Geografo (politico) – Political Geographer – "Imagine there's no countries, nothing to kill or die for" (Imagine, John Lennon) – "Ci sono più cose in cielo e in terra, mio caro Orazio, di quante se ne sognano nella tua filosofia" (Amleto, Shakespeare) – Photo from the top of the Pyramid of the Sun in Teotihuacan, Mexico
19 novembre 2023 – testo del podcast pubblicato su Spreaker, Spotify e Youtube
Mentre procede la sistematica distruzione di case e l’occupazione del territorio di Gaza da parte dell’esercito israeliano, a livello dei soliti pochi che decidono le sorti geopolitiche mondiali qualcuno ha cominciato domandarsi cosa fare a Gaza per il “dopo Hamas” e quali attori potrebbero prendere il controllo della situazione.
Intanto, come geografo, devo partire dalle condizioni concrete sul terreno che si possono prevedere quando Israele deciderà che “Hamas è stato eliminato”.
E qui cominciano le note dolenti. Hamas non si può eliminare fisicamente; si possono distruggere fisicamente i bunker sotterranei e molti tunnel, chiuderne gli accessi, ma certo non tutti. Comunque non è questa l’essenza di Hamas. Che è una entità che nasce e dipende dalle persone e non dalla potenza delle armi. L’ideologia di Hamas, l’islam politico, continuerà a vivere nei dirigenti che oggi non si trovano a Gaza, nel sostegno ideale e religioso che ha nei diversi stati del mondo arabo-musulmano e soprattutto nel numero consistente di nuovi volontari miliziani fatti da tutti quei giovani maschi palestinesi che in questi e nei prossimi giorni hanno visto la propria casa distrutta, i propri parenti (genitori, mogli, fratelli e sorelle, figli) e amici uccisi dai bombardamenti israeliani.
A Gaza si può stimare che ci siano circa 300mila giovani maschi palestinesi tra i 18 e i 30 anni e penso che sia concretamente possibile che il 10% possa voler vendicarsi con le armi contro qualsiasi ebreo israeliano; anche con le intollerabili modalità usate il 7 ottobre dai miliziani di Hamas e degli altri più piccoli gruppi che hanno agito con loro tipo la jihad islamica locale.
Questo implica che quello che viene delicatamente definito “controllo della sicurezza” a Gaza, e cioè la capacità di controllare le persone e impedire che in futuro si riformino gruppi armati, dovrà essere fatto da soggetti contrari all’islam politico che non abbiano remore a reprimere, anche con la forza, miliziani e attivisti di quel campo.
E tutto questo in un contesto di distruzione di case e di infrastrutture di ogni tipo: non solo edifici e strade, ma anche centrali elettriche, tubature dell’acqua, fognature, connessioni elettriche eccetera; oltre alla devastazione psicologica, soprattutto nei bambini, che le bombe e l’esodo forzato a piedi o su carretti hanno provocato nella popolazione di Gaza.
Per riportare il contesto fisico di Gaza ad una condizione di vita appena passabile ci vorrà tempo, anni, e soldi, molti soldi. Quindi un controllo prolungato del territorio dal punto di vista amministrativo e politico abbinato, come già detto, ad un controllo militare della situazione.
Checché ne dica Netanyahu, e sempre che il suo destino politico non sia alla fine, Israele non potrà restare a Gaza per anni a controllare militarmente e reprimere, come fa dal 1967 nella Cisgiordania. E soprattutto non potrà (e credo non vorrà) amministrare Gaza; gli costerebbe troppo in termini economici e soprattutto geopolitici. Già ora le migliaia di morti sotto i bombardamenti, fatti in maggioranza da minori e donne, in continua crescita, stanno minando il sostegno occidentale di cui gode e perfino negli Stati Uniti, la cui opinione pubblica è da decenni stabilmente dalla sua parte qualunque cosa faccia. E nel mondo arabo-musulmano anche gli stati che hanno sottoscritto gli Accordi di Abramo riconoscendo diplomaticamente Israele, penso che saranno in qualche modo costretti quantomeno a sospenderli se non a rigettarli del tutto.
Chi allora?
Prendo atto, a prescindere dai miei desideri e principi etici, che il contesto geopolitico mondiale non è democratico e chi decide sono sempre pochi leader di stati ricchi e potenti militarmente. Mai più di 10; alcuni governi sempre presenti a livello decisionale, Stati Uniti in testa, e altri coinvolti a seconda di dove si trova geograficamente la crisi.
Quindi le condizioni ineludibili mi sembra che siano sono queste quattro:
1) Israele deve accettare (cioè fidarsi almeno un poco) che soggetti terzi siano presenti con proprie truppe a Gaza;
2) gli stati che forniscono i militari devono essere solidi economicamente (per mantenere truppe per anni) e ideologicamente contrari all’islam politico di Hamas e di gruppi come la jihad islamica e/o al Qaeda e simili; devono essere anche “credibili” militarmente, e credibili significa che abbiano dimostrato le proprie capacità militari sul terreno, cioè in qualche conflitto armato concreto.
3) bisogna che arrivino molti fondi e per anni per ricostruire le condizioni fisiche di una vita civile;
4) il governo di Gaza deve essere solo amministrativo e non politico perché venga accettato sia da Israele che da chi invia i militari e/o i soldi. Questo significa niente elezioni per qualche anno; cosa a cui i palestinesi, per altro, sono comunque abituati da un bel po’.
Per i punti 1) (accettazione da parte di Israele), 2) (militarmente e economicamente solidi), e in parte anche il 3) (fornitori di fondi) mi sembra che gli unici due stati possibili siano l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi hanno sottoscritto gli accordi di Abramo con Israele e i sauditi erano coinvolti in una strategia statunitense e israeliana per convincerli a sottoscriverli. Economicamente sono forti e militarmente si stanno facendo le ossa nel conflitto yemenita in cui sono direttamente coinvolti. Ambedue sono stati “anti Iran”, soprattutto i sauditi, anche se grazie alla Cina negli ultimi mesi c’è stato un riavvicinamento diplomatico sostanziale. E soprattutto sono emirati, non democratici in senso occidentale, e decisamente contrari all’islam politico della Fratellanza Musulmana, soprattutto nei suoi aspetti militanti tipo Hamas e simili.
Il controllo militare della situazione a Gaza da parte di emirati e sauditi farebbe certo da garanzia perché da una buona parte degli stati arabo-musulmani possano arrivare fondi per la ricostruzione di Gaza; penso anche che il Qatar potrebbe continuare a inviare fondi per le infrastrutture di Gaza e forse anche la Turchia che potrebbe “offrire” il contributo operativo delle sue aziende esperte nei settori edilizi e infrastrutturali ed averne un tornaconto economico.
Il punto 4) è quello più sensibile politicamente e anche dal punto di vista del contesto del “teatro” politico locale e internazionale; cioè del prestigio, delle iconografie e della diffusa ipocrisia del discourse , il quadro concettuale dei pochi che decidono per interessi propri ammantati da nobili principi. Per questo suggerivo come soluzione il fatto che la gestione futura di Gaza debba essere solo amministrativa e non politica. L’ANP non è un soggetto politico possibile: ha dimostrato di non essere né capace né credibile.
Ci vuole un governo di tecnici esperti in diversi specifici settori operativi, di diverse provenienze statuali, proposti e valutati da una commissione internazionale, formalmente sotto l’ombrello dell’ONU, ma in sostanza supervisionato, in posizione dominante, da Usa, Israele, Arabia Saudita, Emirati; per opportunità geopolitica vanno coinvolti Egitto e Giordania. Il gruppo di controllo può essere allargato a qualche rappresentante di altri governi coinvolti economicamente: Qatar, Turchia e qualche governo europeo se ci mette fondi o capacità tecniche operative sul campo tramite sue società.
Visto che le gravi crisi, e questa di Gaza lo è di certo, producono cambiamenti che prima della crisi venivano o rifiutati o considerati inaccettabili o impossibili, potrebbe essere possibile affrontare anche la questione irrisolta da decenni della Cisgiordania. Che però è in una situazione concreta molto più difficile da risolvere politicamente, proprio per le condizioni sul terreno; non ci sono distruzioni, ma al contrario una crescita di edificazioni che sono il punto centrale del problema e contribuiscono a limitare le possibili soluzioni a meno che non si pensi in maniera creativa e si separi nettamente la questione della cittadinanza da quella della gestione amministrativa del territorio. Bisogna uscire dalla mentalità dello stato-nazione, cioè dall’idea che uno “Stato” abbia un territorio contiguo, confinato chiaramente e governato dai rappresentanti di una sola “nazione” in maniera esclusiva.
Paradossalmente la situazione di Gaza, da questo punto di vista, è molto più chiara e interna alla dominante concezione dello stato-nazione: c’è un territorio unitario, chiaramente confinato e abitato da una sola “nazione” dal punto di vista culturale. Un caso raro nel mondo, sostanzialmente unico con una popolazione di 2 milioni di abitanti.
Per questo ritengo che possa (e debba) avere un futuro separato dalla Cisgiordania; ha più abitanti di molti piccoli stati nel mondo, possibilità di autosufficienza economica (si affaccia sul mare, con un giacimento di gas-petrolio sfruttabile) e la convivenza politica interna meno problematica per l’assenza di gruppi culturali consistenti e “altri”, soprattutto di cittadini israeliani.
Ecco perché l’ipotesi che suggerisco qui per il dopo Hamas a Gaza la vedo come praticabile.
Hamas non sparirebbe nel mondo arabo-musulmano, ma a Gaza avrebbe un margine di azione molto ridotto se non nullo e quindi non verrebbero più lanciati razzi, se non occasionalmente, in numero ridotto e ininfluente. Certo per fare un attentato con una bomba o con uccisioni mirate non servono molti uomini, ma la possibilità di incidere sulle dinamiche complessive a Gaza sarebbe sostanzialmente irrisoria.
La difficoltà maggiore che vedo è nella testa di quei pochi che decidono. Non ho nessuna fiducia in Netanyahu, in Gallant ministro della difesa israeliano e in molti ministri dell’attuale governo. Non credo che i consiglieri e gli esperti di cui si avvale Biden siano così flessibili e creativi per uscire dalle logiche di pensare la geopolitica e la politica in maniera piramidale e di potere. Paradossalmente l’autocratico saudita Mohamed bin Salman e il consiglio degli emiri degli Emirati possono essere più rapidi nel decidere e opportunisti nel capire quali azioni portino loro prestigio e vantaggi economici. L’ONU è ostaggio del diritto di veto dei membri permanenti e non credo che il Consiglio di Sicurezza, unico abilitato ad approvare il piano che suggerisco, potrebbe (e vorrebbe) opporsi. Se piace agli Usa di solito Francia e soprattutto UK si accodano e gli interessi di Russia e Cina non vengono toccati.
Per questo nell’attuale contesto geopolitico, che pure non mi piace per niente, credo che la mia proposta potrebbe essere quella più utile e “comprensibile”, anche accettabile dai potenti che ho citato, ma anche dalla gente comune, soprattutto per dare tempo e opportunità perché le distruzioni vengano riparate e perché le menti provino ad attutire dolore e desiderio di vendetta per guardare ad un futuro più tollerabile sul piano dei diritti e delle condizioni di vita a Gaza e sperabilmente anche in Cisgiordania.
Dopo 45 giorni dal 27 settembre 2009 in cui l’Azerbaigian ha attaccato il Nagorno-Karabakh si è arrivati ad un armistizio, favorito dalla Russia, che mette a disposizione circa 2000 soldati e mezzi per garantire il cessate il fuoco tra i due contendenti.
Vorrei sottolineare alcuni elementi che, secondo me, sono piuttosto significativi su sia sul piano dei fatti concreti che del racconto delle narrazioni che possiamo leggere sui quotidiani italiani.
Intanto voglio ricordare che il mio criterio interpretativo delle dinamiche geopolitiche è che queste si muovono all’interno di un quadro di ambiguità e ipocrisia della cosiddetta comunità internazionale; una “comunità internazionale” che in realtà è fatta, di volta in volta, al massimo da 10 stati. Quattro o cinque di questi sono sempre gli stessi e sono i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU con diritto di veto. E’ una “comunità” in realtà soltanto dichiarata nei discorsi ufficiali o negli articoli dei giornali, ma in realtà non è una vera comunità perché è in ostaggio di qualche stato-nazione molto potente oppure di stati-nazione che sono i loro cosiddetti proxy, ovvero nazioni meno potenti che però in certi casi si muovono o intervengono per inseguire i loro interessi che sono anche in favore degli interessi dello stato più potente che li protegge o di cui sono alleati. Sono comunque tutti stati con una forza militare consistente perché quando si dice potente si intende la forza militare; e hanno anche la potenza economica, perché non si ha abbastanza forza militare se non si ha anche una potenza economica e popolazione. Gli stati piccoli o poco popolati, anche se ricchi, non riescono ad essere abbastanza “potenti” perché la loro forza militare sia risolutiva.
Questi stati infrangono o forzano le regole, o si comportano al di fuori della cosiddetta “legalità internazionale” anche se quasi sempre vi si appellano o rivendicano quella parte delle “regole” che fa loro più comodo. In questo quadro l’atteggiamento diffuso nei confronti delle dinamiche geopolitiche segue la regola dei due pesi e delle due misure, ovverosia “noi” e i nostri alleati siamo nel giusto mentre i “nemici” o gli stati che sono considerati o percepiti come diversi da noi, altro da noi, sbagliano o sono infidi.
Le narrazioni, sia nei discorsi pubblici e ufficiali, le relazioni diplomatiche, le narrazioni dei quotidiani e delle TV evidenziano certi fatti o sottostimano altri fatti all’interno di questo quadro di due pesi e due misure perché tutte queste narrazioni più o meno consapevolmente sono all’interno del proprio discourse politico, ovvero della propria visione di che cosa è giusto e cosa è sbagliato e degli schieramenti in campo.
Se vige la legge del più forte sono molto rari i casi in cui ci sia una reale negoziazione per risolvere un problema geopolitico; le negoziazioni efficaci possono venire generalmente dopo una grave crisi oppure se c’è un cambio di leadership all’interno di uno dei due paesi contendenti oppure se cambiano tutti e due. Per esempio il raggiungimento di un accordo nella ex Iugoslavia nel 1996 c’è stato perché alla fine sono venuti a mancare i mezzi per tutte le parti in causa, sono morti tanti uomini combattenti e sono finiti gli appoggi esterni che venivano dai paesi esterni più potenti.
Chi vince o sta vincendo non è disposto a trattare e quando ha vinto o si sente più forte dell’avversario e quindi prima di negoziare pretende che l’altro faccia qualche dichiarazione oppure che rinunci a qualche cosa. Questo naturalmente non può portare a delle negoziazioni efficaci se resta questa situazione di squilibrio. Chi perde, prima di andare a negoziare o a negoziare di nuovo, vuole diventare più forte per poter essere in condizioni migliori altrimenti sa che comunque ha perso e quindi non è disposto a perdere ancora di più; e anche qui la negoziazione non porta a buon fine. Questo avviene in genere quando c’è un conflitto militare e quindi alla fine c’è qualcuno che sul terreno ha vinto. Se la pace viene imposta da qualche attore esterno super-potente, la tensione continuerà a covare e prima o poi riscoppierà in uno scontro violento.
C’è poi una caratteristica umana, che si potrebbe controllare volendo, ma l’abitudine storica, invece, è stata da moltissimo tempo questa: chi vince tende a vendicarsi o a prendersi delle soddisfazioni; a più livelli naturalmente. Per esempio nel territorio conquistato si mettono delle nuove istituzioni che comandano favorendo i propri interessi e cercando di escludere gli interessi dei perdenti; e questo può verificarsi sia a livello dei dirigenti che a quello dei semplici funzionari o anche a quello dei soldati che controllano il territorio: ad un checkpoint nel modo di controllare i documenti o andando in giro per la città, entrando in un bar e prendendosi delle libertà, ottenere dei privilegi, o intimidendo gli “altri”.Si fanno sentire i membri dell’altro gruppo in una condizione di inferiorità che può essere manifestata dall’obbligo dell’uso della lingua dei vincitori e la proibizione dell’uso proprio lingua, se ci sono gruppi con linguistici diverse; oppure gli appartenenti al gruppo dominante hanno dei privilegi evidenti, oppure il gruppo perdente subisce delle vessazioni o percepisce di essere in una condizione di inferiorità, eccetera, eccetera.
Nel caso del Nagorno-Karabakh la cosa da sottolineare è che all’interno dell’impero russo armeni e azeri di fatto subivano una condizione di inferiorità nei confronti dei russi e di quelli che parlavano russo e quindi il conflitto tra i due gruppi era limitato a scontri locali che non avevano spazio per esplodere su larga scala. Con la fine dell’Impero russo e la prima guerra mondiale e durante gli anni turbolenti della formazione dell’Unione Sovietica lo scontro nazionalista per avere uno stato-nazione proprio da parte dei due gruppi ha provocato scontri, pogrom e ondate di profughi nei due sensi a seconda di chi in quel momento era più forte o vinceva. Il consolidamento dell’Unione Sovietica e l’imposizione di un ordine politico rigido dall’alto, ancora una volta russo e russofono, ha represso le spinte nazionaliste. Che non sono scomparse, ma sono state coperte dal mantello dell’internazionalismo proletario; in questo quadro la definizione dei confini di Armenia e Azerbaigian fatta negli anni ’20 e poi riconfermata nel 1936, ha creato la base del contenzioso di oggi nell’attribuzione all’Azerbaigian dell’area del Nagorno Karabakh, abitato prevalentemente da armeni.
In effetti il problema di fondo è quello dell’idea dello stato-nazione che viene concepito come uno stato che corrisponda ad una sola “nazione” cioè ad un solo gruppo umano che condivide lingua e abitudini di vita. Nessuno stato al mondo è o è mai stato “puro”. Ricordo che tra il 1923 e il 1929 nella striscia di terra contesa oggi e identificata nei 7 distretti azeri conquistati dagli armeni nel 1994 c’è stata una entità politica autonoma riconosciuta come curda! Per inseguire la “purezza” dello stato-nazione appartiene all’Azerbaigian un pezzo di territorio, il Nakhichevan, che confina con la Turchia ed è separato dal resto dello stato dall’Armenia, come gli armeni del Nagorno Karabakh sono staccati dall’Armenia dai 7 distretti di cui si è già accennato.
Oggi gli azeri sono in una condizione di maggiore forza militare e la loro operazione militare ha consentito di conquistare terreno; in parte nel sud del Nagorno Karabakh, autoproclamatosi Artsakh, indipendente da 25 anni, e in parte nel territorio azero al confine con l’Iran, a sud, che era stato conquistato militarmente dagli armeni nel 1994.
Si stima che circa 40.000 armeni del Nagorno-Karabakh siano fuggiti dal territorio per andare in Armenia e vivono ospitati da altri o vivono in baracche o si arrangiano come possono, ma nel 1992-94, quando c’è stata la guerra in cui gli armeni del Nagorno-Karabakh appoggiati dall’esercito della Armenia hanno vinto conquistando 7 distretti che erano abitati in maggioranza da azeri, ebbene si stima che almeno 600.000 persone siano scappate dal conflitto, siano state costrette a scappare o per paura siano scappate spontaneamente; sono ancora in varie parte dell’Azerbaigian e un certo numero spera di tornare alle proprie case che hanno dovuto lasciare 25 anni fa.
La creazione di profughi, in mancanza di una negoziazione e quando si usa la guerra, è la conseguenza più frequente nelle dinamiche geopolitiche.
Il titolo del quotidiano Domani del 28 settembre, cioè il giorno dopo dell’attacco, è molto significativo e preciso: L’Azerbaigian prova a farla finita coi separatisti armeni. In questo titolo si sottolinea che chi si muove militarmente e cerca di chiudere questo contenzioso in sospeso, di farla finita con gli armeni del Nagorno Karabakh che sono dei separatisti è l’Azerbaigian. Un Azerbaigian che oggi si sente forte militarmente perché nel corso degli ultimi vent’anni, grazie anche alle entrate petrolifere e alla vendita del gas, a noi per esempio e ai paesi europei, ha migliorato molto, con l’appoggio turco e armi di Israele, le proprie capacità militari; secondo, ha una umiliazione da vendicare, cioè la sconfitta del 1994; terzo, afferma che rivuole quello che è “suo”, e in effetti la cosiddetta legalità internazionale, ovverosia il riconoscimento internazionale dei confini, é dalla parte dell’Azerbaigian (l’ONU e tutti gli stati riconoscono che il Nagorno-Karabakh è una regione che dovrebbe essere autonoma, ma che fa parte dell’Azerbaigian). Infine, essendo tutti e due gli stati membri dell’ONU, questi non riconosce conquiste territoriali tramite l’uso della guerra e quindi gli armeni che nella guerra del 1991-94 hanno conquistato 7 distretti dell’Azerbaigian da questo punto di vista sono fuori dalla cosiddetta legalità internazionale; ben quattro risoluzioni ONU, peraltro mai rispettate dall’Armenia, hanno chiesto nel 1993il ritiro incondizionato dei militari armeni dal territorio azero; nella fattispecie la 822, la 853, la 874 e la 884.
In passato i negoziati sono sempre stati inconcludenti per responsabilità di ambedue, ma naturalmente nel quadro ambiguo di cui si è accennato all’inizio. L’Armenia, avendo conquistato il territorio, era in una posizione di forza e meno disponibile mentre gli azeri erano una condizione di inferiorità e quindi le richieste che si sentivano fare erano per loro inaccettabili. Oggi sono più forti e in effetti militarmente lo hanno dimostrato. Sottolineo che da un punto di vista pratico gli azeri hanno colpito il territorio del Nagorno-Karabakh e dei distretti circostanti e non il territorio della Armenia e quindi formalmente stanno riconquistando un pezzo di territorio che è il loro mentre gli armeni, se vogliono appoggiare il Nagorno Karabakh, devono sparare dei missili da territorio azero che loro hanno conquistato più di 25 anni fa e quindi formalmente si muovono in un territorio che non è loro e non ne avrebbero diritto.
Comunque, oltre ai profughi, come sempre, la guerra ha avuto i soliti effetti collaterali e cioè la morte dei civili sotto i bombardamenti oltre a quella dei combattenti.
I nostri giornali come hanno raccontato questa guerra? Spesso sui giornali si cita, paradossalmente, una frase di Eschilo, il drammaturgo greco di 2500 anni fa che aveva inserito in una sua opera la frase: “in guerra la verità è la prima vittima”. Però quello che si può vedere è che la logica della narrazione è una logica di schieramento e quindi in Occidente tendenzialmente noi siamo da parte degli armeni perché sono cristiani e perché li consideriamo più “europei”, anche se territorialmente sono fuori dall’Europa, per una serie di legami soprattutto culturali e religiosi. E quindi noi inquadriamo questo racconto anche all’interno di una storica iconografia del confronto fra cristiani e musulmani: gli armeni cristiani e gli azeri musulmani rientrano in un quadro di interpretazione che è coerente con un racconto che noi abbiamo utilizzato anche nei nostri libri di testo nelle scuole. E’ un racconto piuttosto tradizionale e quindi la narrazione italiana vi si adegua: siamo più “morbidi” e favorevole agli armeni e la questione della legalità internazionale, che come ho già detto a in realtà a favore dell’Azerbaigian, compare negli articoli soltanto in brevi incisi nel testo, quindi mescolata alla gran parte dell’articolo che parla anche di altro, oppure in piccoli box con altre informazioni. Come se fosse una notazione non particolarmente importante.
Per confronto voglio ricordare che invece quando c’è stata la crisi ucraina nel 2014 e 2015 e il passaggio della Crimea dall’Ucraina alla Russia nell’arco di 7-8 mesi (e senza scontri a fuoco, senza morti e con pochi profughi che hanno lasciato la Crimea), ebbene tutto l’Occidente ha insistito sul principio inderogabile dell’integrità territoriale dell’Ucraina, che andava difesa al punto tale che l’Unione Europea da allora ha in atto delle sanzioni economiche nei confronti della Russia. Per il passaggio della Crimea dopo un referendum, abitata al 75% da russofoni e di cultura russa, “regalata” nel 1954 da Krusciov all’Ucraina, cioè dal leader del nemico storico dell’Occidente durante la Guerra Fredda. Stalin viene citato con disapprovazione come causa del problema del Nagorno Karabakh, ma non nello stesso modo viene valutato l’agire del suo successore per la questione della Crimea.
Quindi nel caso dell’Azerbaigian, che è musulmano e appoggiato dalla Turchia e che quindi è considerato “altro” culturalmente, viene sottostimata la perdita di territorio da parte sua e sostanzialmente viene presentato come un qualcosa di negativo, ma che non meriterebbe la guerra.
Le condizioni di inferiorità militare hanno convinto il premier armeno e il comandante militare dei secessionisti del Nagorno Karabakh che la difesa era ormai impossibile e quindi che era meglio mantenere il territorio che ancora si controllava prima di perdere tutto. Il presidente russo Putin ha fatto da mediatore ed è riuscito a far firmare un armistizio con tappe in più fasi di realizzazione, garantito per 5 anni dal dispiegamento di circa 2000 soldati russi (con carri armati e blindati). Un titolo di un nostro quotidiano scriveva “Putin Impone la pace” con un vago senso di coercizione.
Alla fine di novembre i soldati russi sono dispiegati, le fasi del ritiro armeno vengono rispettate e anche la richiesta armena di piccoli ritardi per forza maggiore non crea tensioni. La Turchia ha cercato di inserirsi come attore della trattativa e anche di posizionare suoi militari sul terreno con i russi, ma Putin non lo ha permesso. Allora ha chiesto al parlamento turco di autorizzare l’invio di soldati “per fini umanitari” e ha proposto di allargare ad altri stati la partecipazione alla “stabilizzazione” della situazione. Forse sottintende il Gruppo di Minsk (USA, Francia, Russia) che in precedenza non era riuscito a mediare.
Sul terreno servizi TV di Euronews mostrano una situazione tranquilla, movimenti nei due sensi ai check point del corridoio di Lachin, che è il canale garantito di contatto tra Armenia e Nagorno Karabakh, ancora sotto controllo degli armeni, Profughi armeni intervistati affermano di voler tornare a Stepanakert, capitale del Nagorno.
Ora è il momento delle proposte geopolitiche, ma essendo finita la guerra, le distruzioni, le morti, i profughi, i casi lacrimevoli, i servizi TV e i quotidiani parlano di altro.
Ora che i combattimenti sono fermi è il momento di fareproposte politiche per una soluzione stabile. Proposte che abbiano come perno, secondo lo statuto dell’ONU e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, il rispetto dei diritti degli individui ovunque essi si trovino e la protezione delle minoranze.
Sotto il controllo ONU-russo un’ampia autonomia amministrativa degli armeni del Nagorno Karabakh con libertà di uso della lingua, sia pure entro lo stato azero; mantenimento del corridoio garantito di Lachin (sono circa 9 chilometri) tra Armenia e Nagorno Karabakh. Potrebbe essere una via d’uscita che dia tempo ai due gruppi umani di ricominciare a frequentarsi e a smorzare l’odio scatenato dalla propaganda delle due parti. E anche a smorzare il risentimento per i reciproci torti subiti.
Testo del podcast pubblicato su Anchor, Spotify, Spreaker e Youtube (La geopolitica di Fabrizio Eva)
Negli ultimi giorni la questione israelo-palestinese è ritornata sulle prime pagine dei quotidiani e nei servizi dei telegiornali serali. Questo a seguito dell’operazione del 26 gennaio nel campo profughi di Jenin da parte dell’esercito israeliano mirata a neutralizzare dei militanti di gruppi combattenti palestinesi sospettati di preparare un attentato in Israele. Nello scontro sono stati uccisi 8 militanti e due civili, tra cui una donna di 60 anni che si è affacciata alla finestra di casa sua per vedere cosa succedeva ed è stata colpita da un cecchino dell’esercito. Il giorno dopo un singolo attentatore ha sparato per ritorsione sui fedeli, uccidendone sette, che uscivano da una sinagoga del quartiere Neve Yaakov; quartiere costruito come altri in mezzo a cinque villaggi palestinesi a nord di Gerusalemme in un’area inclusa unilateralmente da Israele nel territorio della città, dichiarata nel 1980 “capitale unica, indivisibile ed eterna”. E il giorno dopo ancora un tredicenne palestinese ha sparato contro due civili riconoscibili come ebrei, ferendoli.
Ritengo che la giovane età di quest’ultimo responsabile sia strettamente correlata al contesto attuale in cui si manifesta quotidianamente il confronto-scontro israelo-palestinese.
Nei giorni seguenti ai fatti di sangue si è dispiegato il solito copione politico e mediatico: Israele dice che è stata una operazione necessaria di antiterrorismo per impedire un attentato e che non vuole una escalation coi palestinesi. Da Gaza sono sati lanciati razzi (in parte intercettati, gli altri caduti senza fare danni), e Hamas definisce eroica la ritorsione contro gli israeliani, i jihadisti rivendicano la vendetta, l’Autorità Nazionale Palestinese protesta e sospende la collaborazione con Israele per la sicurezza. Il segretario di stato Usa Blinken arriva per la sua visita già programmata da tempo, incontra i leader delle due parti e ripete le solite generiche frasi: sostegno indiscutibile a Israele per la sua sicurezza quando incontra i politici israeliani e condanna di tutti gli atti violenti che incrinano il processo di pace quando incontra il presidente palestinese. Aggiunge che gli Usa sono contrari all’espansione delle colonie nei Territori Occupati, ma poi non ci sono mai conseguenze alle parole.
Assistiamo ad un teorico processo di pace senza iniziative e sostegno da anni, e una situazione quotidiana sul terreno nei territori occupati e a Gaza che compare nei notiziari solo se ci sono particolari fatti di sangue, altrimenti niente; se non su twitter o altri social media. Eppure nel solo gennaio, entro il giorno 22, sono stati uccisi dalle forze israeliane 18 civili palestinesi, maschi e prevalentemente giovani.
Circa 20 anni fa, dopo una mia visita in Israele e nei territori occupati, avevo ricavato l’impressione che i due gruppi, israeliani e palestinesi, crescessero i propri giovani senza cercare di mitigare la spinta alla rabbia, e alla ritorsione e alla violenza in taluni casi, come conseguenza dello squilibrio di potere che veniva esercitato sul terreno dai militari, dai poliziotti e dai funzionari dello stato israeliano nei confronti della popolazione palestinese dei territori occupati ormai e a Gaza fin dalla vittoria nella guerra del 1967.
Come conseguenza di quello squilibrio di forze progressivamente una parte dei cittadini israeliani ha manifestato la propria preferenza elettorale verso i partiti più conservatori e religioso-conservatori, lasciando spazio a politici dichiaratamente di estrema destra; fino alla aperta approvazione formale che lo stato di Israele ha un carattere “ebraico”, nonostante la presenza di cittadini arabo-palestinesi che sono circa il 20% della popolazione. Con la diffusa paura che il tasso naturale di crescita dei cittadini palestinesi possa portare questi ad essere maggioranza e quindi a eleggere democraticamente un governo “arabo”. Anche per questo la aliyah, il diritto al ritorno degli ebrei nella terra promessa, viene favorita in tutti i modi con la concessione veloce della cittadinanza come è stato per il quasi un milione di russi nel decennio dopo la fine dell’URSS del 1991.
In questo quadro la costruzione di colonie e insediamenti (illegali, secondo lo statuto dell’ONU e secondo i trattati internazionali che Israele ha sottoscritto) ha continuato sotto qualsiasi governo portando il numero dei coloni a circa 700mila. Il problema è che c’è stata una progressiva occupazione fisica del territorio della West Bank, Cisgiordania, che non solo rende ormai impossibile la soluzione politica dei due stati separati, ma vede le azioni violente crescenti dei coloni, anche qui giovani maschi, contro pastori e contadini palestinesi che se si ribellano vedono intervenire i soldati a protezione dei coloni e se le proteste sono decise sono le vittime che vengono arrestate.
A ciò si aggiunga la situazione da Comma 22 nell’Area C degli accordi di Oslo del 1993 (60% circa della West Bank, sotto totale controllo militare e amministrativo israeliano) per cui tutto ciò che viene costruito dai palestinesi senza permesso viene sistematicamente abbattuto, ma se chiedono il permesso questo viene negato dai militari. E così sotto le ruspe cadono povere case, tettoie per gli animali, case-container e micro gabinetti e pannelli solari donati dall’Unione Europea, muretti divisori dei campi, serbatoi d’acqua, e anche tubi di impianti di irrigazione. Perfino scuole. Oltre agli ulivi che di tanto in tanto tagliano i coloni per sfregio.
Dalla parte palestinese la situazione di “strisciante apartheid” di uno stato di Israele sempre più “etnocratico”, queste le parole di un accademico israeliano in un suo articolo del 2012, ha portato la gran parte dei palestinesi ad una sensazione che lo sfavorevole rapporto di forza impedisca una soluzione negoziata e che l’idea della ribellione (anche violenta) sia l’unica risposta possibile. La maggioranza dei palestinesi, anche quelli di Gaza, sa bene che non è la via utile per negoziare una soluzione ed é anche disposta ad una convivenza pacifica; ma vie d’uscita non ne vedono e la frustrazione cresce, per taluni la rabbia.
La ribellione armata è praticata solo da frange molto minoritarie tra i palestinesi, però attrae i maschi più giovani. I ragazzi più piccoli lanciano pietre contro le auto israeliane riconoscibili per la loro targa gialla, invece di quella bianca palestinese. O, a Gaza, si avvicinano più dei grandi alla recinzione israeliana rischiando di essere colpiti alle gambe dai cecchini; sono più di 1800 i minori azzoppati o amputati di una gamba dal 2005 quando, per volontà del governo israeliano, Gaza è stata evacuata da tutti i circa 8-10 mila israeliani presenti.
Un articolo sul campo di Jenin di Roberto Bongiorni, su ilSole24ore del 28 gennaio, descrive molto bene il contesto geografico, sociale, economico e politico in cui è cresciuto e continuamente si alimenta la risposta armata dei gruppi militanti all’occupazione israeliana.
Quello che ho descritto è un chiaro esempio della pratica che però io vedo mettere in atto ovunque sulla terra nelle dinamiche geopolitiche e cioè quella del fatto compiuto e dell’atto di forza, e in seguito del guadagnare tempo da parte degli stati o dei vari gruppi armati (spesso appoggiati da qualche stato).
Il confronto per quel dopotutto piccolo pezzo di terra (è un po’ più grande della Sicilia per superficie) dura ormai da circa 130 anni ed è diventato progressivamente sempre più uno scontro che ha avuto diverse fasi e dinamiche nella storia. La questione israelo-palestinese è un concentrato, concettuale e territoriale, di quasi tutte le problematiche geopolitiche esistenti al mondo.
Ebrei e arabo-palestinesi si scontrano, più che confrontarsi, sulla base delle più diffuse diverse motivazioni per contenziosi geopolitici =
– per il principio (chi ci abitava [per primo], con quale gruppo c’è un “legame con la terra”[antichità e/o durata della presenza])(è la Terra Promessa a Mosé. Primi insediamenti dall’Europa: Petah Tikva 1878-1883 e Rishon LeTzion 1882, con i soldi dei Rotschild)(Theodor Hertzl 1896: libro Der Judenstaat)
– per la religione (Abramo e soprattutto Mosè, la terra promessa, e Maometto, viaggio notturno ad al Aqsa [l’ultima])
– per la storia (chi c’era un tempo e quali entità politico-istituzionali precedenti [mai stata una entità palestinese], fatti specifici)
– per la terra (chi è il proprietario, dimostrato dagli atti di proprietà [spesso ottomani per i palestinesi][“gli ebrei hanno comprato la terra dai proprietari arabi assenti”])
– per le abitudini di vita (genre de vie di Reclus) (“i palestinesi sono arabi senza una loro specificità, mentre gli ebrei ci sono da millenni à il confronto-scontro ha fatto crescere e consolidare l’autopercezione palestinese [e anche il comportamento istituzionale dei regimi-governi arabi che hanno usato opportunisticamente la questione palestinese contro Israele, ma hanno ghettizzato i rifugiati palestinesi sul loro territorio in modi diversi a seconda dei leader e della convenienza socio-economica)]).
Tutto questo entro la gabbia concettuale ambigua dello stato-nazione, idea inventata dall’Europa e diffusasi globalmentedurante il processo di decolonizzazione.
Al di là dei fatti di sangue che colpiscono le emozioni e solleticano l’interesse dei mass media, quello che ho già sottolineato sono le dinamiche di relazione squilibrata nella vita quotidiana tra israeliani e palestinesi. Parlo di alcune differenze normative tra cittadini ebrei e arabi in Israele; in particolare contro i beduini allevatori coi quali i governi israeliani hanno cercato di mettere in atto una sedentarizzazione e marginalizzazione forzata, parzialmente fallita.
Parlo, nei territori occupati, degli interventi sistematici di espulsione o di limitazione di attività, in particolare nell’Area C, contro singoli e villaggi beduini o di pastori e agricoltori; della sistematica tolleranza nei confronti dei coloni illegali (nei cosiddetti Outposts) e protezione militare degli insediamenti, legali solo per Israele, i cui abitanti giovani maschi sempre di più spesso attaccano e prevaricano personalmente i palestinesi delle aree circostanti, anche in quelle di loro proprietà.
C’è un crescente uso delle armi, di granate sonore e di arresti da parte di poliziotti e militari perché sono in una condizione si impunità sostanziale e le decisioni della Corte Suprema israeliana al 90% sono contro i palestinesi su questioni di denunce per distruzioni, sfratto e proprietà. Anche se si afferma che “se i palestinesi hanno il titolo di proprietà della terra questa è garantita”, questo avviene per una minoranza di loro, perché uno stato “moderno” come Israele non riconosce l’uso e il diritto consuetudinario sulla terra praticato da beduini, allevatori e contadini palestinesi.
Infine nel nuovo governo di destra israeliano c’è un ministro che si è auto dichiarato fascista e omofobo e altri due che da anni predicano l’espulsione forzata verso la Giordania di tutti i palestinesi.
Palestinesi che hanno 5 differenti status a seconda del territorio di residenza, evidenziato dai 5 diversi documenti di identità = (partendo dallo status meno garantito) quelli di Gaza, poi area C, Area B, Area A, Gerusalemme est; questi ultimi, circa 180 mila, possono avere la targa dell’auto gialla israeliana e una serie di servizi cittadini, ma non sono cittadini israeliani; cosa che del resto non vogliono in larga maggioranza.
Lo squilibrio di condizione giuridica e pratica è in azione quotidianamente tramite la normale amministrazione; ci sono:
Direttive-regolamenti amministrativi = regole e controlli per servizi, permessi di costruire (non concessi) e demolizione delle “illegalità”. Perdita della proprietà per mancata occupazione e occupazione di case vuote palestinesi da parte di gruppi e famiglie di ebrei ortodossi (questo soprattutto a Gerusalemme, ma anche a Hebron.
Ordinanze ministeriali = invito alla polizia ad agire contro l’esposizione della bandiera palestinese; sistematico rapporto dipendenza assoluta dalla polizia e dall’esercito per il controllo documenti, per il permesso o meno alla mobilità. Con l’esercito che occupa a qualsiasi ora e per giorni le case dei civili senza spiegazioni con confinamento interno degli abitanti. Con l’abbattimento delle pareti interne delle abitazioni durante le operazioni di sicurezza.
Leggi = aree destinate a esclusivo uso militare in Area C con sfratto di tutte le famiglie palestinesi residenti; mentre i maschi dei coloni possono girare armati, anche con fucili d’assalto, dopo la cerimonia ebraica del Bar Mitzvah, cioè formalmente dai 13 anni e un giorno.
Questo quadro di gabbia giuridico-amministrativa squilibrata è stata costruita nel tempo dopo il 1967, ma ancora non basta; non a caso il nuovo governo di destra vuole approvare leggi che riducano il potere dei giudici e della stessa Corte Suprema a favore delle decisioni governative, fino al punto da voler passare al governo la nomina dei giudici della Corte. Questo disegno ha subito portato in piazza gli israeliani democratici e progressisti, ma la situazione al momento è fluida e l’uso politico e mediatico spregiudicato della paura del palestinese terrorista fa ancora il suo effetto.
Il perdurare di questa situazione di squilibrio di potere che non produce fatti di sangue eclatanti per cui non viene raccontata sistematicamente non fa altro che alimentare l’insofferenza palestinese. Dall’altra parte c’è la percezione dei cittadini israeliani ebrei che la situazione sia sotto controllo e che lo status quo possa andare avanti indefinitivamente grazie alla separazione fisica coi palestinesi; la sostanziale vita tranquilla ed economicamente dinamica di Israele ha portato molti giovani israeliani all’assuefazione al privilegio e voler considerare come “normale” lo stallo, votando partiti di destra che negano l’esistenza di un qualsiasi diritto per i palestinesi.
Il mio approccio nell’analisi delle dinamiche geopolitiche è molto basico e semplice: gli esseri umani sono tutti “uguali” nel senso che condividono la stessa condizione umana, e quello che vedo spesso è che sono disposti a relazioni pacifiche se si agisce nel tempo in favore di un contesto che aiuti.
Gli stati, tramite i governi, si dichiarano istituzioni “uguali” tra di loro e di cittadini “uguali”, ma in realtà sono molto diversi tra di loro per possibilità e anche per volontà e si muovono in un contesto concettuale di potere sia a livello interstatale sia interno: in tutti gli stati c’è un rapporto gerarchico tra istituzioni e cittadini, anche se in diverse forme e modalità.
Nelle varie dinamiche geopolitiche quello che vedo è che il concetto di “nazione”, cioè l’appartenenza per nascita (per “sangue”) ad una cultura e la sua indiscutibile e necessaria durata nel tempo sono la fonte della maggior parte dei problemi geopolitici, soprattutto quando la “nazione” si abbina al concetto di stato “moderno” nell’ambiguo connubio di stato-nazione.
Per uscire dalle dinamiche conflittuali, e questo vale anche per la questione israelo-palestinese, bisogna pensare ai – e partire dai bisogni di base comuni a tutti gli esseri umani, a prescindere dalla loro cittadinanza e stato giuridico del territorio. L’articolo due, secondo comma, della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 lo dice chiaramente e senza possibili equivoci.
Bisogna separate il concetto dei diritti da quello di nazione: si hanno diritti perché individui, a prescindere da “sangue” e dalla cultura dei genitori. Per il caso israelo-palestinese la proposta ormai ventennale di uno stato unico bi-nazionale con diritti uguali per tutti, anche se con amministrazioni autonome nelle diverse aree interne, potrebbe essere quello più percorribile se ci fossero leader e governi abbastanza “creativi” e forti per proporla, sostenerla e difenderla contro la rigida concezione e percezione dello stato territoriale moderno e della nazione.
Bisogna mettere alle strette i governi degli stati perché non agiscano per favorire solo chi li ha votati. Bisogna contrastare le tendenze gerarchiche di tutti gli stati e agire sugli individui perché collaborino per fare una società più giusta.
“Ci vuole un lungo periodo di educazione” diceva Lucy Parsons, attivista afroamericana ex schiava e diventata anarco-sindacalista tra fine Ottocento e prima metà del Novecento, ma agire sui contesti per favorire relazioni più pacifiche si può fare subito se ci sono movimenti di base attivi e leader dinamici se non anche creativi. Il problema è che oggi per poter diventare leader politici nella gran parte dei casi bisogna mostrare di aderire e accettare la logica di potere e la logica di potenza.
Purtroppo lo stallo tra un etnocratico Israele e l’ANP gerontocratica e senza politica durerà ancora; forse, come spesso succede in geopolitica, una grave crisi o un evento imprevisto produrrà uno scossone significativo. Purché lo scossone non venga da un attentato sanguinoso o dalla trasformazione di Israele in autocrazia.
Con la fine della Prima guerra mondiale i nostri libri di storia dicono che è finita l’epoca degli imperi (in Europa) e che si affermano gli stati-nazione. L’idea di un simile cambiamento istituzionale e territoriale si è sviluppata soprattutto durante il XIX secolo e ha potuto concretizzarsi dopo lo sconvolgimento istituzionale e sociale, oltre che economico, provocato dalla guerra mondiale. Come molto spesso succede, solo dopo una grave crisi i gruppi umani e le autorità che dicono di rappresentarli accettano o propongo cambiamenti che prima sembravano impossibili o venivano affermati come tali.
Mi sembra, però, che i testi per le scuole tendano a sottostimare che la formazione degli stati-nazione dopo il 1918, con la fine degli imperi prussiano, austro-ungarico, russo e ottomano, ha significato anche un cambio di paradigma concettuale, sociale e istituzionale, che ha impiegato molto a essere interiorizzato, sia a livello popolare sia a livello di parte della classe dirigente dei singoli nuovi stati, che si era formata sotto gli imperi.
I modi e le pratiche della gestione interna degli imperi, il concetto di legittimazione dell’autorità, e quindi del potere e delle leggi, sono radicalmente diversi in uno stato-nazione, come pure la concezione dei confini. Gli imperatori concepivano come possibile una modifica dei “loro” territori: potevano espandersi o ridursi, perciò i confini erano percepiti come flessibili, modificabili a seconda delle circostanze e degli eventi storici (guerre, matrimoni, scambi negoziati, controllo di sfere di influenza). All’interno di un impero, la legittimità era riferita al sovrano e tutto il territorio era “suo”.
I legami affettivi con lo spazio locale, le pratiche sociali nel proprio territorio erano “confinate” nell’ambito delle relazioni personali, ma, tranne che per i confini delle proprietà private, non avevano valenza normativa territoriale. Le diverse comunità interne degli imperi, linguistiche, religiose, con pratiche sociali proprie, erano legate fisicamente alla comunità di relazioni entro cui preferivano vivere, ma si sentivano libere di muoversi entro l’impero. Individualmente, e/o come gruppo familiare, tutti tendenzialmente si adeguavano alle regole sociali della nuova comunità in cui vivevano, mantenevano alcune pratiche entro l’ambito e lo spazio familiare, ma certo non vivevano questo come una marginalizzazione o addirittura una esclusione dall’impero: non si sentivano cittadini esclusi perché la legittimità era riferita alla fedeltà all’imperatore che proteggeva tutti i sudditi leali alla sua persona, non allo spazio dell’impero. La patria era il corpo dell’imperatore, non il territorio di ciascuno.
Lo stato-nazione, invece, parte dal presupposto di rappresentare territorialmente una comunità umana, una nazione. Quindi i confini acquisiscono la valenza simbolica di contenere un gruppo umano che condivide pratiche sociali, abitudini, tradizioni, valori, simbolicamente rappresentativi di quella specifica nazione. Hanno un valore iconografico che deve essere affermato simbolicamente, mantenuto nella pratica e quindi difeso dai cambiamenti. Si è cittadini “veri” dello stato-nazione se si condividono le pratiche comuni. I confini, quindi, sono concepiti come rigidi contenitori di una comunità pensata come omogenea, che tendenzialmente non vuole cambiare, soprattutto le proprie iconografie.
Lo stato democratico, però, come idea e presupposti si fonda su principi diversi; vale come esempio l’articolo 3 della Costituzione italiana che riconosce la cittadinanza, cioè l’uguaglianza davanti alla legge, a tutti, a prescindere da idee politiche, religione, sesso, colore della pelle e pratiche sociali, con il solo limite che siano approvate dalle leggi. Ma anch’esso concepisce i confini come rigidi e non modificabili se non a condizioni procedurali articolate e complesse, che sostanzialmente li rendono quasi eterni.
Questa rigidità concettuale, post-imperiale, dei confini è ancora oggi la cornice dell’ambiguità irrisolta nell’abbinamento tra il concetto di stato e quello di nazione, che sono diversi. Ma poiché le relazioni internazionali sono gestite quasi esclusivamente dagli stati-nazione, l’idea dei confini rigidi è diventata un’iconografia internazionale, secondo cui sono da preservare così come sono, altrimenti c’è l’instabilità e quindi la guerra.
Dopo il 1918 in Europa e in Medio Oriente sono stati tracciati dei confini di stati-nazione, ma questo non ha garantito la pace. Dopo la Seconda guerra mondiale in Europa i confini sono stati cambiati e, per rispettare il principio che siano “contenitori” di nazioni, milioni di europei hanno dovuto, o voluto, spostarsi per restare vicini ad altri esseri umani con cui condividevano lingua e pratiche sociali.
Da allora l’idea dell’intoccabilità dei confini è diventata un mantra indiscutibile, diffuso in tutto il mondo con il processo di decolonizzazione, che ha di fatto imposto ai nuovi stati nazionali di Africa e Asia dei confini decisi o sostanzialmente orientati dai paesi colonizzatori, sulla base del principio del “contenimento” di singole nazioni. Il fatto è che non esiste uno stato al mondo che contenga una sola nazione: può cambiare la consistenza numerica della minoranza o delle minoranze esistenti, ma nessuno stato al mondo è “puro”. Perché una delle caratteristiche degli esseri umani è che si sono sempre mossi, si muovono e una parte di ogni gruppo umano, anche se minoritaria, vuole, o è costretta, muoversi.
Come analista geopolitico ho visto e studiato un continuo susseguirsi di guerre, conflitti, scontri, prevaricazioni, persecuzioni fatte tutte in nome della nazione e aventi come causa prima i confini che si vorrebbero cambiare. Il sistema concettuale e normativo delle relazioni internazionali però non consente di farlo, se non in casi limitati e a condizioni procedurali che ne rendono molto difficile la realizzazione.
Quindi non c‘è niente da fare? In realtà si potrebbe, e c’è chi ha suggerito da tempo di considerare i confini come funzionali. Cioè quelli che ci sono non si spostano, ma sono considerati funzionali alle relazioni transconfinarie, con normativa apposita che tenga conto delle esigenze pratiche, soprattutto economiche e di vita quotidiana, non delle iconografie, degli individui che vivono dalle due parti del confine. L’esempio UE dei finanziamenti a tutti gli accordi transconfinari interni e il Sudtirolo-Alto Adige sono i migliori e più adeguati esempi che si possano fare.
Ma questo è il risultato di un progressivo e voluto processo di avvicinamento, di omogeneizzazione normativa, di riduzione del valore iconografico delle proprie pratiche sociali per cercare l’accordo e il coordinamento con altri esseri umani non solo territorialmente vicini, ma anche entro tutta l’Unione Europea. Questo però è in contrasto con l’idea e con le pratiche dello stato-nazione; e infatti proprio alcuni stati-nazione negli ultimi anni (Polonia, Ungheria in primis) hanno attivato pratiche di resistenza rispetto alla direzione più integrata che l’Unione Europea vorrebbe praticare.
I confini possono essere funzionali, io dico anche flessibili e/o cambiati tramite negoziazione, ma viviamo ancora entro una gabbia concettuale internazionale che li pensa come rigidi, intoccabili, eterni. Quello che ho visto nella pratica è che così si fanno le guerre o gli atti di forza da parte degli stati-nazione militarmente più forti.
Articolo pubblicato in inglese come primo articolo sulla rivista internazionale Human Geography, volume 5, numero 3, 2012.
La versione in italiano, ritoccata nel tempo, è stata usata come lettura introduttiva al mio corso di Geografia Politico-economica presso la sede di Treviso di Cà Foscari fino al 2021.
Ci sono dei film che sono dei saggi di geografia sociale. A patto che non ci si faccia troppo distrarre dalle sole vicende emotive dei protagonisti e si osservino con attenzione anche lo sfondo, gli esterni urbani e/o rurali, i mezzi di trasporto, gli ambienti, gli arredamenti, gli oggetti, gli abiti, le acconciature femminili e maschili. Certo anche la sceneggiatura può essere significativa quando evidenzia tipologie di relazione sociale tra i personaggi che danno indicazioni sulla struttura sociale, su quanto contino le differenze di disponibilità economica, di istruzione, di posizione sociale.
Uno dei film italiani più utili in questo senso è Rocco e i suoi fratelli (1960. Regia di Luchino Visconti), che mostra uno spaccato dell’Italia del Secondo dopoguerra, segnato dalla poderosa emigrazione dal sud al nord del Paese. Nello specifico si racconta la storia di una famiglia della Lucania, composta da una vedova recente e dai suoi quattro figli adulti (solo l’ultimo preadolescente), che raggiunge il quinto, primogenito, già emigrato a Milano.
La sceneggiatura è possente (il film dura quasi tre ore) e i personaggi, tutti di spessore, innescano diverse storie personali interconnesse dal legame famigliare; un legame messo sempre più alla prova dallo ‘spaesamento’ dovuto al trasferimento improvviso da un ambiente ‘marginale’ e tradizionale a quello urbano della ‘capitale’ economica e industriale d’Italia.
L’apparente paradosso è che questo “ritratto amaro e impietoso dell’Italia del boom economico” (Stefano Lo Verme. http://www.mymovies.it) sia stato girato dal conte Luchino Visconti di Modrone (1906-1976), antifascista e comunista fin dagli anni ‘30, ma discendente dal ramo della famiglia Visconti che resse Milano dal 1277 e dominò la scena politica dell’Italia settentrionale fino al 1447.
La pellicola è particolarmente comunicativa, si potrebbe dire ‘basta guardarla!’; resta vero che molto è legato al fruitore, alla sua capacità interpretativa di capire ciò che vede al di là dell’immagine stessa.
In questo film ritenuto controverso, più volte denunciato e soggetto a numerosi tagli di censura, si ritrovano elementi caratteristici della società di origine della famiglia. Ciò risulta particolarmente evidente nelle scene di dialogo, anche perché il regista fece la scelta di far recitare i protagonisti con l’inflessione dialettale meridionale, utilizzando un dialetto semplificato, ‘cinematografico’, molto inusuale all’epoca. Il rimando alle antiche abitudini appare già all’arrivo della famiglia a Milano, quando la madre richiama il figlio maggiore alle proprie responsabilità di sostegno al nucleo familiare, come pure lo critica per il fidanzamento fatto nel periodo del lutto. Analogamente, in un altro momento del film c’è la sequenza dei figli che escono di casa per il lavoro (l’occasionale spalare la neve) e baciano ciascuno la mano della mamma. Nel finale del film, in cui la vicenda tragica di uno dei figli si chiude, la madre si pente di aver portato i figli nella città tentatrice e corruttrice per inseguire il benessere, dove però anche una di basso ceto come lei può dire: “la gente per strada mi chiamava signora”. Ci sono anche scampoli di ‘tradizioni’ come, a cena, il brindisi da fare in rima oppure il racconto del rito del capomastro meridionale prima di cominciare a costruire una casa: gettare una pietra sull’ombra del primo che passa per fare il sacrificio rituale.
Gli esterni urbani sono le periferie simil rurali (ponte della Ghisolfa, Lambrate, il Portello [fabbrica dell’Alfa Romeo] i viali con giovani alberi), dove le strade hanno i paracarri in pietra e si snodano tra campi e orti, mentre l’Idroscalo appare come un luogo abbandonato e mal frequentato. L’ambiente esterno è fatto soprattutto di caseggiati nuovi o in costruzione (con ponteggi di legno) e la nuova casa popolare dove si trasferisce la famiglia è moderna, ma con ringhiera esterna ai piani. Interessante che sia l’anziano guardiano milanese del cantiere edile a suggerire ai ‘terroni’ di smettere di pagare l’affitto dopo due-tre mesi così da ottenere, con lo sfratto, la precedenza nell’assegnazione di una casa popolare del Comune.
Altri squarci di Milano vintage riguardano la darsena, il tetto del Duomo, da cui si vede il caseggiato di fronte non ancora totalmente coperto dalle pubblicità al neon (sono state tolte da anni), il ponte pedonale delle sirene, su cui troneggiano le cosiddette ‘Sorelle Ghisini’ (perché di ghisa), poi trasportate al parco Sempione una volta coperti i Navigli, i vespasiani pubblici (chioschetti in metallo, adibiti a orinatoi maschili) dalla fama un poco equivoca perché sede di incontri poco ortodossi. Fanno la loro comparsa anche alcuni fraseggi ormai scomparsi: la definizione milanese di ‘Africa’ rivolta (con un misto anche di bonarietà) ai meridionali immigrati e alcune gustose frasi in milanese come quella dedicata al personaggio Simone nella palestra pugilistica: “l’è un casciavit ma ga ona bela pappina” (non vale molto, ma ha un pugno potente).
Sempre per quanto riguarda gli esterni sono da notare inoltre i mezzi di trasporto. I treni con cui i protagonisti arrivano a Milano, ad esempio, sono ancora dotati di carrozze di terza classe con porte d’uscita-entrata per ogni scomparto e sedili di legno. All’ingresso in stazione, alcuni addetti provvedono all’immediato lavaggio dei vetri esterni, che effettuano a mano con degli spazzoloni. Il tram, su cui viaggia il bigliettaio, corre invece fra le vie illuminate e le luci delle numerose vetrine, che al primo impatto impressionano particolarmente i nuovi arrivati.
Gli interni sono prevalentemente quelli del seminterrato della prima abitazione, poi le palestre, i bar e la casa popolare. Una sola scena si svolge nella casa di un ricco borghese con mobilia, quadri e soprammobili; quella in cui la sua omosessualità è più esplicitata anche se lasciata all’intuizione (siamo nel 1960, è un argomento super tabù).
Per quanto riguarda oggetti oggi ‘scomparsi’, si possono citare la cartolina rosa per la chiamata al servizio militare maschile obbligatorio e le pezze in tela per i neonati stesi in casa, ormai sostituiti dai più moderni pannolini in cellulosa. Abitudini scomparse o modificate col tempo concernono il largo uso della giacca per i maschi, anche appartenenti ai ceti più bassi, e le acconciature femminili con i capelli cotonati. Verso la fine del film il personaggio Ciro chiede alla fidanzata un bacio in pubblico, che con esitazione e pudore viene concesso a labbra chiuse. Solo la ‘discussa’ Nadia fuma in pubblico o in presenza di maschi.
Pur all’interno di una storia che mostra soprattutto una condizione socio-economica difficile, in cui la boxe professionistica appare come un mezzo per migliorare la propria condizione, i segnali dei caratteri della piramide socio-economica vengono mostrati attraverso gli spostamenti del fratellino più piccolo (di 13-14 anni di età) che fa consegne in bicicletta per un droghiere e in un’altra scena, sul lago di Como (a Bellagio) presso il Grand Hotel si commenta il prezzo delle stanze a 10mila lire a notte.
Simbolo della mobilità sociale dell’Italia di quegli anni è il quarto fratello per età, Ciro (18 anni), che ottiene la licenza media ‘commerciale’ alla scuola serale. Va notato che fino al 1963 erano attive in Italia due scuole medie inferiori: una scelta da chi, superando un esame d’ammissione in quattro materie dopo la licenza elementare, ottenuta la licenza media intendeva proseguire negli studi, l’altra, per cui bastava la licenza elementare per l’ammissione, era scelta da chi era invece intenzionato a mettersi alla ricerca di un lavoro dopo la scuola media. È proprio quest’ultima ‘minore’ licenza che consente a Ciro di venire assunto all’Alfa Romeo come operaio.
Dopo una lunga scena famigliare catartica finale, sulla falsariga di quella che potremmo chiamare ‘tragedia greca’, che evidenzia la scomposizione della famiglia in diverse storie individuali, c’è l’incontro davanti all’Alfa Romeo, nella pausa pranzo, tra Ciro e il fratellino Luca che si conclude con le parole di Ciro che lo invita a costruirsi il suo futuro individuale anche al costo dei legami famigliari e che appaiono come una contestualizzazione socio-politica della vicenda famigliare delineata nel film.
La parola “Fine” si sovrappone ad un campo lungo sui viali ancora vuoti di traffico e sui caseggiati lontani della periferia milanese di allora.
Già il titolo appare intrigante per chi ha interesse per la geografia: La città sradicata.L’idea di città attraverso lo sguardo e il segno dell’altro (Pezzoni, N. 2020. ObarraO-Ibis edizioni, seconda edizione ampliata). Non per caso la prefazione è stata scritta dal geografo Franco Farinelli. E la città, nel suo complesso e articolato rapporto tra esseri umani e spazio, sia ‘naturale’ che costruito, è il terreno di studio di molte ricerche empiriche e di molti ragionamenti teorici della geografia sociale. Non solo perché mediamente ormai più della metà della popolazione mondiale è urbanizzata, ma soprattutto perché la fissità dello spazio costruito risponde a un bisogno umano di stabilità del vivere largamente sentito individualmente; però tale bisogno pone vincoli e confini al bisogno di cambiamento che c’è in tutti anche se praticato da una minoranza. Un cambiamento che diventa una necessità per quegli umani che non hanno più o non sentono di avere più uno spazio dove (soprav)vivere. E che, con un poco di provocazione intellettuale, inserisco nel rapporto-conflitto storico ed evolutivo tra nomadismo e sedentarietà. Tra un abitare stabile e un abitare con un rapporto flessibile con il territorio. La provocazione intellettuale è stata sollecitata dal fatto che già nella prima pagina dell’introduzione si pone come riferimento concettuale centrale “quell’abitare senza abitudine [in corsivo nel testo] […] come un’impronta a cui attingere nella costruzione d’un vivere collettivo fondato sull’apertura all’altro da sé” (21). Nell’articolo RiMaflow autogestita presente in questo fascicolo ho già affermato che approccio etico soggettivo di chi fa ricerca, contatto diretto con spazio fisico e esseri umani, capacità (anche creativa) di cogliere costanti e variabili nelle dinamiche spaziali, sono quegli elementi necessari per fare un’analisi socio-territoriale utile non solo per ‘capire’ un territorio umanizzato, ma anche per avere strumenti per cambiarlo per il meglio e con il coinvolgimento il più ampio possibile di chi ci vive. Una capacità che sappia uscire dagli schemi “per cogliere la dissomiglianza, la deviazione rispetto alla norma che fa spicco e che si imprime nella mente” come dice a pagina 61 la citazione di Ernst H. Gombrich (1978. ‘La maschera e la faccia’, in Gombrich E.H., Hochberg J., Black M., Arte, percezione e realtà. Come pensiamo le immagini. Einaudi. Torino).
Sono elementi che, con altri ancora, si trovano tutti in questo libro, risultato di una lunga e articolata ricerca sul campo che ha avuto come centro di attenzione i migranti appena arrivati in città (prima Milano, poi Rovereto e Bologna). Lo scopo della ricerca è stato capire quale mappa mentale si costruisce nella mente di chi vive nella città “dove insediarsi non equivale a radicarsi” (22) e se è in qualche modo confermata l’ipotesi dichiarata “che la condizione di instabilità […] sia connaturata all’abitare contemporaneo” (23). “Nell’osservare la città, i migranti vi posano uno sguardo che appare incontaminato rispetto alle riproduzioni codificate della geografia urbana” (24); la non casualità della prefazione di Farinelli deriva anche dal fatto che l’autrice, in particolare nel secondo capitolo, sposa e cita (72-74) la nota critica di Farinelli alla ragione cartografica in cui “ciò che appare prende il posto di ciò che è” (Farinelli, F. 1992. I segni del mondo, immagine cartografica e discorso geografico in età moderna. Firenze: La Nuova Italia, 165) e “la cui positivistica assunzione ha impedito alla geografia umana una funzione conoscitiva in senso critico-ascientifico” (74). Così gli spazi percorsi dai migranti (soprattutto quelli arrivati da poco) evidenziano “il segno dei confini, che lacerano il territorio tentando di imporre l’immobilità in un’epoca connotata dal movimento” (25).
La condizione del migrante, soprattutto se illegale, è fortemente e dinamicamente spaziale: da un lato per le umane necessità fisiche quotidiane, che sono concrete e (indissolubilmente?) legate allo spazio e/o dipendenti dallo spazio, e dall’altro perché le relazioni con i diversi individui e gruppi umani sono necessariamente ‘ingabbiate’ (264-267) dalla conformazione dello spazio e dalle regole sociali del suo vissuto: il genre de vie inteso in senso articolato, alla Reclus. Il vivere del migrante è “un abitare privo di quel diritto di avere diritti” (25, riferimento in nota a Rodotà, S. 2012. Il diritto di avere diritti. Roma-Bari: Laterza) e l’autrice dichiara apertamente che “l’esperimento proposto [… è un] tentativo di superare la prerogativa del potere sull’altro che da sempre divide chi appartiene – a un territorio, a un diritto, a un sistema – da chi è escluso” (25). Nella speranza di riuscire a stimolare un dibattito che scardini “la condizione segregata […] residenziale, intellettuale, professionale, scolastica…” (26) che però non solo è comune a tutti i migranti, ma anche a tutti noi cittadini come conseguenza delle operazioni ‘cartografiche’ dello zoning e anche del selfcaging non voluto (auto-zoning forzato dipendente dal reddito) e voluto (‘scelta’ di vicinanza fisica con i simili per stile di vita).
L’osservazione del gesto del migrante, che nel momento in cui disegna la sua mappa mentale della città manifesta una appropriazione conoscitiva (330-333) che consente di attingere “a diversi gradi di libertà” (30), può spingere a riprendersi la libertà di pensare in modo più dinamico e aperto; non a caso l’ultimo capitolo del libro si intitola “Aperture” sia perché “si propone di generare attraverso il gesto dell’altro un nuovo spazio etico a fondamento della città” (30) sia perché auspica che questa ricerca ne produca di nuove, diverse, ‘altre’. Intendendo l’abitudine non solo come la pratica umana e naturale del selfcaging, ma anche l’acritica accettazione di consuetudini e di norme e regolamenti cittadini, l’abitare senza abitudine è strettamente connesso a quel diritto per cui “si deve poter abitare sempre e ovunque” (Gabellini, P. 2010. Fare urbanistica, Roma: Carocci, 26), che è un modo essenziale e conciso di dire quello che afferma l’articolo 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
A pagina 32 l’autrice riconosce un ruolo alla geografia nelle “contaminazioni” che hanno contribuito alla definizione della ricerca e del suo approccio. Nella parte in cui delinea la struttura del libro (27-30) c’è il riconoscimento dell’ampio valore strumentale d’analisi della mappa mentale, che è da tempo acquisito anche tra i/le geografi/e, e in particolare quelli/e che si interessano di didattica e la usano con i propri studenti. Così si afferma la perdurante validità del lavoro di Kevin Lynch (Lynch, K. 1960. The image of the city, Cambridge: MIT Press) come griglia di supporto al lavoro preparatorio, alla strutturazione e all’analisi dell’esperienza. Rimangono validi gli “oggetti urbani” di Lynch (riferimenti, luoghi dell’abitare, percorsi, nodi, confini), la cui trasposizione e reinterpretazione ha fatto da struttura alla rappresentazione grafica a cui sono stati chiamati i migranti nel momento in cui l’intervista dinamica li invitava a costruire la mappa mentale della loro esperienza spaziale nella città. La giustificazione metodologica delle ragioni del modo di operare è nel terzo capitolo. Nel quarto capitolo sono riprodotte settanta delle cento mappe rilevate dalla ricerca. Voglio sottolineare la particolarità di questa esperienza e cioè che la scelta di coinvolgere gli immigrati da poco punta a far ripensare l’attualità del vissuto “senza voltarsi indietro verso le proprie origini” (28). In questo vi leggo l’andare a cercare il senso profondo di umanità prima e oltre le costruzioni iconografiche della propria singola esperienza culturale. E infatti l’analisi delle mappe del quarto capitolo va a interpretare le “diverse attribuzioni di senso” che emergono dai cinque oggetti urbani di Lynch. Nel quinto e sesto capitolo si riproduce una scelta delle mappe mentali ottenute dall’esperienza ripetuta a Rovereto e Bologna e, infine, nel settimo capitolo si confrontano le ipotesi dei capitoli d’apertura con gli esiti della ricerca.
Campi, fabbriche, officine del geografo Piotr Kropotkin (1975. Colin Ward a cura di. Edizioni Antistato) è uno dei libri più ‘pratici’ di riferimento del pensiero anarchico, risultato di alcuni articoli (scritti tra il 1888 e il 1890) raccolti in un libro nel 1899, il quale ebbe molte riedizioni rivedute e ampliate prima della Grande Guerra. Amico del geografo anarchico Elisée Reclus, considerato da alcuni come il fondatore della geografia sociale (Errani P.P., a cura di. 1984. L’Homme.La geografia sociale, Milano: Angeli), Kropotkin è morto nel 1921 (e proprio nell’anno della stesura di questo testo ricorre il centenario della sua scomparsa (https://kropotkin2021.com). Colin Ward, ‘architetto’ (non laureato) e attivista spaziale ‘in azione’ (1973. Anarchy in action), nel 1974 interviene sul testo originale: riduce abbondantemente la grande massa di dati presenti e lo ristruttura in quattro capitoli alla cui fine, di volta in volta, fa un commento comparativo con la realtà socio-economica degli anni Settanta. Ne sottolinea continuità (molte), discontinuità (poche) e sostiene le proposte pratiche di Kropotkin che avevano, a suo giudizio, una validità per il presente (suo di allora) e per il futuro, ovvero il nostro presente. Per misurare l’attualità delle intuizioni di Kropotkin e la sua presa sul futuro è utile Il principio territoriale di Alberto Magnaghi (2020. Torino: Bollati Boringhieri).
Colin Ward nell’introduzione all’edizione inglese sottolineava che l’analisi e la visione futura di Kropotkin, talvolta profetiche, erano state elaborate in un mondo in cui l’elettricità, l’automobile, il cinema e il telefono erano ancora ai primi passi e non erano ancora stati inventati la radio, la televisione e l’aeroplano; inimmaginabili computer e smartphone. Il commento editoriale dell’edizione del 1919 sottolineava che i bisogni mondiali andavano aumentando e che le risorse della Terra non erano inesauribili. Consapevolezze che solo recentemente si stanno consolidando tra gli economisti del modello di sviluppo occidentale.
Con enorme dovizia di esempi concreti e con dati precisi, Kropotkin mostrava come l’utopia fosse possibile perché era già praticata in molti luoghi e che bastava seguire quegli esempi positivi, allargandone la scala, ma mantenendo la caratteristica di rete flessibile di una federazione di comuni autonomi e di unità produttive integrate (agricoltura-industria) localmente.
Nel primo capitolo, dedicato all’industria, Kropotkin vagheggia un futuro positivo se centrato sull’integrazione invece che sulla divisione e specializzazione del lavoro; egli immagina “una società dove ciascun individuo produca sia lavoro manuale sia lavoro intellettuale” (34), […] “una società riorganizzata […] dovrà trovare la maniera migliore per combinare l’agricoltura con l’industria […] e dovrà provvedere all’istruzione integrata, la quale istruzione soltanto, insegnando sia la scienza sia l’abilità manuale sin dalla prima infanzia, è in grado di dare alla società gli uomini e le donne di cui questa ha realmente bisogno.” (35).
Ma Colin Ward ricorda invece cosa è avvenuto e cioè il rapporto squilibrato tra Nord e Sud del mondo e Stati diventati specializzati in certe produzioni agricole o industriali, e noi oggi siamo testimoni della realtà consolidata della delocalizzazione produttiva che ha fatto della Cina la ‘fabbrica del mondo’ e Taiwan e Corea del Sud i principali produttori di microprocessori per le necessità tecnologiche avanzate mondiali. Specializzazioni possibili per “la rapidità e la crescente capacità di trasporto via mare” che Kropotkin già intuiva (36).
Del secondo capitolo dedicato all’agricoltura, in cui subito Kropotkin critica le tesi di Malthus sul pericolo della sovrappopolazione, vale la pena di sottolineare come l’autore descrive le esperienze sue contemporanee di produzione orticola commerciale (103-117) che hanno una valenza profetica se si considerano gli esempi delle produzioni odierne olandesi o delle aree semidesertiche dell’Almeria spagnola, diventate ‘l’orto’ in serra dell’Europa. Kropotkin fa una semplice osservazione che ha valore ancora di più oggi e cioè che i cittadini ignorano del tutto come fisicamente si produce quello che mangiano (121-122).
Anche Colin Ward rileva che l’aumento possibile della produzione agricola, soprattutto di frutta, verdura e legumi, vagheggiata da Kropotkin, sia ai suoi tempi normale. Riprende poi e sottolinea le preoccupazioni ambientali kropotkiniane che negli anni Settanta del Novecento cominciano a essere denunciate come problemi ecologico-ambientali (134-135) su cui sarebbe stato necessario intervenire subito tramite creatività e ricerca per lo sviluppo della tecnologia alternativa che punta al “soddisfacimento dei bisogni umani attraverso l’impiego di risorse rinnovabili” (56).
Viene infine evidenziata la continuità con le preoccupazioni di Kropotkin circa l’eccessivo e pericoloso sviluppo di una agricoltura industriale ipermeccanizzata, confermata dai dati della riduzione di popolazione delle campagne e dei lavoratori nel settore (136-137).
Nel capitolo terzo Kropotkin sottolinea e apprezza la resilienza delle officine e delle piccole industrie, preconizzando per loro la capacità di sopravvivere al processo di concentrazione industriale che gli economisti di allora indicavano come un processo totalizzante e inevitabile. L’esempio italiano della diffusione delle PMI (Piccole e Medie Imprese) e della loro presenza maggioritaria nel nostro tessuto produttivo ne può essere un valido esempio. Però Kropotkin sognava il suo “piccolo è bello” (come titola il famoso libro di Schumacher del 1973 Small is beautiful) nella forma di una diffusione decentrata della produzione industriale a servizio delle necessità di una agricoltura tecnologicamente efficace che prevedeva la possibilità dei lavoratori di cambiare mansioni alternando il lavoro in fabbrica con quello dei campi (174-176). Per questo ho usato il verbo ‘sognare’. Significativo poi che già si descrivessero le pratiche di pirateria finanziaria di acquisto di fabbriche o di fusioni con l’intento di spezzettarle e/o venderne le proprietà in lotti separati. Infine Ward rileva la tendenza alla progressiva concentrazione urbana globale della popolazione che è un potente meccanismo in contrasto a ciò che auspica Kropotkin: “è necessario decentrare anziché centralizzare” (189).
L’ultimo capitolo ristrutturato da Colin Ward è dedicato all’istruzione integrale (35 e da 199 a 206). Nella sua visione integrata della società Kropotkin sottolinea come molte invenzioni non siano il risultato di studi accademico-teorici, ma provengano dalla straordinaria capacità di osservazione pratica di alcuni esseri umani particolarmente in grado di mettere a frutto capacità comuni a tutti: con una istruzione integrale l’autore è convinto che si favorirebbero la consapevolezza e un maggiore uso di tali diffuse capacità.
Kropotkin ‘sogna’ (208-210) un mondo che sostanzialmente è fatto di ciò che oggi chiamiamo start up e di crowdfunding. Quando Kropotkin indica quali problemi dovrebbero poter essere affrontati con nuove invenzioni future Ward, in un suo inciso, indica che nel suo presente sono già state inventate. Questo capitolo, in cui si parla di lavoro intellettuale e manuale da integrare nella vita quotidiana e non solo nel lavoro, si conclude con una visione di una possibile società armonica futura.
Nelle conclusioni il positivo e fiducioso Kropotkin ancora una volta ‘sogna’, sulla base di esempi precisi e concreti del suo tempo, una società autosufficiente (un sostanziale ‘kilometro zero’, si potrebbe dire oggi) che si fondi sul lavoro manuale coordinato e variato a cui sin da giovani si è stati abituati intellettualmente (224). Da bravo utopista ottocentesco il finale del libro è evocativo. Del poscritto editoriale vale la pena ricordare le parole di Colin Ward molto attuali nel nostro presente di 50 anni dopo: “Negli ultimi dieci anni noi ci siamo resi sempre più conto che c’è una crisi dell’ambiente naturale, una crisi delle risorse, dei consumi, della popolazione. […] Il fatto incontrovertibile è che le risorse del mondo sono limitate, […]”.
1 – Etica individuale e interessi di ricerca. Come procedere.
Il/la geografo/a interessato/a alla geografia sociale in qualche modo è pre-coinvolto/a eticamente-emotivamente nelle sue tematiche e quindi ‘sceglie’ secondo questa precondizione il caso o il campo della ricerca. L’osservatore non è esterno al campo.
I geografi anarchici Elisée Reclus (1830-1905), considerato da alcuni il fondatore della geografia sociale, e Piotr Kropotkin (1842-1921) sono stati due esempi espliciti di tale interconnessione tra motivazioni etico-ideali e argomenti trattati nei loro scritti. La prefazione della Nouvelle Geographie Universelle (1874) e L’Homme et la Terre (1905-08, 1990) di Reclus, e i testi di Kropotkin Campi, fabbriche e officine (1974) e La conquista del pane (2012) sono ancora oggi utili letture.
Quello che accomuna i due autori, e che è fondamentale per un/a geografo/a, è la capacità di osservare lo spazio vissuto, cioè l’interazione tra fisicità e umanità, sapendone trarre un quadro interpretativo che dà ragione sia delle forme di quello che si osserva che dei comportamenti degli umani che vi vivono. Le loro pagine, spesso apparentemente ‘descrittive’, sono invece paragonabili a dei video documentari commentati.
In generale la conformazione fisico-climatica di un territorio naturale, senza voler essere deterministi, orienta le relazioni sociali perché per la sopravvivenza, per la frequenza dei contatti e per gli spostamenti pone vincoli di possibilità e di tempi di percorrenza. Negli spazi urbani sembra che questi vincoli siano ridotti o meno influenti, ma non è del tutto così. Anche se gli spostamenti sono più facili e i luoghi di incontri di socializzazione sono più numerosi e frequenti, gli elementi da considerare geograficamente sono due: 1) la densità umana è un fattore fisico che facilita le forme di incontro e di socializzazione, ma in parte anche le ‘obbliga’, le confina, le orienta; 2) gli elementi dello spazio costruito sono fortemente condizionati dalla logica della proprietà privata/pubblica e dell’economia per cui gli spazi liberi a disposizione per la socialità sono meno di quelli che vengono percepiti o raccontati e sono anche più condizionati. C’è però anche un fattore da considerare, che Reclus e Kropotkin sottolineano, e cioè che c’è sempre la possibilità dell’individuo di fare scelte che rompano gli obblighi e travalichino i confini e il ricercatore ne deve tener conto nel momento della sua sintesi interpretativa: quello che osserva è il risultato di scelte e non un dato ineluttabile.
Ne consegue che per una ricerca in spazi urbani le prime cose che vanno considerate sono la struttura e le forme del costruito, sia del contesto (area, zona) sia del luogo o luoghi specifici che si intendono analizzare. Ma in questi contesto e luogo vanno cercati e compresi gli atti umani consapevoli e non, dei singoli e dei gruppi.
Se per i giornalisti ci sono le cinque W (Who, What, Where, When, Why) lo stesso vale per i/le geografi/e e in particolare per chi pratica la geografia sociale; ma il primo passo è il Where-Dove. Perché il territorio e il costruito raccontano. E’ buona regola vedere di persona lo spazio o il territorio che si intende analizzare e su cui poi si vuole raccontare o scrivere. Si parte necessariamente dal Where-Dove perché già questo comincia a far percepire la soggettività del Who-Chi.
Per capire meglio il racconto del territorio sarebbe utile (e necessaria) una infarinatura di pratiche agricole (es.: saper riconoscere colture intensive e industrializzate dalle dimensioni e dalle forme dei campi) e di architettura (es: saper identificare i periodi storici di alcuni stili e forme, saper comprendere riconoscere/notare le differenze tra costruzioni ‘povere’ e di pregio).
Non sempre e ovunque è possibile andare di persona; si possono fare ricerche di buon livello e interessanti anche senza aver visto direttamente il luogo di cui si parla, ma alla lettura dei testi bisogna affiancare la visione di foto, di documentari; anche film e fiction sono utili se si osservano più lo spazio di contesto e gli elementi fisici che gli sviluppi della storia. Però l’osservazione diretta è necessaria proprio per dare senso e concretezza a quell’aggettivo ‘sociale’ che viene aggiunto e che in un certo senso vincola chi fa ricerca. Perché “la mappa non è il territorio” (aforisma di Alfred Korzybski, 1879-1950, padre della semantica generale).
Ci possono essere temi che investono ampi spazi e gruppi umani diversi, ma almeno una parte della ricerca, anche se piccola rispetto all’insieme, deve essere il frutto di una esperienza personale diretta e fisica: di un contatto.
Reclus indicava tre ‘leggi’, cioè realtà costanti delle dinamiche umane, e cioè:1) la tendenza dei gruppi umani a strutturarsi in modo gerarchico nel tempo, 2) l’incontenibile aspirazione alla libertà personale dell’individuo, 3) il continuo movimento di reciproco bilanciamento/confronto (lotta, diceva lui) tra queste due forze contrapposte nelle dinamiche umane nello spazio.
Quindi lo spazio è il campo dove queste costanti si manifestano e ne è il risultato; i segni visibili nello spazio fanno capire ad un osservatore attento (e/o motivato) il tipo di rapporti di forza presenti e anche, negli spazi urbani, qualcosa dei rapporti di forza del passato grazie ai segni tangibili che sono rimasti. Gli esempi estremi di questo campo di forze sono la foresta primaria che ci dice che in mancanza di umani è la spontaneità biologica che determina i rapporti di forza, mentre gli spazi urbani e le forme del costruito sono l’esplicitazione dei rapporti di forza (politici e/o economici) tra gli umani, tra le spinte gerarchiche e la voglia di libertà individuale.
Ma in pratica come procedere? 1) Osservare, 2) notare costanti (cose che si ripetono) e varianti (cose diverse dal contesto e/o particolari/inaspettate), 3) comparare (con altri contesti conosciuti e/o con il proprio sapere teorico), 4) ipotizzare una interpretazione/visione da verificare con ulteriori ricerche e approfondimenti per arrivare ad una sintesi conclusiva (la propria tesi).
Può essere utile talvolta partire da una ipotesi interpretativa, anche solo da un’idea generica e solo abbozzata, che poi viene verificata dalle operazioni indicate. Se si è aperti all’accettazione anche della confutazione dell’idea di partenza.
Nell’analisi delle dinamiche in ambito urbano vale la pena di partire dalla visione della carta-mappa per cercare di capire la struttura dell’abitato, cioè dalle forme delle vie (regolari, irregolari, miste, ecc.) quali fasi di espansione o costruttive si sono succedute; è molto utile comparare mappe storiche dello stesso luogo.
Aver letto di storia urbanistica specifica aiuta, come pure avere qualche nozione visiva di stili architettonici storici (le riviste [storiche] di architettura sono utili da sfogliare). Ma può anche bastare osservare con attenzione e sistematicamente edifici, palazzi, ville, villette, costruzioni commerciali e produttive per accumulare conoscenze visive comparabili.
La visione delle mappe porta ad un abbozzo di quadro interpretativo che va confrontato con la visione diretta del contesto urbano della realtà su cui si fa la ricerca. Una realtà che ha aspetti fisici fissi (costruzioni, spazi, oggetti negli spazi, estetica degli spazi) e umani che vi agiscono e con cui interagiscono.
Si va sul posto osservando prima il contesto (prendendo nota, meglio con foto/video), poi si osserva il luogo specifico della realtà che si intende analizzare e infine ci si rapporta con i soggetti umani interessati. Da ricordare, nel momento dell’interpretazione e della sintesi, che l’osservazione dello spazio fisico è condizionata dalla nostra percezione e che anche la narrazione dei soggetti umani con cui abbiamo relazioni (per esempio interviste) è condizionata dalla loro e dalla nostra percezione. Osservatore e osservato non sono esterni al campo.
2 – Il contesto e l’osservazione
Nel caso di studio in questione le visite esplorative e le conoscenze teoriche pregresse di chi ha fatto la ricerca hanno dato il seguente quadro interpretativo, che può essere comparato con altre situazioni urbane:
– le periferie disordinate sono il risultato di un processo graduale di costruzione nel tempo di edifici di vario genere;
– gli spazi pubblici (e la loro pianificazione) sono compito dei comuni e quindi il ‘disordine’ è anche loro responsabilità politico-amministrativa;
– i privati non hanno obblighi sociali per gli spazi pubblici; devono solo seguire le indicazioni e rispettare i vincoli decisi dall’amministrazione pubblica per quanto riguarda l’estetica, le dimensioni, ecc., di quanto realizzano;
– un aspetto specifico del sistema delle tangenti nel settore delle costruzioni era/è quello mirato ad ottenere norme e/o regolamenti favorevoli da parte dei politici locali o di avere un atteggiamento ‘comprensivo’ nel controllo del rispetto di tali regole (o di non avere nessun tipo di controllo);
– anche se con un sostanziale rispetto delle regole municipali, dagli anni Sessanta del XX secolo le periferie di Milano sono diventate sempre più disordinate con gli spazi occupati e costruiti a favore degli interessi immobiliari e della speculazione fondiaria;
– dalla fine degli anni Settanta i ceti a basso reddito sono stati obbligati a lasciare Milano e trasferirsi dal centro nelle aree periferiche e nei comuni intorno alla città per potersi permettere di affittare o acquistare casa a prezzi abbordabili, provocando un pesante impatto ‘costruito ‘ nell’uso dello spazio;
– il modo di usare il territorio è stato sostanzialmente simile per i piccoli comuni intorno a Milano. Piccoli rispetto a Milano, ma spesso più abitati di molti capoluoghi di provincia di altre regioni;
– l’espansione dell’urbanizzazione si è sviluppata lungo le principali e storiche strade di collegamento per e da Milano, principalmente con scopi commerciali e produttivi, poi residenziali;
– esteticamente questi assi di collegamento hanno sostanzialmente lo stesso aspetto con un misto di centri commerciali, luoghi di produzione (talvolta con ampie esposizioni della produzione sul fronte strada) e edifici residenziali che cercano di utilizzare al massimo la superficie di proprietà.
Tutto questo ha innescato un caging fisico (e ‘legale’): la forma di parti giustapposte del costruito delle periferie, a seguito degli interessi immobiliari privati, è la gabbia concreta, fisica, che incasella gli eventuali sforzi di un (ri)uso sociale degli spazi urbani. In questo contesto il processo di delocalizzazione produttiva all’estero, la decrescita della produzione industriale nelle città occidentali (che ‘produce’ edifici e spazi urbani vuoti), può anche essere una opportunità creativa di un riuso sociale e socializzato dello spazio. Ma gli ostacoli legali, amministrativi e mentali sono molti.
Nella fase dell’osservazione del contesto urbano specifico (Trezzano sul Naviglio, 21.000 abitanti, a sud di Milano) si è avuta la conferma visiva di questo quadro teorico:
– una volta occupati tutti gli spazi lungo la via principale secondo le modalità evidenziate il territorio è stato occupato costruendo lungo una serie di vie parallele (e perpendicolari) con gli stessi criteri, organizzati per blocchi sostanzialmente omogenei affiancati (residenziali, produttivi, artigianali, ecc.); dalla fine degli anni ’90 c’è stata una maggiore, anche se tardiva, pianificazione urbanistica da parte del comune;
– gli spazi pubblici hanno potuto essere ricavati solo nelle aree marginali e/o negli interstizi a causa dei costi dell’esproprio per pubblica utilità, comunque troppo onerosi per l’amministrazione pubblica, a fronte invece degli introiti derivanti dagli oneri urbanistici conseguenti alla concessione dei permessi di costruire. A causa della mancanza di spazio (e di soldi) in tempi più recenti i comuni hanno avuto la possibilità solo di fare interventi limitati e estetici nelle pubbliche piazze (o nelle rotatorie stradali);
– recentemente la street art e i murales sono stati testimonianze degli autonomi (e quasi sempre illegali) sforzi di riuso e reinterpretazione creativa degli spazi fissi costruiti secondo una differente logica. Nell’area industriale di piccole fabbriche e/o produzioni artigianali (in parte inutilizzate al momento), che si trova vicino alla stazione della linea ferroviaria metropolitana di collegamento a Milano, la fantasia degli street artist ha trovato superfici disponibili che hanno consentito una variata, interessante e originale produzione visiva.
RiMaflow è (stata) un caso di studio molto utile e interessante di geografia sociale e cioè adatto per un/a geografo/a che genericamente ‘si sente’ portato/a per un certo tipo di tematiche sociali o che le sceglie per soggettivi orientamenti etico-ideologici. Una sua particolarità è quella di essere un esempio di ripensamento spaziale sia dell’interno di uno spazio (una fabbrica di discrete dimensioni) che delle relazioni con il mondo esterno, vicino e lontano. Il tutto in un quadro di visione sociale idealistica esplicitata degli attori umani che ne ha guidato e guida le scelte pratiche come anche l’approccio al territorio e agli spazi interni.
Fig. 01
Le motivazioni dell’occupazione all’ingresso della vecchia sede (foto dell’autore, 19 febbraio 2019)
3 – Il caso di studio
La Maflow di Trezzano sul Naviglio (produzione industriale per l’automotive) va in bancarotta nel 2009. C’è un anno di lotta contro la chiusura. All’asta nel 2010 si presenta l’imprenditore polacco Boriszew che ne gestisce l’attività per due anni e a dicembre 2012 la chiude trasferendo la produzione in Polonia: 330 licenziati. Resta UniCredit come proprietaria dell’area industriale dal 2007.
I dipendenti che la occupano decidono di autogestirla cambiando e diversificando le attività e anche le finalità. Per fare questo gli spazi interni vengono ripensati e non a caso l’esperienza viene chiamata RiMaflow; anche i rapporti con l’esterno cambiano, vogliono essere cambiati, e quindi gli spazi esterni vengono ripensati in un’ottica di relazione, di sostegno economico e sociale attivando legami con soggetti come i sindacati, associazioni varie, gli abitanti, ecc., e non più solo come logistica per i trasporti in entrata e in uscita da una fabbrica. I contatti cercati con l’amministrazione comunale, che dovrebbe essere tra i referenti privilegiati in quanto soggetto gestore pubblico del territorio, non danno gli esiti sperati e, anzi, sono stati un problema a prescindere dal colore politico della giunta.
Fin dall’inizio l’esperienza della RiMaflow si è configurata come una ‘azione sociale prefigurativa’ con l’obiettivo di connettere e intrecciare le attività economiche con la comunità locale e non solo, offrendo servizi e cercando supporto e partecipazione: sono state organizzate visite degli scolari delle scuole elementari del posto, il proseguimento della mensa interna a prezzi contenuti, i capannoni sono diventati spazi per artigiani locali (es. restauro mobili, riparazione cellulari e computer), produzioni artistiche, uffici per piccole società, stanze e ambienti per assemblee e conferenze, aree per deposito e magazzinaggio, parcheggio coperto camper, addestramento cani negli spazi esterni; sono stati attivati accordi e sinergie con autogestioni, cooperative, associazioni in campo agricolo, artigiano, di produzione e servizi (locali e non solo); collegamenti con i GAS (Gruppi di Acquisto Solidale).
Ma un tipo si esperienza come questa è in conflitto sia con la struttura legale della società capitalista che con l’attitudine mentale del selfcaging sociale che accetta/subisce il caging spaziale di quella logica.
In campo ci sono anche attori ‘forti’ che non si vedono direttamente nello spazio, ma che agiscono e incidono anche fisicamente:
– gli interessi della proprietà (banca Unicredit , la seconda in Italia per importanza), che dopo il collasso finanziario di Maflow inizia un’azione legale per ottenere lo sgombero e poi la vendita dell’immobile (anche se nella zona sono molte le fabbriche chiuse, vuote da tempo e molte con cartelli di vendita);
– il tendenziale diverso approccio del consiglio municipale, che cambia a seconda dell’orientamento politico del sindaco e della maggioranza risultata dalle elezioni, anche se non in questo caso specifico;
– l’approccio mentale e ideologico della proprietà e delle autorità statali (prefetto) in merito a come fronteggiare l’illegalità dell’occupazione di una fabbrica.
L’esempio più eclatante è la denuncia e poi il carcere per il responsabile ufficiale dell’associazione di gestione con l’accusa di riciclo illegale di rifiuti riguardanti carta da parati e plastica che per RiMaflow erano materia prima seconda e non rifiuti; dopo 6 mesi e mezzo di detenzione preventiva con l’accusa infamante di associazione a delinquere finalizzata allo smaltimento illecito di rifiuti, Massimo Lettieri, presidente della Cooperativa RiMaflow in autogestione, l’11 maggio del 2019 viene scarcerato, ma le accuse rimangono. Avendo tutti gli altri imputati patteggiato, non c’erano le condizioni per andare a processo da solo: anni di dibattimenti e costi legali impossibili da sostenere, con l’aggravante di non poter neppure beneficiare degli sconti di pena disposti dal pubblico ministero. Un poster esposto a RiMaflow dice che “I poveri, anche quando hanno ragione, possono solo stare in galera! Massimo dovrà quindi scontare due anni in affidamento ai servizi sociali. Si tratta della pena più bassa tra tutti gli imputati, tuttavia per noi questa non è giustizia, è comunque un’infamia! “. Ci sono comunque le sanzioni e le spese processuali a cui far fronte come Cooperativa, a cui sono stati sequestrati i beni.
Rispetto ad altre esperienze di occupazione e autogestione il gruppo dei lavoratori della RiMaflow, aiutati anche da sostegno esterno, hanno mostrato una significativa capacità dei lavoratori di auto-organizzarsi e di resistere economicamente e psicologicamente. Questo per sei anni.
Una soluzione infine viene trovata e significativamente è attiva dal 1 maggio 2019.
Dopo una negoziazione di alcuni anni tra la proprietà e l’associazione dei lavoratori, grazie alla mediazione di Saccone, nuovo prefetto di Milano che ha avuto un diverso approccio al concetto di ‘(il)legalità’ di una occupazione rispetto a Lamorgese, si arriva ad un accordo il 28 novembre 2018 (con uno sgombero già attivato) per una pacifica de-occupazione della fabbrica entro pochi mesi.
Una nuova sede era già stata individuata dai lavoratori: è uno dei due stabilimenti ex Maflow che era rimasto attivo fino all’anno precedente l’accordo (ossia 2017), molto più nuovo e non decrepito e da bonificare. Non era proprietà di UniCredit, ma di un privato. E’ stato acquistato dal Consorzio “Almeno 331” (ossia con l’obiettivo di arrivare a un operaio in più di quelli licenziati nel 2012) composto da Caritas, Fondazione Vismara, Associazione Chico Mendes e Cooperativa RiMaflow. Il presidente del Consorzio, Emilio Roncoroni, è lo stesso della Cooperativa RiMaflow Fuorimercato (nome attuale). La nuova cooperativa è entrata in parte con i fondi recuperati da UniCredit. Il consorzio gestisce un mutuo con Banca Etica per la quota rimanente. Cabassi e Bastogi non stanno nel consorzio, ma hanno acquistato una parte restante dell’immobile per un loro magazzino.
Conquistata la stabilità la sfida è ora muoversi nei nuovi spazi mantenendo gli obiettivi politici e le pratiche sociali attivate grazie anche ad un nuovo statuto legale, una nuova cooperativa capace di (e autorizzata a) gestire molte differenti attività.
Attivisti ‘rivoluzionari’ potrebbero criticare questo risultato che è certamente un compromesso, ma la disparità delle forze in campo è forte e ‘normalizzare’, cioè accettare/subire il contesto legal-capitalistico della società, in questo caso può preservare una esperienza alternativa: da una Temporary (TAZ, Temporary Autonomous Zone, Bey 2020) ad una SAZ, una Stable Autonomous Zone, per affrontare la sfida della sopravvivenza. L’obiettivo iniziale principale era l’ottenimento di un posto di lavoro non in nero, ma a contratto come sono oggi, per chi non aveva niente ed era licenziato; un obiettivo raggiunto.
Però la nuova sede ha meno spazio rispetto alla precedente (così, per esempio, il rimessaggio dei camper e l’addestramento cani non sono più possibili, riducendo una entrata monetaria senza quasi spese di gestione).
Legalmente la dinamica di RiMaflow sembra risolta, ma il caging fisico e spaziale delle periferie disordinate è stabilmente attivo. La distanza dall’asse di comunicazione principale è passata da 300 metri a circa 1 kilometro.
Tra la strada principale e la nuova sede ci sono pochi blocchi di ville individuali, generalmente abitate da persone politicamente non favorevoli a esperienze sociali come fabbriche occupate e/o obiettivi ‘socialisti’.
C’è una linea di autobus urbani, ma la posizione della nuova sede rimane fisicamente e ‘mentalmente’ marginale, per il mix di ville, edifici industriali, poche attività commerciali, e edifici residenziali con poca densità abitativa.
4 – Nuovo contesto spaziale, nuove sfide per il futuro
Le sfide per il nuovo futuro nella nuova sede erano diverse. Fare in modo che la nuova collocazione fosse comoda e accessibile per la gente in modo da mantenere i collegamenti sociali attivati nella precedente sede. Ma con l’incognita se i nuovi legami socio-fisici (da attivare) sarebbero stati più o meno forti nel sostenere l’esperienza autogestionaria. A questo scopo il 14 ottobre 2019 era stata lanciata una iniziativa pubblica per (ri)collegarsi al territorio vecchio e nuovo; altre iniziative erano programmate, sostenute dalla determinazione di continuare a costruire legami sociali e un futuro condiviso. La pandemia Covid è stata un duro colpo, ma non ha ucciso l’esperienza. Però la chiusura forzata ha la limitato le relazioni sociali; ad esempio l’idea di usare la mensa anche come ristorante sociale ha dovuto confrontarsi con le chiusure imposte per limitare il contagio.
Nel 2020, con le attività di ristorazione chiuse e gli eventi cancellati, sono state stimate perdite pari a 160mila euro e i lavoratori a rotazione hanno usufruito della cassa integrazione.
Tra i progetti in cantiere, che la pandemia ha fermato, c’è l’idea di organizzare tirocini, insieme a enti territoriali e scuole professionali, con i professionisti che occupano la “Cittadella degli artigiani”, l’altro capannone della struttura e seconda anima di RiMaflow.
La nuova cooperativa si è trovata ad avere un nuovo spazio interno dove continuare a mettere in pratica i principi etici che la ispirano, ma lo spazio esterno è stato modificato nelle possibilità di uso fisico; non è cambiata la struttura del costruito, ma è profondamente cambiato lo spazio della relazione tra umani e dello scambio economico.
In un articolo di Marta Facchini, pubblicato in data 13 aprile 2021 su Altraeconomia, si dà conto delle esperienze in corso e di cosa è stato fatto durante il 2020.
Quello che emerge è stata la continuità dell’approccio del ripensamento degli spazi interni ed esterni mostrata nella vecchia sede. La pratica di rapportarsi con associazioni e realtà produttive di base e autogestite, i contatti con i GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), la scelta di collegarsi alle reti delle iniziative solidali simili come quella di FuoriMercato si sono mostrate fondamentali e vincenti anche in una situazione pandemica.
[…] Le bottiglie di birra “La Comune 1871”, l’ultima novità lanciata da RiMaflow, sono conservate nel magazzino della fabbrica recuperata a Trezzano sul Naviglio (MI). Il capannone è uno dei cuori pulsanti dello stabilimento in via Verri: qui vengono stoccati i prodotti di FuoriMercato, organizzati sugli scaffali e poi suddivisi negli ordini che alimentano le botteghe e 70 Gruppi di acquisto solidale a Milano e provincia. Sui ripiani ci sono alcuni dei prodotti più noti della filiera autogestita alternativa alla Grande distribuzione organizzata: la vodka antisessista Kollontai, le confetture delle Cuoche Combattenti che arrivano da Palermo e le arance di Sos Rosarno. Da marzo 2021 si è aggiunta anche la nuova birra rossa, che segue “La Staffetta” e il liquore “Amaro partigiano”. Dice Luca Federici, che gestisce la produzione dei liquori RiMaflow: “Anche se le nostre produzioni sono esterne, sono condivise in ogni passaggio e abbiamo un rapporto continuo e diretto con chi le mette in pratica. RiMaflow pone sempre al centro la sua idea di lavoro in autogestione, fondata sul principio che l’autoproduzione è lo strumento per costruire un’economia e una politica diverse”.[…]
[…] nuovi prodotti sono stati pensati anche per ripartire dopo un anno difficile, così come l’idea di rafforzare il settore dei servizi, ovvero la parte di RiMaflow che si occupa di gestire lavori per conto terzi.[…]
[…] “La nostra idea è aprire un hub del cibo”, dice [Spartaco] Codevilla [socio fondatore]. Il progetto affonda le radici in quanto successo nel primo lockdown di marzo e aprile 2020 quando questi stessi spazi sono stati utilizzati per stoccare i generi alimentari distribuiti a persone e famiglie in difficoltà nei quartieri di Lorenteggio e Giambellino nell’ambito del progetto QuBì, il programma contro la povertà infantile finanziato da Fondazione Cariplo e sostenuto dalla Fondazione Peppino Vismara e dal Comune di Milano. “Di fronte a una crisi non più congiunturale ma strutturale, abbiamo iniziato a riflettere sulla necessità di aprire un hub permanente insieme alle realtà con cui abbiamo collaborato in quella fase dell’emergenza sanitaria”. La struttura, dove stoccare e conservare generi alimentari per sostenere persone in difficoltà, sarebbe ricavata in una parte del capannone che da marzo di quest’anno è condiviso anche con la cooperativa Chico Mendes, giunta anche lei in via Verri, che a Milano tra le tante altre cose opera in sette botteghe del commercio equo.[…]
[…] Francesco Costa, artigiano [N.d.A.: che ha trovato in RiMaflow lo spazio fisico per la sua attività], dice: “Mi alzo la mattina e sono felice di andare a lavorare. L’autogestione è il nostro punto di forza perché ci coordiniamo e non abbiamo ‘padroni’ che ci dicono che cosa fare. Per me questo posto è tutto, è una casa”.[…]
Visto che la parola economia deriva dall’unione delle parole greche oikos, casa e nomos, norma o legge, significa quindi ‘gestione della casa’, nelle parole di Costa c’è lo spazio etico e lo spazio fisico.
C’è stata la capacità di immaginare lo spazio: uno spazio base in una rete di spazi fisici e’umani’ dove non è tanto quello che si produce il collante, ma come si usa lo spazio e come si produce, di conseguenza. Come nelle già citate descrizioni e riflessioni di Reclus e Kropotkin più di cento anni fa, che possono essere trovate e sono sviluppate anche in testi recenti come Il principio territoriale di Alberto Magnaghi (2020) che dal 1990, per elaborare le sue proposte, ha lavorato in sinergia anche con geografi come Giuseppe Dematteis (2018) e Massimo Quaini (2017).
E’ la relazione dinamica con la parola autonomia (io stesso mi do le regole) che aumenta la capacità consapevole di pensare gli spazi in modo flessibile e magari anche creativo. Gli spazi che ci sono già, così come sono, perché è con questi che ci si deve confrontare e che possono essere un bel campo di ricerca per chi vuole ‘praticare’, in tutti i sensi, la geografia sociale.
Riferimenti bibliografici
Bey, H. 2020. TAZ. La Zona Autonoma Temporanea. Milano: Shake.
Dematteis, G., Magnaghi A. 2018. “Patrimonio territoriale e coralità produttiva. Nuove frontiere per i sistemi economici locali”. Scienze del Territorio 6: 12-25. [20/12/2018]. Doi: https://doi.org/10.13128/Scienze_Territorio-24362.
Facchini, M. 2021. “RiMaflow si muove: i progetti in corso della fabbrica recuperata di Trezzano sul
Perché amici impossibili? Tutti i gruppi umani si inventano
la propria identità e quando questo processo diventa nazionalismo, cioè
rivendicazione politica di un territorio “proprio”, si cercano, si aggiustano,
si inventano fatti storici e caratteri culturali che sostengano l’identità
nazionale proclamata. Questo processo, costruito nel tempo, ha maggiore o
minore effetto a seconda dei caratteri culturali specifici dei gruppi umani
(quelli che il geografo francese di fine Ottocento Eliseo Reclus chiamava “genere
di vita”) e a seconda delle vicende storiche svoltesi nel o intorno al territorio
rivendicato come “proprio”.
Russi e turchi hanno costruito una grande considerazione
della propria cosiddetta identità riferita anche al reciproco passato imperiale,
ma fino alla prima guerra mondiale si sono fatti la guerra numerose volte per
contendersi territori; soprattutto a partire dalla seconda metà del 1600 e
nell’intero Settecento nell’area del Mar Nero occidentale (inclusa la Crimea),
mentre nell’Ottocento il fulcro dello scontro fu prevalentemente nei Balcani
tranne che nella guerra di Crimea del 1854-56, che però fu la conseguenza dei
contrasti balcanici. Per questo rimane ancora oggi un sottile sentimento
reciproco di “essere nemici” anche se la Russia di Putin e la Turchia di
Erdohan negli anni recenti hanno intrecciato relazioni variabili, ma incentrate
su una alleanza pragmatica di interessi.
I due leader sono ambedue nazionalisti con aspirazioni di
egemonia/controllo e prestigio (internazionale). La Russia con un ruolo più
globale grazie alla sua continuità con l’Unione Sovietica dal punto di vista
militare (dispone di circa settemila testate nucleari), la Turchia alla ricerca
di un ruolo di potenza regionale nelle aree un tempo facenti parte dell’impero
ottomano. E con qualche volontà di “recupero” di territori considerati come
“rubati” dai trattati di Sévres del 1920 e di Losanna del 1923. Sono ambedue leader
pragmatici, spregiudicati, abili nel controllo del potere interno (con
repressione degli avversari per vie giudiziarie e incarceramenti in attesa di
processo) e nell’uso della narrazione eroico-nazionalista per suscitare il
consenso popolare, e infine, e non è secondario, capaci di utilizzare al meglio
le contraddizioni tra principi e azioni concrete nella geopolitica
internazionale per permettersi azioni di forza limitate, ma utili ai loro fini.
Contraddizioni evidenziate dalle ripetute dichiarazioni ufficiali
dei leader mondiali di appoggio a soluzioni negoziate e pacifiche per le crisi
geopolitiche, quando nell’evidenza dei fatti tali crisi sono state quasi sempre
provocate da azioni di forza, gestite con azioni di forza e con attori che
cercano soluzioni vittoriose grazie ad azioni di forza (vedi il caso recente di
Haftar e della Libia). Per citare il generale Carlo Jean durante una conferenza
all’ISPI di Milano nel 2006: la legalità internazionale la fa il più forte. I
forti sono pochi e anche gli opportunisti capaci di sfruttare queste
contraddizioni. Ma i danni provocati possono essere molti e soprattutto gli
effetti ricadono sui civili, talvolta con numeri rilevanti come pure le sofferenze
patite per anni.
E la logica delle valutazioni delle ragioni e dei torti,
come pure delle narrazioni mediatiche di ciò che avviene, rimane sempre quella
del noi contro loro; “noi” siamo gli occidentali e nostri alleati (in questo
caso la Turchia), “loro” sono la Russia che sostiene Bashar al Assad, e l’Iran.
Per Putin il primo esercizio pratico di questa forzatura delle
regole può essere identificato con la crisi in Georgia nel 2008 in relazione ai
territori secessionisti georgiani dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud protetti
dai russi, mentre per Erdohan la crisi siriana è stata l’occasione per mettere
in pratica il neo-ottomanesimo di cui alcuni commentatori avevano cominciato a
parlare intorno al 2010.
Le cosiddette primavere arabe dell’inizio del 2011 hanno
provocato effetti dirompenti dal punto di vista degli assetti istituzionali di
molti stati nell’area Mediterranea e del Medio Oriente; con risultasti
apparentemente contraddittori, per chi ha voluto interpretarle con la sola
visione esterna, “occidentale” e omnicomprensiva, ma in realtà sostanzialmente
coerenti con le singole realtà socio-politiche locali per chi ha voluto invece
usare un approccio critico, e geografico aggiungo io. Ogni stato va valutato
considerando le caratteristiche specifiche, anche sociologiche e territoriali e
non solo la “rappresentazione” che si da o che gli viene attribuita.
Senza ripercorrere nel dettaglio la crisi siriana iniziata
nei primi mesi del 2011 con manifestazioni pacifiche contro l’impunità dei
funzionari del regime di Assad e la corruzione, pesantemente represse (con
morti), si può ricordare che nel giro di pochi mesi ci sono state le defezioni
di militari che hanno dato vita all’Esercito Siriano Libero (FSA in inglese)
che si è opposto con le armi alla repressione. L’occidente si è schierato
subito contro Bashar al Assad e la narrazione quasi univoca è stata che “aveva
perso la legittimità perché bombardava il proprio popolo”. Ma non basta che
qualche leader occidentale lo dica per “delegittimare” un governo in carica.
Erdohan da amico di Assad (hanno fatto le vacanze insieme le
due famiglie) è diventato un suo fiero oppositore per il suo rifiuto di usare
la sua proposta di mediazione. Attraverso la lunga linea di confine turca
(quasi 800 chilometri) hanno cominciato a convergere in Siria combattenti (più
o meno jihadisti) e armi, una parte dei quali ha dato poi corpo allo Stato
Islamico di Iraq e Siria (Daesh, l’acronimo in arabo) che ha conquistato e
gestito dal 2014 al 2019 una buona parte del territorio siriano centro-orientale.
I russi si sono schierati subito dalla parte di Bashar al
Assad con la giustificazione che era il governo legittimo e la motivazione
pratica di difendere e conservare l’unica base navale militare che hanno nel
Mediterraneo, a Tartus in Siria. Mentre noi occidentali abbiamo cominciato a
sostenere politicamente e con qualche aiuto discreto i ribelli anti Assad.
Salvo poi spaventarci quando questo aiuto ha dato origine inaspettatamente ad
una formazione super fondamentalista islamica che è riuscita in poco tempo a
conquistare territorio in Siria e Iraq, a mobilitare appoggi e combattenti in
tutto il mondo musulmano e anche europeo grazie ad una spregiudicata ed
efficace campagna mediatica via internet, fatta di gesti eclatanti, omicidi in
diretta, sgozzamenti e attentati sul territorio stesso del “nemico crociato”,
come dicevano. Da ricordare che daesh vendeva sottobanco il petrolio iracheno e
siriano dei pozzi che controllava tramite una lunga fila di camion cisterna da
e per la Turchia e che il rifornimento di armi avveniva prevalentemente
attraverso il confine turco visto che tutti gli altri confini erano di stati a
loro contrari.
Quindi Turchia e Russia si trovavano e si trovano schierate
su fronti opposti. Eppure questo non ha impedito loro di avere relazioni
diplomatiche e commerciali altalenanti, ma sostanzialmente buone. La crisi
siriana è stata discussa a Sochi, in Russia o ad Astana in Kazachistan, più di
una volta tra Russia, Turchia e Iran. L’abbattimento di un aereo da
combattimento russo nel nordest della Siria da parte turca ha provocato un
congelamento dei commerci e delle relazioni per qualche mese, ma poi la
Turchia, membro della NATO, ha deciso di comprare dalla Russia i missili SS400
non curandosi delle proteste degli alleati.
Lo sviluppo della crisi interna alla Turchia della questione
curda, con conseguente repressione e coprifuoco imposto nel sudest del paese
dal 2015, e del multi-decennale conflitto, anche armato, con il PKK (Partito
dei lavoratori del Kurdistan), partito considerato terrorista anche da USA e dalla
UE, ma non da una recente sentenza della Corte di Giustizia europea, questo
contrasto, dicevo, si è evidenziato in parallelo con il fatto concreto che i
combattenti curdi dei cantoni nel nord e nordest della Siria si sono mostrati i
migliori combattenti sul terreno contro daesh; prima nel difendersi (il caso di
Kobane nel 2014 ha avuto rilevanza mediatica mondiale) e poi nel contrattaccare
e conquistare passo dopo passo, villaggio dopo villaggio tutto il territorio
controllato da daesh in Siria. Combattenti così efficaci da meritare l’appoggio
aereo degli USA e l’invio discretissimo (e limitato) di soldati statunitensi,
francesi e inglesi per dare loro supporto tecnologico-logistico.
I curdi del PYD (Partito dell’unione democratica) siriano
hanno attivato due formazioni di combattenti “di difesa popolare”, YPD (misto)
e YPJ (solo femminile), e hanno non solo riconquistato terreno, ma sono
arrivati fino a liberare Raqqa, una delle due capitali dello stato islamico e a
eliminare i gruppi jihadisti fino al confine con l’Iraq. Nel momento in cui
liberavano da daesh il territorio siriano i curdi organizzavano la società del
Rojava (occidente, in curdo) secondo un modello di municipalismo democratico
molto decentrato proposto tra il 2005 e il 2011 dal leader del PKK Abdullah Őcalan, unico prigioniero
nel carcere turco di Imrali dal 1999. Questo modello di democrazia, che
potremmo definire estrema anche per i nostri criteri occidentali, pur in una
situazione di guerra è in funzione progressivamente dal 2015 e ha come
riferimenti ideali l’ecologismo, il femminismo e la democrazia diretta (di
villaggio e/o di quartiere di città).
Grazie alle vittorie contro daesh i curdi si sono trovati ad
amministrare un territorio ben più grande del Rojava, cioè il territorio a
prevalenza di abitanti curdi; la loro proposta socio-politica però è stata
allargata a tutte le componenti presenti a prescindere dalle appartenenze
linguistiche e religiose (arabi, turcomanni, assiri, arabi cristiani e yezidi
[anche se questi ultimi sono curdi, ma di religione yezida]
).
I curdi hanno dichiarato nel 2012 l’Amministrazione autonoma
della Siria del nordest, tra il 2016 e il 2017 è stata chiamata Federazione
Democratica del Rojava – Siria del Nord, e dal 2017 Federazione Democratica
della Siria del Nord, e hanno dichiarato
che non intendono cambiare i confini della Siria per rivendicare un nuovo stato
curdo indipendente, ma che sono disposti a trattare con e a riconoscere
qualsiasi governo di Damasco che riconosca la loro autonomia amministrativa
secondo il loro modello democratico. Per questo nella fasi della lotta contro
daesh l’accordo con Damasco è stato che i curdi avrebbero operato ad est
dell’Eufrate mentre l’esercito siriano a ovest e che non ci sarebbero stati
scontro tra le due parti. Finora lungo l’Eufrate questo accordo è attivo anche
dopo la sconfitta di daesh.
Sia l’esercito siriano di Assad, che in qualche occasione i
curdi (a Raqqa per esempio), hanno concesso agli irriducibili di daesh e alle
loro mogli e figli che se si fossero arresi avrebbero potuto essere trasportati
nella provincia di Idlib, ultima roccaforte rimasta dei vari gruppi ribelli
contro Assad; gruppi misti, dall’Esercito Siriano Libero ad altri più o meno
jihadisti. E oggi, gennaio-febbraio 2020 la concentrazione a Idlib di tutti gli
oppositori armati al governo di Bashar al Assad rappresenta il problema
geopolitico maggiore perché l’esercito governativo vuole “liberare” almeno una
parte delle territorio di Idlib per controllare le due principali arterie della
zona che collegano Aleppo a Damasco e Aleppo alla costa del Mediterraneo dove
si trova la zona abitata prevalentemente dagli alauiti, il gruppo
socio-religioso cui appartiene anche la famiglia Assad e molti personaggi di
potere a Damasco.
La Turchia e Erdohan però hanno visto un pericolo nella
conquista territoriale curda che lasciava intuire che il Rojava avrebbe
unificato i 4 cantoni curdi e avrebbe dato loro il controllo di quasi tutto il
confine tra Siria e Turchia. Per questo l’esercito turco è entrato nel 2016 in
Siria per impedire il ricongiungimento dei tre cantoni orientali con quello di
Afrin, il più occidentale e contornato per due terzi dalla Turchia.
Opportunisticamente l’esercito turco ha garantito la sicurezza ai gruppi locali
di daesh per poter entrare senza combattere e controllare la zona intorno alla
città di Jarabulus. I curdi nell’area sono rimasti attestati a Mambij, a ovest
dell’Eufrate, anche grazie alla presenza di soldati statunitensi in loro
appoggio contro daesh.
Ma nel gennaio-aprile del 2018 Erdohan ha ordinato una
seconda invasione in Siria per la conquista del cantone a maggioranza curda di
Afrin; ufficialmente per proteggere la Turchia dal terrorismo dei curdi grazie
ad una operazione militare chiamata “ramoscello di ulivo”. La distanza tra
realtà fisica e narrazione (simbolica) è sempre più evidente in geopolitica.
Visto che il cantone di Afrin, per il rimanente terzo, confina con la provincia
di Idlib, i turchi hanno utilizzato milizie jihadiste in appoggio alle proprie
truppe lasciando loro mano libera nelle operazioni di occupazione delle città e
villaggi. Tali azioni militari hanno provocato una fuga di civili dall’area
verso Aleppo e le zone sotto controllo governativo (o verso piccole zone curde)
stimata variamente da 100mila a 300mila civili.
Erdohan ha lanciato una terza offensiva militare in Siria
nell’ottobre del 2019 contro il Rojava e
in particolare nella parte centrale della lunga linea di confine per
realizzare, secondo la versione turca, una fascia di sicurezza profonda 32
chilometri e lunga 120 contro il terrorismo curdo; il nome dell’operazione
militare è ironicamente “fonte di pace”. Tale operazione ha potuto realizzarsi
grazie al silenzio della NATO, di cui la Turchia è il secondo esercito come
consistenza dopo gli USA, e soprattutto perché il presidente Trump ha deciso di
ritirare quelle centinaia di soldati statunitensi che avevano appoggiato i
curdi contro daesh, ridislocandoli a
protezione dei pozzi di petrolio siriani vicino a Deirezzor; motivo ufficiale:
impedire che potessero essere usati da daesh (in realtà già sconfitto e
presente solo con cellule nascoste che agiscono tramite attentati).
L’entrata in Siria è stata anche quasi concordata con la
Russia perché i soldati russi e l’esercito governativo siriano hanno preso
posizione nelle postazioni degli statunitensi e hanno iniziato, i russi, a fare
anche pattugliamenti congiunti coi turchi lungo le strade che ricalcano
sostanzialmente quella distanza di 32 chilometri dal confine da cui i
combattenti curdi si sono ritirati senza fare resistenza. Anche questa
invasione ha provocato la fuga di una parte dei civili stimata in decine, forse
un centinaio di migliaia di civili. E anche qui i turchi si sono avvalsi di
jihadisti di Idlib cui hanno lasciato il lavoro sporco cercando di mostrarsi
come forza di interposizione a livello di immagine. In realtà continuando a
colpire con mortai, cannoni e attacchi aerei villaggi nella zona rimasta curda
del Rojava.
Bashar al Assad e i russi hanno preso tempo e non hanno contrastato
l’azione turca perché faceva loro gioco l’indebolimento dei curdi; i curdi in
difficoltà difensiva sono più deboli nella trattativa con il governo di
Damasco. E inoltre sono riusciti senza colpo ferire a riprendere il controllo
di aree e punti a ridosso del confine che avevano abbandonato nel 2012. E
Bashar al Assad ufficialmente è ancora contrario ad una Siria federale con zone
amministrativamente autonome dal governo
centrale come vorrebbero i curdi.
Ma secondo me Erdohan
si aspettava un successo maggiore e cioè il disfacimento dell’esperienza
socio-politico del Rojava con il
conseguente confronto armato tra l’esercito governativo, appoggiato dal cielo
dai russi, e i combattenti curdi. Questo non è successo, il Rojava rimane in
piedi (controlla circa un quarto del
territorio siriano), anche se parzialmente mutilato; e l’esercito di Assad ha
invece puntato a recuperare il controllo della provincia di Idlib a occidente,
ormai ultima roccaforte della vera resistenza armata contro di lui.
E’ paradossale che un accordo per un cessate il fuoco nei
margini della provincia di Idlib (sottoscritto nel settembre 2018) sia stato
concordato tra i turchi che sono presenti illegalmente in Siria, i russi che
anche se appoggiano il governo sono forze straniere e gli iraniani, anch’essi
stranieri, ma presenti con milizie da loro armate e sostenute in appoggio ad
Assad. Insomma nella crisi ufficialmente “interna” della Siria tra un governo e
i suoi oppositori gli attori esterni hanno giocato il ruolo militare più
rilevante agendo dentro il territorio siriano: russi e iraniani con il governo,
Turchia, USA, Francia, UK contro; per non parlare di Israele che è accreditato
di almeno 200 bombardamenti mirati in Siria. E poi attori con Arabia Saudita,
Emirati arabi e Qatar che con i loro soldi hanno sostenuto differenti gruppi
armati ribelli (più o meno jihadisti: salafiti i Sauditi e gli Emirati, più
vicini ai Fratelli Musulmani il Qatar).
L’azione militare governativa contro la provincia di Idlib
ha provocato un’altra fuga di massa di civili. I media dicono 900mila profughi
che sono un poco di più dei 700mila già in fuga in aprile 2019, perché è da
tempo che l’esercito regolare erode territorialmente la zona di Idlib
controllata dalle milizie ribelli stimate dai 40mila ai 60mila combattenti.
Piuttosto che verso le zone governative e nonostante l’offerta di passaggi
sicuri gli sfollati preferiscono muoversi verso il confine turco dove sono
ammassati perché la Turchia li blocca visto che già ospita sul suo territorio
un numero incerto di profughi siriani compreso tra i 3 e 4 milioni.
In queste dinamiche c’è sempre la possibilità che un
incidente non voluto inneschi una escalation della crisi e del conflitto; in
passato il già citato abbattimento di un caccia russo da parte dei turchi, poi
di una aereo russo da parte della contraerea siriana per errore e il 27 febbraio
scorso un bombardamento governativo ha ucciso 22 (poi diventati 34) soldati
turchi presenti in Siria.
Il numero dei morti non consente alla Turchia di trovare una
via d’uscita che salvi la faccia; questo ha costretto, a mio parere, Erdohan ad
alzare i toni nazionalisti per il pubblico turco, cosa che peraltro fa
normalmente, e a cercare una gratificazione e un sostegno internazionale da
parte di USA, NATO e Unione Europea, dopo che ha agito per anni senza
curarsene, in splendida solitudine e noncuranza di consuetudini, di cosiddette
“regole” internazionali e di accordi da lui stesso firmati.
Ma la presenza stabile dei soldati turchi in Siria è
indifendibile sul piano dei trattati firmati e degli statuti sia dell’ONU che
della NATO e può essere tollerata, per quieto vivere e/o interessi
nascosti, solo se si fa finta di credere
che la motivazione turca della lotta al terrorismo sia valida nel caso siriano;
accettabile come scusa finché c’era daesh, ora non più. Ciononostante Erdohan
ha ricevuto dichiarazioni favorevoli da parte di Trump e della NATO, in parte
dalla UE, ma solo come solidarietà e condoglianze, ma non di condanna del
governo siriano (e della Russia) che in effetti agisce per riconquistare parte
del proprio territorio. Cosa che farebbe qualsiasi stato al mondo; cosa che fa
Erdohan nelle zone curde nel sudest della Turchia ed un “diritto” che Erdohan
rivendica per il suo recente aiuto armato al governo libico di al Sarraj, in
contrasto con le dichiarazioni di embargo dell’ONU. Nel momento in cui la
Turchia chiede sostegno e condanne l’ipocrisia dominante nelle relazioni
geopolitiche viene messa troppo allo scoperto e tuttora, almeno a parole, non
si superano certi limiti. Ma Erdohan, oltre ad essere autoritario e
presuntuoso, si è abituato ad anni di
silenzio acquiescente se non di aperto appoggio in qualche occasione e così non
demorde; per personaggi del genere perdere la faccia è più grave che subire una
sconfitta militare che si può sempre raccontare in modo diverso.
Così ha scelto il ricatto vendicativo nei confronti del
soggetto che considera debole e cioè l’Unione Europea, cercando di colpirla nel
suo punto più delicato e problematico sul piano interno: quello della pressione
migratoria. Ma la UE, pur nella sua debolezza sulla questione migratoria, è
forse l’unica organizzazione mondiale che cerca di avvicinare il più possibile
le dichiarazioni di principio con la realtà dei fatti; difficilmente potrà gratificare
Erdohan con un appoggio incondizionato nonostante il suo ricatto. E anche
perché lo stesso Erdohan ha infilato una serie di “sgarbi” geopolitici contro la
UE e gli alleati, dall’acquisto di sistemi d’arma russi, al suo recente
intervento a gamba tesa in Libia, alle intimidazioni a navi di paesi europei (Italia
in primis) nelle aree delle concessioni esplorative dei fondali di Cipro.
Da qualche giorno i corpi turchi impegnati nel controllo
delle frontiere e delle coste hanno ricevuto l’ordine di non fermare più i
tentativi dei profughi di raggiungere la Grecia. Anzi, si parla di espliciti
aiuti e sono certi i pullman gratis messi a disposizione da Istanbul per
raggiungere il confine terrestre di Grecia e Bulgaria. Che reagiscono con forza
con sbarramenti di filo spinato e gas lacrimogeni, in modo ancora più deciso e
talvolta violento di quanto fece la criticata Ungheria di Orban nel 2016-17 e
poi la Macedonia, finanziata dalla UE, di cui non è membro, proprio per fare
quello stesso sbarramento.
La Grecia chiede l’aiuto europeo e i mass media, italiani in
primis, (ri)scoprono che le migliaia di profughi sulle isole greche vivono da
anni in condizioni terribili. A Lesbo in un campo pensato per più di 3mila ci
vivono in 20mila. E la visita del papa di qualche anno fa non ha cambiato in
nulla la situazione. Ma, come si dice: lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Il paradosso è che questa ondata di profughi non viene da
Idlib; gli sfollati sono quasi tutti ammassati in territorio siriano lungo il
confine con la Turchia che li fa entrare solo a piccoli contingenti. Ma sui
nostri quotidiani (es. la Repubblica del 1 marzo) si mettono carte con frecce
evidenti che collegano Idlib ai confini marittimi e terrestri greco-turchi
sotto titoloni emotivi relativi all’isola di Lesbo dove muoiono i bambini, che però
non sono di Idlib.
Un geografo critico con approccio antropologico nota che gli
sfollati, in quanto esseri umani come tutti, scappano nella direzione opposta a
dove si combatte. Quindi è inutile che il governo siriano e i russi dicano che
garantiscono passaggi “umanitari” sicuri verso le aree governative. La Turchia
fisicamente tiene ferma la massa degli sfollati lungo il confine perché intende
usarla come arma geopolitica e fare la parte di chi si preoccupa del loro
benessere; dopo che lei stessa ha provocato fughe di qualche centinaio di
migliaia di sfollati curdi nelle sue operazioni militari. Della sicurezza di
questi sfollati non si è preoccupato nessuno anche perché si sono rifugiati nel
Rojava o nelle aree controllate dalle milizie curde.
Infine, visto che il governo siriano ha effettivamente
ripreso il controllo di circa i due terzi della Siria la cosiddetta comunità
internazionale (cioè i soliti pochi stati che contano e che hanno i soldi,
compresa l’Unione Europea) potrebbero prendere in parola Erdohan circa le sue
preoccupazioni umanitarie e organizzare con lui un corridoio umanitario che da
Idlib, attraverso un breve tratto
terrestre in Turchia (si tratta di meno di 50 chilometri), faccia arrivare gli sfollati sulla costa e poi
via terra o anche trasbordarli via nave verso il confine siriano a sud, nella
zona di Latakia, da cui gli sfollati potrebbero poi raggiungere zone tranquille
in Siria, magari raggiungendo parenti e amici.
Di una cosa sono certo: nessuno dei cosiddetti leader
penserà mai questa soluzione pratica, fattibile e coerente con i principi
umanitari tanto sbandierati quando fa comodo. Perché le parole del ricatto,
delle intimidazioni, dell’ipocrisia sono l’essenza della geopolitica degli
stati e dei loro leader.
Erdohan e Putin dovrebbero incontrasi il 5 o 6 marzo in
Russia e ancora una volta sono due capi di stato stranieri che si confrontano
sulla Siria quando il vero problema ora è che l’esercito regolare dello stato
siriano si trova a combattere direttamente con i soldati di un esercito
regolare di uno stato confinante che si trovano illegalmente sul suo territorio.
I turchi sono militarmente più forti, ma i siriani sono protetti dai russi.
Masse di disperati dipendono dalle decisioni di pochissimi; sempre che siano
sinceri.
E intanto le prime 10-12 pagine dei nostri quotidiani e il
grosso dei servizi TV e dei talk show sono dedicati al Covid 19 (però chiamato
sempre Coronavirus) e non si parla più di Libia, di Yemen, di Venezuela, di
Corea del Nord, eccetera, come se quelle situazioni fossero risolte.