baciano ciascuno la mano della mamma. Nel finale del film, in cui la vicenda tragica di uno dei figli si chiude, la madre si pente di aver portato i figli nella città tentatrice e corruttrice per inseguire il benessere, dove però anche una di basso ceto come lei può dire: “la gente per strada mi chiamava signora”. Ci sono anche scampoli di ‘tradizioni’ come, a cena, il brindisi da fare in rima oppure il racconto del rito del capomastro meridionale prima di cominciare a costruire una casa: gettare una pietra sull’ombra del primo che passa per fare il sacrificio rituale.

Gli esterni urbani sono le periferie simil rurali (ponte della Ghisolfa, Lambrate, il Portello [fabbrica dell’Alfa Romeo] i viali con giovani alberi), dove le strade hanno i paracarri in pietra e si snodano tra campi e orti, mentre l’Idroscalo appare come un luogo abbandonato e mal frequentato. L’ambiente esterno è fatto soprattutto di caseggiati nuovi o in costruzione (con ponteggi di legno) e la nuova casa popolare dove si trasferisce la famiglia è moderna, ma con ringhiera esterna ai piani. Interessante che sia l’anziano guardiano milanese del cantiere edile a suggerire ai ‘terroni’ di smettere di pagare l’affitto dopo due-tre mesi così da ottenere, con lo sfratto, la precedenza nell’assegnazione di una casa popolare del Comune.

Altri squarci di Milano vintage riguardano la darsena, il tetto del Duomo, da cui si vede il caseggiato di fronte non ancora totalmente coperto dalle pubblicità al neon (sono state tolte da anni), il ponte pedonale delle sirene, su cui troneggiano le cosiddette ‘Sorelle Ghisini’ (perché di ghisa), poi trasportate al parco Sempione una volta coperti i Navigli, i vespasiani pubblici (chioschetti in metallo, adibiti a orinatoi maschili) dalla fama un poco equivoca perché sede di incontri poco ortodossi. Fanno la loro comparsa anche alcuni fraseggi ormai scomparsi: la definizione milanese di ‘Africa’ rivolta (con un misto anche di bonarietà) ai meridionali immigrati e alcune gustose frasi in milanese come quella dedicata al personaggio Simone nella palestra pugilistica: “l’è un casciavit ma ga ona bela pappina” (non vale molto, ma ha un pugno potente).

Sempre per quanto riguarda gli esterni sono da notare inoltre i mezzi di trasporto. I treni con cui i protagonisti arrivano a Milano, ad esempio, sono ancora dotati di carrozze di terza classe con porte d’uscita-entrata per ogni scomparto e sedili di legno. All’ingresso in stazione, alcuni addetti provvedono all’immediato lavaggio dei vetri esterni, che effettuano a mano con degli spazzoloni. Il tram, su cui viaggia il bigliettaio, corre invece fra le vie illuminate e le luci delle numerose vetrine, che al primo impatto impressionano particolarmente i nuovi arrivati.

Gli interni sono prevalentemente quelli del seminterrato della prima abitazione, poi le palestre, i bar e la casa popolare. Una sola scena si svolge nella casa di un ricco borghese con mobilia, quadri e soprammobili; quella in cui la sua omosessualità è più esplicitata anche se lasciata all’intuizione (siamo nel 1960, è un argomento super tabù).

Per quanto riguarda oggetti oggi ‘scomparsi’, si possono citare la cartolina rosa per la chiamata al servizio militare maschile obbligatorio e le pezze in tela per i neonati stesi in casa, ormai sostituiti dai più moderni pannolini in cellulosa. Abitudini scomparse o modificate col tempo concernono il largo uso della giacca per i maschi, anche appartenenti ai ceti più bassi, e le acconciature femminili con i capelli cotonati. Verso la fine del film il personaggio Ciro chiede alla fidanzata un bacio in pubblico, che con esitazione e pudore viene concesso a labbra chiuse. Solo la ‘discussa’ Nadia fuma in pubblico o in presenza di maschi.

Pur all’interno di una storia che mostra soprattutto una condizione socio-economica difficile, in cui la boxe professionistica appare come un mezzo per migliorare la propria condizione, i segnali dei caratteri della piramide socio-economica vengono mostrati attraverso gli spostamenti del fratellino più piccolo (di 13-14 anni di età) che fa consegne in bicicletta per un droghiere e in un’altra scena, sul lago di Como (a Bellagio) presso il Grand Hotel si commenta il prezzo delle stanze a 10mila lire a notte.

Simbolo della mobilità sociale dell’Italia di quegli anni è il quarto fratello per età, Ciro (18 anni), che ottiene la licenza media ‘commerciale’ alla scuola serale. Va notato che fino al 1963 erano attive in Italia due scuole medie inferiori: una scelta da chi, superando un esame d’ammissione in quattro materie dopo la licenza elementare, ottenuta la licenza media intendeva proseguire negli studi, l’altra, per cui bastava la licenza elementare per l’ammissione, era scelta da chi era invece intenzionato a mettersi alla ricerca di un lavoro dopo la scuola media. È proprio quest’ultima ‘minore’ licenza che consente a Ciro di venire assunto all’Alfa Romeo come operaio.

Dopo una lunga scena famigliare catartica finale, sulla falsariga di quella che potremmo chiamare ‘tragedia greca’, che evidenzia la scomposizione della famiglia in diverse storie individuali, c’è l’incontro davanti all’Alfa Romeo, nella pausa pranzo, tra Ciro e il fratellino Luca che si conclude con le parole di Ciro che lo invita a costruirsi il suo futuro individuale anche al costo dei legami famigliari e che appaiono come una contestualizzazione socio-politica della vicenda famigliare delineata nel film.

La parola “Fine” si sovrappone ad un campo lungo sui viali ancora vuoti di traffico e sui caseggiati lontani della periferia milanese di allora.

Le percezioni spaziali dell’abitare: la città sradicata (Geography Notebooks, Vol.4/2, 12/2021)

Già il titolo appare intrigante per chi ha interesse per la geografia: La città sradicata. L’idea di città attraverso lo sguardo e il segno dell’altro (Pezzoni, N. 2020. ObarraO-Ibis edizioni, seconda edizione ampliata). Non per caso la prefazione è stata scritta dal geografo Franco Farinelli. E la città, nel suo complesso e articolato rapporto tra esseri umani e spazio, sia ‘naturale’ che costruito, è il terreno di studio di molte ricerche empiriche e di molti ragionamenti teorici della geografia sociale. Non solo perché mediamente ormai più della metà della popolazione mondiale è urbanizzata, ma soprattutto perché la fissità dello spazio costruito risponde a un bisogno umano di stabilità del vivere largamente sentito individualmente; però tale bisogno pone vincoli e confini al bisogno di cambiamento che c’è in tutti anche se praticato da una minoranza. Un cambiamento che diventa una necessità per quegli umani che non hanno più o non sentono di avere più uno spazio dove (soprav)vivere. E che, con un poco di provocazione intellettuale, inserisco nel rapporto-conflitto storico ed evolutivo tra nomadismo e sedentarietà. Tra un abitare stabile e un abitare con un rapporto flessibile con il territorio. La provocazione intellettuale è stata sollecitata dal fatto che già nella prima pagina dell’introduzione si pone come riferimento concettuale centrale “quell’abitare senza abitudine [in corsivo nel testo] […] come un’impronta a cui attingere nella costruzione d’un vivere collettivo fondato sull’apertura all’altro da sé” (21). Nell’articolo RiMaflow autogestita presente in questo fascicolo ho già affermato che approccio etico soggettivo di chi fa ricerca, contatto diretto con spazio fisico e esseri umani, capacità (anche creativa) di cogliere costanti e variabili nelle dinamiche spaziali, sono quegli elementi necessari per fare un’analisi socio-territoriale utile non solo per ‘capire’ un territorio umanizzato, ma anche per avere strumenti per cambiarlo per il meglio e con il coinvolgimento il più ampio possibile di chi ci vive. Una capacità che sappia uscire dagli schemi “per cogliere la dissomiglianza, la deviazione rispetto alla norma che fa spicco e che si imprime nella mente” come dice a pagina 61 la citazione di Ernst H. Gombrich (1978. ‘La maschera e la faccia’, in Gombrich E.H., Hochberg J., Black M., Arte, percezione e realtà. Come pensiamo le immagini. Einaudi. Torino).

Sono elementi che, con altri ancora, si trovano tutti in questo libro, risultato di una lunga e articolata ricerca sul campo che ha avuto come centro di attenzione i migranti appena arrivati in città (prima Milano, poi Rovereto e Bologna). Lo scopo della ricerca è stato capire quale mappa mentale si costruisce nella mente di chi vive nella città “dove insediarsi non equivale a radicarsi” (22) e se è in qualche modo confermata l’ipotesi dichiarata “che la condizione di instabilità […] sia connaturata all’abitare contemporaneo” (23). “Nell’osservare la città, i migranti vi posano uno sguardo che appare incontaminato rispetto alle riproduzioni codificate della geografia urbana” (24); la non casualità della prefazione di Farinelli deriva anche dal fatto che l’autrice, in particolare nel secondo capitolo, sposa e cita (72-74) la nota critica di Farinelli alla ragione cartografica in cui “ciò che appare prende il posto di ciò che è” (Farinelli, F. 1992. I segni del mondo, immagine cartografica e discorso geografico in età moderna. Firenze: La Nuova Italia, 165) e “la cui positivistica assunzione ha impedito alla geografia umana una funzione conoscitiva in senso critico-ascientifico” (74). Così gli spazi percorsi dai migranti (soprattutto quelli arrivati da poco) evidenziano “il segno dei confini, che lacerano il territorio tentando di imporre l’immobilità in un’epoca connotata dal movimento” (25).

La condizione del migrante, soprattutto se illegale, è fortemente e dinamicamente spaziale: da un lato per le umane necessità fisiche quotidiane, che sono concrete e (indissolubilmente?) legate allo spazio e/o dipendenti dallo spazio, e dall’altro perché le relazioni con i diversi individui e gruppi umani sono necessariamente ‘ingabbiate’ (264-267) dalla conformazione dello spazio e dalle regole sociali del suo vissuto: il genre de vie inteso in senso articolato, alla Reclus. Il vivere del migrante è “un abitare privo di quel diritto di avere diritti” (25, riferimento in nota a Rodotà, S. 2012. Il diritto di avere diritti. Roma-Bari: Laterza) e l’autrice dichiara apertamente che “l’esperimento proposto [… è un] tentativo di superare la prerogativa del potere sull’altro che da sempre divide chi appartiene – a un territorio, a un diritto, a un sistema – da chi è escluso” (25). Nella speranza di riuscire a stimolare un dibattito che scardini “la condizione segregata […] residenziale, intellettuale, professionale, scolastica…” (26) che però non solo è comune a tutti i migranti, ma anche a tutti noi cittadini come conseguenza delle operazioni ‘cartografiche’ dello zoning e anche del selfcaging non voluto (auto-zoning forzato dipendente dal reddito) e voluto (‘scelta’ di vicinanza fisica con i simili per stile di vita).

L’osservazione del gesto del migrante, che nel momento in cui disegna la sua mappa mentale della città manifesta una appropriazione conoscitiva (330-333) che consente di attingere “a diversi gradi di libertà” (30), può spingere a riprendersi la libertà di pensare in modo più dinamico e aperto; non a caso l’ultimo capitolo del libro si intitola “Aperture” sia perché “si propone di generare attraverso il gesto dell’altro un nuovo spazio etico a fondamento della città” (30) sia perché auspica che questa ricerca ne produca di nuove, diverse, ‘altre’. Intendendo l’abitudine non solo come la pratica umana e naturale del selfcaging, ma anche l’acritica accettazione di consuetudini e di norme e regolamenti cittadini, l’abitare senza abitudine è strettamente connesso a quel diritto per cui “si deve poter abitare sempre e ovunque” (Gabellini, P. 2010. Fare urbanistica, Roma: Carocci, 26), che è un modo essenziale e conciso di dire quello che afferma l’articolo 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

A pagina 32 l’autrice riconosce un ruolo alla geografia nelle “contaminazioni” che hanno contribuito alla definizione della ricerca e del suo approccio. Nella parte in cui delinea la struttura del libro (27-30) c’è il riconoscimento dell’ampio valore strumentale d’analisi della mappa mentale, che è da tempo acquisito anche tra i/le geografi/e, e in particolare quelli/e che si interessano di didattica e la usano con i propri studenti. Così si afferma la perdurante validità del lavoro di Kevin Lynch (Lynch, K. 1960. The image of the city, Cambridge: MIT Press) come griglia di supporto al lavoro preparatorio, alla strutturazione e all’analisi dell’esperienza. Rimangono validi gli “oggetti urbani” di Lynch (riferimenti, luoghi dell’abitare, percorsi, nodi, confini), la cui trasposizione e reinterpretazione ha fatto da struttura alla rappresentazione grafica a cui sono stati chiamati i migranti nel momento in cui l’intervista dinamica li invitava a costruire la mappa mentale della loro esperienza spaziale nella città. La giustificazione metodologica delle ragioni del modo di operare è nel terzo capitolo. Nel quarto capitolo sono riprodotte settanta delle cento mappe rilevate dalla ricerca. Voglio sottolineare la particolarità di questa esperienza e cioè che la scelta di coinvolgere gli immigrati da poco punta a far ripensare l’attualità del vissuto “senza voltarsi indietro verso le proprie origini” (28). In questo vi leggo l’andare a cercare il senso profondo di umanità prima e oltre le costruzioni iconografiche della propria singola esperienza culturale. E infatti l’analisi delle mappe del quarto capitolo va a interpretare le “diverse attribuzioni di senso” che emergono dai cinque oggetti urbani di Lynch. Nel quinto e sesto capitolo si riproduce una scelta delle mappe mentali ottenute dall’esperienza ripetuta a Rovereto e Bologna e, infine, nel settimo capitolo si confrontano le ipotesi dei capitoli d’apertura con gli esiti della ricerca.

La visione anticipatrice del ‘kilometro zero’ in Kropotkin (Geography Notebooks, Vol.4 /2, 12/2021)

Campi, fabbriche, officine del geografo Piotr Kropotkin (1975. Colin Ward a cura di. Edizioni Antistato) è uno dei libri più ‘pratici’ di riferimento del pensiero anarchico, risultato di alcuni articoli (scritti tra il 1888 e il 1890) raccolti in un libro nel 1899, il quale ebbe molte riedizioni rivedute e ampliate prima della Grande Guerra. Amico del geografo anarchico Elisée Reclus, considerato da alcuni come il fondatore della geografia sociale (Errani P.P., a cura di. 1984. L’Homme. La geografia sociale, Milano: Angeli), Kropotkin è morto nel 1921 (e proprio nell’anno della stesura di questo testo ricorre il centenario della sua scomparsa (https://kropotkin2021.com). Colin Ward, ‘architetto’ (non laureato) e attivista spaziale ‘in azione’ (1973. Anarchy in action), nel 1974 interviene sul testo originale: riduce abbondantemente la grande massa di dati presenti e lo ristruttura in quattro capitoli alla cui fine, di volta in volta, fa un commento comparativo con la realtà socio-economica degli anni Settanta. Ne sottolinea continuità (molte), discontinuità (poche) e sostiene le proposte pratiche di Kropotkin che avevano, a suo giudizio, una validità per il presente (suo di allora) e per il futuro, ovvero il nostro presente. Per misurare l’attualità delle intuizioni di Kropotkin e la sua presa sul futuro è utile Il principio territoriale di Alberto Magnaghi (2020. Torino: Bollati Boringhieri).

Colin Ward nell’introduzione all’edizione inglese sottolineava che l’analisi e la visione futura di Kropotkin, talvolta profetiche, erano state elaborate in un mondo in cui l’elettricità, l’automobile, il cinema e il telefono erano ancora ai primi passi e non erano ancora stati inventati la radio, la televisione e l’aeroplano; inimmaginabili computer e smartphone. Il commento editoriale dell’edizione del 1919 sottolineava che i bisogni mondiali andavano aumentando e che le risorse della Terra non erano inesauribili. Consapevolezze che solo recentemente si stanno consolidando tra gli economisti del modello di sviluppo occidentale.

Con enorme dovizia di esempi concreti e con dati precisi, Kropotkin mostrava come l’utopia fosse possibile perché era già praticata in molti luoghi e che bastava seguire quegli esempi positivi, allargandone la scala, ma mantenendo la caratteristica di rete flessibile di una federazione di comuni autonomi e di unità produttive integrate (agricoltura-industria) localmente.

Nel primo capitolo, dedicato all’industria, Kropotkin vagheggia un futuro positivo se centrato sull’integrazione invece che sulla divisione e specializzazione del lavoro; egli immagina “una società dove ciascun individuo produca sia lavoro manuale sia lavoro intellettuale” (34), […] “una società riorganizzata […] dovrà trovare la maniera migliore per combinare l’agricoltura con l’industria […] e dovrà provvedere all’istruzione integrata, la quale istruzione soltanto, insegnando sia la scienza sia l’abilità manuale sin dalla prima infanzia, è in grado di dare alla società gli uomini e le donne di cui questa ha realmente bisogno.” (35).

Ma Colin Ward ricorda invece cosa è avvenuto e cioè il rapporto squilibrato tra Nord e Sud del mondo e Stati diventati specializzati in certe produzioni agricole o industriali, e noi oggi siamo testimoni della realtà consolidata della delocalizzazione produttiva che ha fatto della Cina la ‘fabbrica del mondo’ e Taiwan e Corea del Sud i principali produttori di microprocessori per le necessità tecnologiche avanzate mondiali. Specializzazioni possibili per “la rapidità e la crescente capacità di trasporto via mare” che Kropotkin già intuiva (36).

Del secondo capitolo dedicato all’agricoltura, in cui subito Kropotkin critica le tesi di Malthus sul pericolo della sovrappopolazione, vale la pena di sottolineare come l’autore descrive le esperienze sue contemporanee di produzione orticola commerciale (103-117) che hanno una valenza profetica se si considerano gli esempi delle produzioni odierne olandesi o delle aree semidesertiche dell’Almeria spagnola, diventate ‘l’orto’ in serra dell’Europa. Kropotkin fa una semplice osservazione che ha valore ancora di più oggi e cioè che i cittadini ignorano del tutto come fisicamente si produce quello che mangiano (121-122).

Anche Colin Ward rileva che l’aumento possibile della produzione agricola, soprattutto di frutta, verdura e legumi, vagheggiata da Kropotkin, sia ai suoi tempi normale. Riprende poi e sottolinea le preoccupazioni ambientali kropotkiniane che negli anni Settanta del Novecento cominciano a essere denunciate come problemi ecologico-ambientali (134-135) su cui sarebbe stato necessario intervenire subito tramite creatività e ricerca per lo sviluppo della tecnologia alternativa che punta al “soddisfacimento dei bisogni umani attraverso l’impiego di risorse rinnovabili” (56).

Viene infine evidenziata la continuità con le preoccupazioni di Kropotkin circa l’eccessivo e pericoloso sviluppo di una agricoltura industriale ipermeccanizzata, confermata dai dati della riduzione di popolazione delle campagne e dei lavoratori nel settore (136-137).

Nel capitolo terzo Kropotkin sottolinea e apprezza la resilienza delle officine e delle piccole industrie, preconizzando per loro la capacità di sopravvivere al processo di concentrazione industriale che gli economisti di allora indicavano come un processo totalizzante e inevitabile. L’esempio italiano della diffusione delle PMI (Piccole e Medie Imprese) e della loro presenza maggioritaria nel nostro tessuto produttivo ne può essere un valido esempio. Però Kropotkin sognava il suo “piccolo è bello” (come titola il famoso libro di Schumacher del 1973 Small is beautiful) nella forma di una diffusione decentrata della produzione industriale a servizio delle necessità di una agricoltura tecnologicamente efficace che prevedeva la possibilità dei lavoratori di cambiare mansioni alternando il lavoro in fabbrica con quello dei campi (174-176). Per questo ho usato il verbo ‘sognare’. Significativo poi che già si descrivessero le pratiche di pirateria finanziaria di acquisto di fabbriche o di fusioni con l’intento di spezzettarle e/o venderne le proprietà in lotti separati. Infine Ward rileva la tendenza alla progressiva concentrazione urbana globale della popolazione che è un potente meccanismo in contrasto a ciò che auspica Kropotkin: “è necessario decentrare anziché centralizzare” (189).

L’ultimo capitolo ristrutturato da Colin Ward è dedicato all’istruzione integrale (35 e da 199 a 206). Nella sua visione integrata della società Kropotkin sottolinea come molte invenzioni non siano il risultato di studi accademico-teorici, ma provengano dalla straordinaria capacità di osservazione pratica di alcuni esseri umani particolarmente in grado di mettere a frutto capacità comuni a tutti: con una istruzione integrale l’autore è convinto che si favorirebbero la consapevolezza e un maggiore uso di tali diffuse capacità.

Kropotkin ‘sogna’ (208-210) un mondo che sostanzialmente è fatto di ciò che oggi chiamiamo start up e di crowdfunding. Quando Kropotkin indica quali problemi dovrebbero poter essere affrontati con nuove invenzioni future Ward, in un suo inciso, indica che nel suo presente sono già state inventate. Questo capitolo, in cui si parla di lavoro intellettuale e manuale da integrare nella vita quotidiana e non solo nel lavoro, si conclude con una visione di una possibile società armonica futura.

Nelle conclusioni il positivo e fiducioso Kropotkin ancora una volta ‘sogna’, sulla base di esempi precisi e concreti del suo tempo, una società autosufficiente (un sostanziale ‘kilometro zero’, si potrebbe dire oggi) che si fondi sul lavoro manuale coordinato e variato a cui sin da giovani si è stati abituati intellettualmente (224). Da bravo utopista ottocentesco il finale del libro è evocativo. Del poscritto editoriale vale la pena ricordare le parole di Colin Ward molto attuali nel nostro presente di 50 anni dopo: “Negli ultimi dieci anni noi ci siamo resi sempre più conto che c’è una crisi dell’ambiente naturale, una crisi delle risorse, dei consumi, della popolazione. […] Il fatto incontrovertibile è che le risorse del mondo sono limitate, […]”.

Rimaflow autogestita. Un esercizio di geografia sociale (Geography Notebooks – Vol.4/2, 12/2021)

1 – Etica individuale e interessi di ricerca. Come procedere.

Il/la geografo/a interessato/a alla geografia sociale in qualche modo è pre-coinvolto/a eticamente-emotivamente nelle sue tematiche e quindi ‘sceglie’ secondo questa precondizione il caso o il campo della ricerca. L’osservatore non è esterno al campo.

I geografi anarchici Elisée Reclus (1830-1905), considerato da alcuni il fondatore della geografia sociale, e Piotr Kropotkin (1842-1921) sono stati due esempi espliciti di tale interconnessione tra motivazioni etico-ideali e argomenti trattati nei loro scritti. La prefazione della Nouvelle Geographie Universelle (1874) e L’Homme et la Terre (1905-08, 1990) di Reclus, e i testi di Kropotkin Campi, fabbriche e officine (1974) e La conquista del pane (2012) sono ancora oggi utili letture.

Quello che accomuna i due autori, e che è fondamentale per un/a geografo/a, è la capacità di osservare lo spazio vissuto, cioè l’interazione tra fisicità e umanità, sapendone trarre un quadro interpretativo che dà ragione sia delle forme di quello che si osserva che dei comportamenti degli umani che vi vivono. Le loro pagine, spesso apparentemente ‘descrittive’, sono invece paragonabili a dei video documentari commentati.

In generale la conformazione fisico-climatica di un territorio naturale, senza voler essere deterministi, orienta le relazioni sociali perché per la sopravvivenza, per la frequenza dei contatti e per gli spostamenti  pone vincoli di possibilità e di tempi di percorrenza. Negli spazi urbani sembra che questi  vincoli siano ridotti o meno influenti, ma non è del tutto così. Anche se gli spostamenti sono più facili e i luoghi di incontri di socializzazione sono più numerosi e frequenti, gli elementi da considerare geograficamente sono due: 1) la densità umana è un fattore fisico che facilita le forme di incontro e di socializzazione, ma in parte anche le ‘obbliga’, le confina, le orienta; 2) gli elementi dello spazio costruito sono fortemente condizionati dalla logica della proprietà privata/pubblica e dell’economia per cui gli spazi liberi a disposizione per la socialità sono meno di quelli che vengono percepiti o raccontati e sono anche più condizionati. C’è però anche un fattore da considerare, che Reclus e Kropotkin sottolineano, e cioè che c’è sempre la possibilità dell’individuo di fare scelte che rompano gli obblighi e travalichino i confini e il ricercatore ne deve tener conto nel momento della sua sintesi interpretativa: quello che osserva è il risultato di scelte e non un dato ineluttabile.

Ne consegue che per una ricerca in spazi urbani le prime cose che vanno considerate sono la struttura e le forme del costruito, sia del contesto (area, zona) sia del luogo o luoghi specifici che si intendono analizzare. Ma in questi contesto e luogo vanno cercati e compresi gli atti umani consapevoli e non, dei singoli e dei gruppi.

Se per i giornalisti ci sono le cinque W (Who, What, Where, When, Why) lo stesso vale per i/le geografi/e e in particolare per chi pratica la geografia sociale; ma il primo passo è il Where-Dove. Perché il territorio e il costruito raccontano. E’ buona regola vedere di persona lo spazio o il territorio che si intende analizzare e su cui poi si vuole raccontare o scrivere. Si parte necessariamente dal Where-Dove perché già questo comincia a far percepire la soggettività del Who-Chi.

Per capire meglio il racconto del territorio sarebbe utile (e necessaria) una infarinatura di pratiche agricole (es.: saper riconoscere colture intensive e industrializzate dalle dimensioni e dalle forme dei campi) e di architettura (es: saper identificare i periodi storici di alcuni stili e forme, saper comprendere riconoscere/notare le differenze tra costruzioni ‘povere’ e di pregio).

Non sempre e ovunque è possibile andare di persona; si possono fare ricerche di buon livello e interessanti anche senza aver visto direttamente il luogo di cui si parla, ma alla lettura dei testi bisogna affiancare la visione di foto, di documentari; anche film e fiction sono utili se si osservano più lo spazio di contesto e gli elementi fisici che gli sviluppi della storia. Però l’osservazione diretta è necessaria proprio per dare senso e concretezza a quell’aggettivo ‘sociale’ che viene aggiunto e che in un certo senso vincola chi fa ricerca. Perché “la mappa non è il territorio” (aforisma di Alfred Korzybski, 1879-1950, padre della semantica generale).

Ci possono essere temi che investono ampi spazi e gruppi umani diversi, ma almeno una parte della ricerca, anche se piccola rispetto all’insieme, deve essere il frutto di una esperienza personale diretta e fisica: di un contatto.

Reclus indicava tre ‘leggi’, cioè realtà costanti delle dinamiche umane, e cioè:1) la tendenza dei gruppi umani a strutturarsi in modo gerarchico nel tempo, 2) l’incontenibile aspirazione alla libertà personale dell’individuo, 3) il continuo movimento di reciproco bilanciamento/confronto (lotta, diceva lui) tra queste due forze contrapposte nelle dinamiche umane nello spazio.

Quindi lo spazio è il campo dove queste costanti si manifestano e ne è il risultato; i segni visibili nello spazio fanno capire ad un osservatore attento (e/o motivato) il tipo di rapporti di forza presenti e anche, negli spazi urbani, qualcosa dei rapporti di forza del passato grazie ai segni tangibili che sono rimasti. Gli esempi estremi di questo campo di forze sono la foresta primaria che ci dice che in mancanza di umani è la spontaneità biologica che determina i rapporti di forza, mentre gli spazi urbani e le forme del costruito sono l’esplicitazione dei rapporti di forza (politici e/o economici) tra gli umani, tra le spinte gerarchiche e la voglia di libertà individuale.

Ma in pratica come procedere? 1) Osservare, 2) notare costanti (cose che si ripetono) e varianti (cose diverse dal contesto e/o particolari/inaspettate), 3) comparare (con altri contesti conosciuti e/o con il proprio sapere teorico), 4) ipotizzare una interpretazione/visione da verificare con ulteriori ricerche e approfondimenti per arrivare ad una sintesi conclusiva (la propria tesi).

Può essere utile talvolta partire da una ipotesi interpretativa, anche solo da un’idea generica e solo abbozzata, che poi viene verificata dalle operazioni indicate. Se si è aperti all’accettazione anche della confutazione dell’idea di partenza.

Nell’analisi delle dinamiche in ambito urbano vale la pena di partire dalla visione della carta-mappa per cercare di capire la struttura dell’abitato, cioè dalle forme delle vie (regolari, irregolari, miste, ecc.) quali fasi di espansione o costruttive si sono succedute; è molto utile comparare mappe storiche dello stesso luogo.

Aver letto di storia urbanistica specifica aiuta, come pure avere qualche nozione visiva di stili architettonici storici (le riviste [storiche] di architettura sono utili da sfogliare). Ma può anche bastare osservare con attenzione e sistematicamente edifici, palazzi, ville, villette, costruzioni commerciali e produttive per accumulare conoscenze visive comparabili.

La visione delle mappe porta ad un abbozzo di quadro interpretativo che va confrontato con la visione diretta del contesto urbano della realtà su cui si fa la ricerca. Una realtà che ha aspetti fisici fissi (costruzioni, spazi, oggetti negli spazi, estetica degli spazi) e umani che vi agiscono e con cui interagiscono.

Si va sul posto osservando prima il contesto (prendendo nota, meglio con foto/video), poi si osserva il luogo specifico della realtà che si intende analizzare e infine ci si rapporta con i soggetti umani interessati. Da ricordare, nel momento dell’interpretazione e della sintesi,  che l’osservazione dello spazio fisico è condizionata dalla nostra percezione e che anche la narrazione dei soggetti umani con cui abbiamo relazioni (per esempio interviste) è condizionata dalla loro e dalla nostra percezione. Osservatore e osservato non sono esterni al campo.

2 – Il contesto e l’osservazione

Nel caso di studio in questione le visite esplorative e le conoscenze teoriche pregresse di chi ha fatto la ricerca hanno dato il seguente quadro interpretativo, che può essere comparato con altre situazioni urbane:

– le periferie disordinate sono il risultato di un processo graduale di costruzione nel tempo di edifici di vario genere;

– gli spazi pubblici (e la loro pianificazione) sono compito dei comuni e quindi il ‘disordine’ è anche loro responsabilità politico-amministrativa;

– i privati non hanno obblighi sociali per gli spazi pubblici; devono solo seguire le indicazioni e rispettare i vincoli decisi dall’amministrazione pubblica per quanto riguarda l’estetica, le dimensioni, ecc., di quanto realizzano;

– un aspetto specifico del sistema delle tangenti nel settore delle costruzioni era/è quello mirato ad ottenere norme e/o regolamenti favorevoli da parte dei politici locali o di avere un atteggiamento ‘comprensivo’ nel controllo del rispetto di tali regole (o di non avere nessun tipo di controllo);

– anche se con un sostanziale rispetto delle regole municipali, dagli anni Sessanta del XX secolo le periferie di Milano sono diventate sempre più disordinate con gli spazi occupati e costruiti a favore degli interessi immobiliari e della speculazione fondiaria;

– dalla fine degli anni Settanta i ceti a basso reddito sono stati obbligati a lasciare Milano e trasferirsi dal centro nelle  aree periferiche e nei comuni intorno alla città per potersi permettere di affittare o acquistare casa a prezzi  abbordabili, provocando un pesante impatto ‘costruito ‘ nell’uso dello spazio;

– il modo di usare il territorio è stato sostanzialmente simile per i piccoli comuni intorno a Milano. Piccoli rispetto a Milano, ma spesso più abitati di molti capoluoghi di provincia di altre regioni;

– l’espansione dell’urbanizzazione si è sviluppata lungo le principali e storiche strade di collegamento per e da Milano, principalmente con scopi commerciali e produttivi, poi residenziali;

– esteticamente questi assi di collegamento hanno sostanzialmente lo stesso aspetto con un misto di centri commerciali, luoghi di produzione (talvolta con ampie esposizioni della produzione sul fronte strada) e edifici residenziali che cercano di utilizzare al massimo la superficie di proprietà.

Tutto questo ha innescato un caging fisico (e ‘legale’):  la forma di parti giustapposte del costruito delle periferie, a seguito degli interessi immobiliari privati, è la gabbia concreta, fisica, che incasella  gli eventuali  sforzi di un (ri)uso sociale degli spazi urbani. In questo contesto il processo di delocalizzazione produttiva all’estero, la decrescita della produzione industriale nelle città occidentali (che ‘produce’ edifici e spazi urbani vuoti), può anche essere una opportunità creativa di un riuso sociale e socializzato dello spazio. Ma gli ostacoli  legali, amministrativi e mentali sono molti.

Nella fase dell’osservazione del contesto urbano specifico (Trezzano sul Naviglio, 21.000 abitanti, a sud di Milano) si è avuta la conferma visiva di questo quadro teorico:

– una volta occupati tutti gli spazi lungo la via principale secondo le modalità evidenziate il territorio è stato occupato costruendo lungo una serie di vie parallele (e perpendicolari) con gli stessi criteri, organizzati per blocchi sostanzialmente omogenei affiancati (residenziali, produttivi, artigianali, ecc.);  dalla fine degli anni ’90 c’è stata una maggiore, anche se tardiva, pianificazione urbanistica da parte del comune;

– gli spazi pubblici hanno potuto essere ricavati solo nelle aree marginali e/o negli interstizi a causa dei costi dell’esproprio per pubblica utilità, comunque troppo onerosi per l’amministrazione pubblica, a fronte invece degli introiti derivanti dagli oneri urbanistici conseguenti alla concessione dei permessi di costruire. A causa della mancanza di spazio (e di soldi) in tempi più recenti i comuni hanno avuto la possibilità solo di fare interventi limitati e estetici nelle pubbliche piazze (o nelle rotatorie stradali);

– recentemente la street art e i murales sono stati testimonianze degli autonomi (e quasi sempre illegali) sforzi di riuso e reinterpretazione creativa degli spazi fissi costruiti secondo una differente logica. Nell’area industriale di piccole fabbriche e/o produzioni artigianali (in parte inutilizzate al momento), che si trova vicino alla stazione della linea ferroviaria metropolitana di collegamento a Milano, la fantasia degli street artist ha trovato superfici disponibili che hanno consentito una variata, interessante e originale produzione visiva.

RiMaflow è (stata) un caso di studio molto utile e interessante di geografia sociale e cioè adatto per un/a geografo/a che genericamente ‘si sente’ portato/a per un certo tipo di tematiche sociali o che le sceglie per soggettivi orientamenti etico-ideologici. Una sua particolarità è quella di essere un esempio di ripensamento spaziale sia dell’interno di uno spazio (una fabbrica di discrete dimensioni) che delle relazioni con il mondo esterno, vicino e lontano. Il tutto in un quadro di visione sociale idealistica esplicitata degli attori umani che ne ha guidato e guida le scelte pratiche come anche l’approccio al territorio e agli spazi interni.

Fig. 01

Le motivazioni dell’occupazione all’ingresso della vecchia sede (foto dell’autore, 19 febbraio 2019)

3 – Il caso di studio

La Maflow di Trezzano sul Naviglio (produzione industriale per l’automotive) va in bancarotta nel 2009. C’è un anno di lotta contro la chiusura. All’asta nel 2010 si presenta l’imprenditore polacco Boriszew che ne gestisce l’attività per due anni e a dicembre 2012 la chiude trasferendo la produzione in Polonia: 330 licenziati. Resta UniCredit come proprietaria dell’area industriale dal 2007.

I dipendenti che la occupano decidono di autogestirla cambiando e diversificando le attività e anche le finalità. Per fare questo gli spazi interni vengono ripensati e non a caso l’esperienza viene chiamata RiMaflow; anche i rapporti con l’esterno cambiano, vogliono essere cambiati, e quindi gli spazi esterni vengono ripensati in un’ottica di relazione, di sostegno economico e sociale attivando legami con soggetti come i sindacati, associazioni varie, gli abitanti, ecc., e non più solo come logistica per i trasporti in entrata e in uscita da una fabbrica. I contatti cercati con l’amministrazione comunale, che dovrebbe essere tra i referenti privilegiati in quanto soggetto gestore pubblico del territorio, non danno gli esiti sperati e, anzi, sono stati un problema a prescindere dal colore politico della giunta.

Fin dall’inizio l’esperienza della RiMaflow si è configurata come una  ‘azione sociale prefigurativa’ con l’obiettivo di connettere e intrecciare le attività economiche con la comunità locale e non solo, offrendo servizi e cercando supporto e partecipazione: sono state organizzate visite degli scolari delle scuole elementari del posto, il proseguimento della mensa interna a prezzi contenuti, i capannoni sono diventati spazi per artigiani locali (es. restauro mobili, riparazione cellulari e computer),  produzioni artistiche, uffici per piccole società, stanze e ambienti per assemblee e conferenze,  aree per deposito e magazzinaggio, parcheggio coperto camper, addestramento cani negli spazi esterni; sono stati attivati accordi e sinergie con autogestioni, cooperative, associazioni in campo agricolo, artigiano, di produzione e servizi (locali e non solo);  collegamenti con i GAS (Gruppi di Acquisto Solidale).

Ma un tipo si  esperienza come questa è in conflitto sia con la struttura legale della società capitalista che con l’attitudine mentale del selfcaging sociale che accetta/subisce il caging spaziale di quella logica.  

In campo ci sono anche attori ‘forti’ che non si vedono direttamente nello spazio, ma che agiscono e incidono anche fisicamente:

– gli  interessi della proprietà (banca Unicredit , la seconda in Italia per importanza), che dopo il collasso finanziario di Maflow inizia un’azione legale per ottenere lo sgombero e poi la vendita dell’immobile (anche se nella zona sono molte le fabbriche chiuse, vuote da tempo e molte con cartelli di vendita);

– il tendenziale diverso approccio del consiglio municipale, che cambia a seconda dell’orientamento politico del sindaco e della maggioranza risultata dalle elezioni, anche se non in questo caso specifico;

– l’approccio mentale e ideologico della proprietà e delle autorità statali (prefetto) in merito a come fronteggiare l’illegalità dell’occupazione di una fabbrica.

L’esempio più eclatante è la denuncia e poi il carcere per il responsabile ufficiale  dell’associazione di gestione con l’accusa di riciclo illegale di  rifiuti riguardanti carta da parati e plastica che per RiMaflow erano materia prima seconda e non rifiuti; dopo 6 mesi e mezzo di detenzione preventiva con l’accusa infamante di associazione a delinquere finalizzata allo smaltimento illecito di rifiuti, Massimo Lettieri, presidente della Cooperativa RiMaflow in autogestione, l’11 maggio del 2019 viene scarcerato, ma le accuse rimangono. Avendo tutti gli altri imputati patteggiato, non c’erano le condizioni per andare a processo da solo: anni di dibattimenti e costi legali impossibili da sostenere, con l’aggravante di non poter neppure beneficiare degli sconti di pena disposti dal pubblico ministero. Un poster esposto a RiMaflow dice che “I poveri, anche quando hanno ragione, possono solo stare in galera! Massimo dovrà quindi scontare due anni in affidamento ai servizi sociali. Si tratta della pena più bassa tra tutti gli imputati, tuttavia per noi questa non è giustizia, è comunque un’infamia! “. Ci sono comunque le sanzioni e le spese processuali a cui far fronte  come Cooperativa, a cui sono stati sequestrati i beni.

Rispetto ad altre esperienze di occupazione e autogestione il gruppo dei lavoratori della RiMaflow, aiutati anche da sostegno esterno, hanno mostrato una significativa capacità dei lavoratori di auto-organizzarsi e di resistere economicamente e psicologicamente. Questo per sei anni.

Una soluzione infine viene trovata e significativamente è attiva dal 1 maggio 2019.

Dopo una negoziazione di alcuni anni tra la proprietà e l’associazione dei lavoratori, grazie alla mediazione di Saccone,  nuovo prefetto di Milano che ha avuto un diverso approccio al concetto di ‘(il)legalità’ di una occupazione rispetto a Lamorgese, si arriva ad un accordo il 28 novembre 2018 (con uno sgombero già attivato) per una pacifica de-occupazione della fabbrica entro pochi mesi.

Una nuova sede era già stata individuata dai lavoratori:  è uno dei due stabilimenti ex Maflow che era rimasto attivo fino all’anno precedente l’accordo (ossia 2017), molto più nuovo e non decrepito e da bonificare. Non era proprietà di UniCredit, ma di un privato. E’ stato acquistato dal Consorzio “Almeno 331” (ossia con l’obiettivo di arrivare a un operaio in più di quelli licenziati nel 2012) composto da Caritas, Fondazione Vismara, Associazione Chico Mendes e Cooperativa RiMaflow. Il presidente del Consorzio, Emilio Roncoroni, è lo stesso della Cooperativa RiMaflow Fuorimercato (nome attuale). La nuova cooperativa è entrata in parte con i fondi recuperati da UniCredit. Il consorzio gestisce un mutuo con Banca Etica per la quota rimanente. Cabassi e Bastogi non stanno nel consorzio, ma hanno acquistato una parte restante dell’immobile per un loro magazzino.

Conquistata la stabilità la sfida è ora muoversi nei nuovi spazi mantenendo gli obiettivi politici e le pratiche sociali attivate grazie anche ad  un nuovo statuto legale, una nuova cooperativa capace di (e autorizzata a) gestire molte differenti attività.

Attivisti ‘rivoluzionari’ potrebbero criticare questo risultato che è certamente un compromesso, ma  la disparità delle forze in campo è forte e ‘normalizzare’, cioè accettare/subire  il contesto legal-capitalistico della società, in questo caso può preservare una esperienza alternativa: da una Temporary (TAZ, Temporary Autonomous Zone, Bey 2020) ad una SAZ, una Stable Autonomous Zone, per affrontare la sfida della sopravvivenza. L’obiettivo iniziale principale era l’ottenimento di un posto di lavoro non in nero, ma a contratto come sono oggi, per chi non aveva niente ed era licenziato; un obiettivo raggiunto.

Però la nuova sede ha meno spazio rispetto alla precedente (così, per esempio, il rimessaggio dei camper e l’addestramento cani non sono più possibili, riducendo una entrata monetaria senza quasi spese di gestione).

Legalmente la dinamica di RiMaflow sembra risolta, ma il caging fisico e spaziale delle periferie disordinate è stabilmente attivo.
La distanza dall’asse di comunicazione principale è passata da 300 metri a circa 1 kilometro.

Tra la strada principale e la nuova sede ci sono pochi blocchi di ville individuali, generalmente abitate da persone politicamente non favorevoli a esperienze sociali come fabbriche occupate e/o obiettivi ‘socialisti’.

C’è una linea di autobus urbani, ma la posizione della nuova sede  rimane fisicamente e ‘mentalmente’ marginale, per il mix di ville, edifici industriali, poche attività commerciali, e edifici residenziali con poca densità abitativa.

4 – Nuovo contesto spaziale, nuove sfide per il futuro

Le sfide per il nuovo futuro nella nuova sede erano diverse. Fare in modo che la nuova collocazione fosse comoda e accessibile per la gente in modo da mantenere i collegamenti sociali attivati nella precedente sede. Ma con l’incognita se i nuovi legami socio-fisici (da attivare) sarebbero stati più o meno forti nel sostenere l’esperienza autogestionaria.  A questo scopo il 14 ottobre 2019 era stata lanciata una iniziativa pubblica per (ri)collegarsi al territorio vecchio e nuovo; altre iniziative erano programmate, sostenute dalla  determinazione di continuare a costruire legami sociali e un futuro condiviso. La pandemia Covid è stata un duro colpo, ma non ha ucciso l’esperienza. Però la chiusura forzata ha la limitato le relazioni sociali; ad esempio l’idea di usare la mensa anche come ristorante sociale ha dovuto confrontarsi con le chiusure imposte per limitare il contagio.

Nel 2020, con le attività di ristorazione chiuse e gli eventi cancellati, sono state stimate perdite pari a 160mila euro e i lavoratori a rotazione hanno usufruito della cassa integrazione.

Tra i progetti in cantiere, che la pandemia ha fermato, c’è l’idea di organizzare tirocini, insieme a enti territoriali e scuole professionali, con i professionisti che occupano la “Cittadella degli artigiani”,  l’altro capannone della struttura e seconda anima di RiMaflow.

La nuova cooperativa si è trovata ad avere un nuovo spazio interno dove continuare a mettere in pratica i principi etici che la ispirano, ma lo spazio esterno è stato modificato nelle possibilità di uso fisico; non è cambiata la struttura del costruito, ma è profondamente cambiato lo spazio della relazione tra umani e dello scambio economico.

In un articolo di Marta Facchini, pubblicato in data 13 aprile 2021 su Altraeconomia, si dà conto delle esperienze in corso e di cosa è stato fatto durante il 2020.

Quello che emerge è stata la continuità dell’approccio del ripensamento degli spazi interni ed esterni mostrata nella vecchia sede. La pratica di rapportarsi con associazioni e realtà produttive di base e autogestite, i contatti con i GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), la scelta di collegarsi alle reti delle iniziative solidali simili come quella di FuoriMercato si sono mostrate fondamentali e vincenti anche in una situazione pandemica.

[…] Le bottiglie di birra “La Comune 1871”, l’ultima novità lanciata da RiMaflow, sono conservate nel magazzino della fabbrica recuperata a Trezzano sul Naviglio (MI). Il capannone è uno dei cuori pulsanti dello stabilimento in via Verri: qui vengono stoccati i prodotti di FuoriMercato, organizzati sugli scaffali e poi suddivisi negli ordini che alimentano le botteghe e 70 Gruppi di acquisto solidale a Milano e provincia. Sui ripiani ci sono alcuni dei prodotti più noti della filiera autogestita alternativa alla Grande distribuzione organizzata: la vodka antisessista Kollontai, le confetture delle Cuoche Combattenti che arrivano da Palermo e le arance di Sos Rosarno. Da marzo 2021 si è aggiunta anche la nuova birra rossa, che segue “La Staffetta” e il liquore “Amaro partigiano”. Dice Luca Federici, che gestisce la produzione dei liquori RiMaflow: “Anche se le nostre produzioni sono esterne, sono condivise in ogni passaggio e abbiamo un rapporto continuo e diretto con chi le mette in pratica. RiMaflow pone sempre al centro la sua idea di lavoro in autogestione, fondata sul principio che l’autoproduzione è lo strumento per costruire un’economia e una politica diverse”.[…]

[…]  nuovi prodotti sono stati pensati anche per ripartire dopo un anno difficile, così come l’idea di rafforzare il settore dei servizi, ovvero la parte di RiMaflow che si occupa di gestire lavori per conto terzi.[…]

[…] “La nostra idea è aprire un hub del cibo”, dice [Spartaco] Codevilla [socio fondatore]. Il progetto affonda le radici in quanto successo nel primo lockdown di marzo e aprile 2020 quando questi stessi spazi sono stati utilizzati per stoccare i generi alimentari distribuiti a persone e famiglie in difficoltà nei quartieri di Lorenteggio e Giambellino nell’ambito del progetto QuBì, il programma contro la povertà infantile finanziato da Fondazione Cariplo e sostenuto dalla Fondazione Peppino Vismara e dal  Comune di Milano. “Di fronte a una crisi non più congiunturale ma strutturale, abbiamo iniziato a riflettere sulla necessità di aprire un hub permanente insieme alle realtà con cui abbiamo collaborato in quella fase dell’emergenza sanitaria”. La struttura, dove stoccare e conservare generi alimentari per sostenere persone in difficoltà, sarebbe ricavata in una parte del capannone che da marzo di quest’anno è condiviso anche con la cooperativa Chico Mendes, giunta anche lei in via Verri, che a Milano tra le tante altre cose opera in sette botteghe del commercio equo.[…]

[…] Francesco Costa, artigiano [N.d.A.: che ha trovato in RiMaflow lo spazio fisico per la sua attività], dice: “Mi alzo la mattina e sono felice di andare a lavorare. L’autogestione è il nostro punto di forza perché ci coordiniamo e non abbiamo ‘padroni’ che ci dicono che cosa fare. Per me questo posto è tutto, è una casa”.[…]

Visto che la parola economia deriva dall’unione delle parole greche oikos, casanomos, norma o legge,  significa quindi ‘gestione della casa’, nelle parole di Costa c’è lo spazio etico e lo spazio fisico.

C’è stata la capacità di immaginare lo spazio: uno spazio base in una rete di spazi fisici e’umani’ dove non è tanto quello che si produce il collante, ma come si usa lo spazio e come si produce, di conseguenza. Come nelle già citate descrizioni e riflessioni di Reclus e Kropotkin più di cento anni fa, che possono essere trovate e sono sviluppate anche in testi recenti come Il principio territoriale di Alberto Magnaghi (2020) che dal 1990, per elaborare le sue proposte, ha lavorato in sinergia anche con geografi come Giuseppe Dematteis (2018) e Massimo Quaini (2017).

E’ la relazione dinamica con la parola autonomia (io stesso mi do le regole) che aumenta la capacità consapevole di pensare gli spazi in modo flessibile e magari anche creativo. Gli spazi che ci sono già, così come sono,  perché è con questi che ci si deve confrontare e che possono essere un bel campo di ricerca per chi vuole ‘praticare’, in tutti i sensi, la geografia sociale.

Riferimenti bibliografici

Bey, H. 2020. TAZ. La Zona Autonoma Temporanea.  Milano: Shake.

Dematteis, G., Magnaghi A. 2018.  “Patrimonio territoriale e coralità produttiva. Nuove frontiere per i sistemi economici locali”. Scienze del Territorio 6: 12-25. [20/12/2018]. Doi:  https://doi.org/10.13128/Scienze_Territorio-24362.

Facchini, M. 2021. “RiMaflow si muove: i progetti in corso della fabbrica recuperata di Trezzano sul

Naviglio”, Altraeconomia. [13/04/2021]. https://altreconomia.it/rimaflow-si-muove-i-progetti-in-corso-della-fabbrica-recuperata-di-trezzano-sul-naviglio/

Kropotkin, P. 1974.  Campi, fabbriche e officine. Ward C., a cura di. Milano: Edizioni Antistato.

Kropotkin, P. 2012.  La conquista del pane . Anzio-Lavinio: Ortica.

Magnaghi, A. 2020. Il principio territoriale. Torino: Bollati Boringhieri.

Quaini, M. 2017. ”Il ‘Dizionario delle parole territorialiste’. Un progetto non più rinviabile”, Scienze del Territorio 5:  261-72.

Reclus, E. 1905-08.  L’Homme et la Terre.  Paris: Librairie Universelle. (5 volumi)

Reclus, E. 1990. L’Homme et la Terre. Paris: Fayard. (2  volumi). Reclus, E. 1874.  Nouvelle Geographie Universelle. Paris: Hachette. Prefazione.