La visione anticipatrice del ‘kilometro zero’ in Kropotkin (Geography Notebooks, Vol.4 /2, 12/2021)

Campi, fabbriche, officine del geografo Piotr Kropotkin (1975. Colin Ward a cura di. Edizioni Antistato) è uno dei libri più ‘pratici’ di riferimento del pensiero anarchico, risultato di alcuni articoli (scritti tra il 1888 e il 1890) raccolti in un libro nel 1899, il quale ebbe molte riedizioni rivedute e ampliate prima della Grande Guerra. Amico del geografo anarchico Elisée Reclus, considerato da alcuni come il fondatore della geografia sociale (Errani P.P., a cura di. 1984. L’Homme. La geografia sociale, Milano: Angeli), Kropotkin è morto nel 1921 (e proprio nell’anno della stesura di questo testo ricorre il centenario della sua scomparsa (https://kropotkin2021.com). Colin Ward, ‘architetto’ (non laureato) e attivista spaziale ‘in azione’ (1973. Anarchy in action), nel 1974 interviene sul testo originale: riduce abbondantemente la grande massa di dati presenti e lo ristruttura in quattro capitoli alla cui fine, di volta in volta, fa un commento comparativo con la realtà socio-economica degli anni Settanta. Ne sottolinea continuità (molte), discontinuità (poche) e sostiene le proposte pratiche di Kropotkin che avevano, a suo giudizio, una validità per il presente (suo di allora) e per il futuro, ovvero il nostro presente. Per misurare l’attualità delle intuizioni di Kropotkin e la sua presa sul futuro è utile Il principio territoriale di Alberto Magnaghi (2020. Torino: Bollati Boringhieri).

Colin Ward nell’introduzione all’edizione inglese sottolineava che l’analisi e la visione futura di Kropotkin, talvolta profetiche, erano state elaborate in un mondo in cui l’elettricità, l’automobile, il cinema e il telefono erano ancora ai primi passi e non erano ancora stati inventati la radio, la televisione e l’aeroplano; inimmaginabili computer e smartphone. Il commento editoriale dell’edizione del 1919 sottolineava che i bisogni mondiali andavano aumentando e che le risorse della Terra non erano inesauribili. Consapevolezze che solo recentemente si stanno consolidando tra gli economisti del modello di sviluppo occidentale.

Con enorme dovizia di esempi concreti e con dati precisi, Kropotkin mostrava come l’utopia fosse possibile perché era già praticata in molti luoghi e che bastava seguire quegli esempi positivi, allargandone la scala, ma mantenendo la caratteristica di rete flessibile di una federazione di comuni autonomi e di unità produttive integrate (agricoltura-industria) localmente.

Nel primo capitolo, dedicato all’industria, Kropotkin vagheggia un futuro positivo se centrato sull’integrazione invece che sulla divisione e specializzazione del lavoro; egli immagina “una società dove ciascun individuo produca sia lavoro manuale sia lavoro intellettuale” (34), […] “una società riorganizzata […] dovrà trovare la maniera migliore per combinare l’agricoltura con l’industria […] e dovrà provvedere all’istruzione integrata, la quale istruzione soltanto, insegnando sia la scienza sia l’abilità manuale sin dalla prima infanzia, è in grado di dare alla società gli uomini e le donne di cui questa ha realmente bisogno.” (35).

Ma Colin Ward ricorda invece cosa è avvenuto e cioè il rapporto squilibrato tra Nord e Sud del mondo e Stati diventati specializzati in certe produzioni agricole o industriali, e noi oggi siamo testimoni della realtà consolidata della delocalizzazione produttiva che ha fatto della Cina la ‘fabbrica del mondo’ e Taiwan e Corea del Sud i principali produttori di microprocessori per le necessità tecnologiche avanzate mondiali. Specializzazioni possibili per “la rapidità e la crescente capacità di trasporto via mare” che Kropotkin già intuiva (36).

Del secondo capitolo dedicato all’agricoltura, in cui subito Kropotkin critica le tesi di Malthus sul pericolo della sovrappopolazione, vale la pena di sottolineare come l’autore descrive le esperienze sue contemporanee di produzione orticola commerciale (103-117) che hanno una valenza profetica se si considerano gli esempi delle produzioni odierne olandesi o delle aree semidesertiche dell’Almeria spagnola, diventate ‘l’orto’ in serra dell’Europa. Kropotkin fa una semplice osservazione che ha valore ancora di più oggi e cioè che i cittadini ignorano del tutto come fisicamente si produce quello che mangiano (121-122).

Anche Colin Ward rileva che l’aumento possibile della produzione agricola, soprattutto di frutta, verdura e legumi, vagheggiata da Kropotkin, sia ai suoi tempi normale. Riprende poi e sottolinea le preoccupazioni ambientali kropotkiniane che negli anni Settanta del Novecento cominciano a essere denunciate come problemi ecologico-ambientali (134-135) su cui sarebbe stato necessario intervenire subito tramite creatività e ricerca per lo sviluppo della tecnologia alternativa che punta al “soddisfacimento dei bisogni umani attraverso l’impiego di risorse rinnovabili” (56).

Viene infine evidenziata la continuità con le preoccupazioni di Kropotkin circa l’eccessivo e pericoloso sviluppo di una agricoltura industriale ipermeccanizzata, confermata dai dati della riduzione di popolazione delle campagne e dei lavoratori nel settore (136-137).

Nel capitolo terzo Kropotkin sottolinea e apprezza la resilienza delle officine e delle piccole industrie, preconizzando per loro la capacità di sopravvivere al processo di concentrazione industriale che gli economisti di allora indicavano come un processo totalizzante e inevitabile. L’esempio italiano della diffusione delle PMI (Piccole e Medie Imprese) e della loro presenza maggioritaria nel nostro tessuto produttivo ne può essere un valido esempio. Però Kropotkin sognava il suo “piccolo è bello” (come titola il famoso libro di Schumacher del 1973 Small is beautiful) nella forma di una diffusione decentrata della produzione industriale a servizio delle necessità di una agricoltura tecnologicamente efficace che prevedeva la possibilità dei lavoratori di cambiare mansioni alternando il lavoro in fabbrica con quello dei campi (174-176). Per questo ho usato il verbo ‘sognare’. Significativo poi che già si descrivessero le pratiche di pirateria finanziaria di acquisto di fabbriche o di fusioni con l’intento di spezzettarle e/o venderne le proprietà in lotti separati. Infine Ward rileva la tendenza alla progressiva concentrazione urbana globale della popolazione che è un potente meccanismo in contrasto a ciò che auspica Kropotkin: “è necessario decentrare anziché centralizzare” (189).

L’ultimo capitolo ristrutturato da Colin Ward è dedicato all’istruzione integrale (35 e da 199 a 206). Nella sua visione integrata della società Kropotkin sottolinea come molte invenzioni non siano il risultato di studi accademico-teorici, ma provengano dalla straordinaria capacità di osservazione pratica di alcuni esseri umani particolarmente in grado di mettere a frutto capacità comuni a tutti: con una istruzione integrale l’autore è convinto che si favorirebbero la consapevolezza e un maggiore uso di tali diffuse capacità.

Kropotkin ‘sogna’ (208-210) un mondo che sostanzialmente è fatto di ciò che oggi chiamiamo start up e di crowdfunding. Quando Kropotkin indica quali problemi dovrebbero poter essere affrontati con nuove invenzioni future Ward, in un suo inciso, indica che nel suo presente sono già state inventate. Questo capitolo, in cui si parla di lavoro intellettuale e manuale da integrare nella vita quotidiana e non solo nel lavoro, si conclude con una visione di una possibile società armonica futura.

Nelle conclusioni il positivo e fiducioso Kropotkin ancora una volta ‘sogna’, sulla base di esempi precisi e concreti del suo tempo, una società autosufficiente (un sostanziale ‘kilometro zero’, si potrebbe dire oggi) che si fondi sul lavoro manuale coordinato e variato a cui sin da giovani si è stati abituati intellettualmente (224). Da bravo utopista ottocentesco il finale del libro è evocativo. Del poscritto editoriale vale la pena ricordare le parole di Colin Ward molto attuali nel nostro presente di 50 anni dopo: “Negli ultimi dieci anni noi ci siamo resi sempre più conto che c’è una crisi dell’ambiente naturale, una crisi delle risorse, dei consumi, della popolazione. […] Il fatto incontrovertibile è che le risorse del mondo sono limitate, […]”.

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