Rocco e i suoi fratelli. Sullo sfondo l’Italia in trasformazione (Geography Notebooks, Vol.4/2, 12/2021)

Ci sono dei film che sono dei saggi di geografia sociale. A patto che non ci si faccia troppo distrarre dalle sole vicende emotive dei protagonisti e si osservino con attenzione anche lo sfondo, gli esterni urbani e/o rurali, i mezzi di trasporto, gli ambienti, gli arredamenti, gli oggetti, gli abiti, le acconciature femminili e maschili. Certo anche la sceneggiatura può essere significativa quando evidenzia tipologie di relazione sociale tra i personaggi che danno indicazioni sulla struttura sociale, su quanto contino le differenze di disponibilità economica, di istruzione, di posizione sociale.

Uno dei film italiani più utili in questo senso è Rocco e i suoi fratelli (1960. Regia di Luchino Visconti), che mostra uno spaccato dell’Italia del Secondo dopoguerra, segnato dalla poderosa emigrazione dal sud al nord del Paese. Nello specifico si racconta la storia di una famiglia della Lucania, composta da una vedova recente e dai suoi quattro figli adulti (solo l’ultimo preadolescente), che raggiunge il quinto, primogenito, già emigrato a Milano.

La sceneggiatura è possente (il film dura quasi tre ore) e i personaggi, tutti di spessore, innescano diverse storie personali interconnesse dal legame famigliare; un legame messo sempre più alla prova dallo ‘spaesamento’ dovuto al trasferimento improvviso da un ambiente ‘marginale’ e tradizionale a quello urbano della ‘capitale’ economica e industriale d’Italia.

L’apparente paradosso è che questo “ritratto amaro e impietoso dell’Italia del boom economico” (Stefano Lo Verme. http://www.mymovies.it) sia stato girato dal conte Luchino Visconti di Modrone (1906-1976), antifascista e comunista fin dagli anni ‘30, ma discendente dal ramo della famiglia Visconti che resse Milano dal 1277 e dominò la scena politica dell’Italia settentrionale fino al 1447.

La pellicola è particolarmente comunicativa, si potrebbe dire ‘basta guardarla!’; resta vero che molto è legato al fruitore, alla sua capacità interpretativa di capire ciò che vede al di là dell’immagine stessa.

In questo film ritenuto controverso, più volte denunciato e soggetto a numerosi tagli di censura, si ritrovano elementi caratteristici della società di origine della famiglia. Ciò risulta particolarmente evidente nelle scene di dialogo, anche perché il regista fece la scelta di far recitare i protagonisti con l’inflessione dialettale meridionale, utilizzando un dialetto semplificato, ‘cinematografico’, molto inusuale all’epoca. Il rimando alle antiche abitudini appare già all’arrivo della famiglia a Milano, quando la madre richiama il figlio maggiore alle proprie responsabilità di sostegno al nucleo familiare, come pure lo critica per il fidanzamento fatto nel periodo del lutto. Analogamente, in un altro momento del film c’è la sequenza dei figli che escono di casa per il lavoro (l’occasionale spalare la neve) e baciano ciascuno la mano della mamma. Nel finale del film, in cui la vicenda tragica di uno dei figli si chiude, la madre si pente di aver portato i figli nella città tentatrice e corruttrice per inseguire il benessere, dove però anche una di basso ceto come lei può dire: “la gente per strada mi chiamava signora”. Ci sono anche scampoli di ‘tradizioni’ come, a cena, il brindisi da fare in rima oppure il racconto del rito del capomastro meridionale prima di cominciare a costruire una casa: gettare una pietra sull’ombra del primo che passa per fare il sacrificio rituale.

Gli esterni urbani sono le periferie simil rurali (ponte della Ghisolfa, Lambrate, il Portello [fabbrica dell’Alfa Romeo] i viali con giovani alberi), dove le strade hanno i paracarri in pietra e si snodano tra campi e orti, mentre l’Idroscalo appare come un luogo abbandonato e mal frequentato. L’ambiente esterno è fatto soprattutto di caseggiati nuovi o in costruzione (con ponteggi di legno) e la nuova casa popolare dove si trasferisce la famiglia è moderna, ma con ringhiera esterna ai piani. Interessante che sia l’anziano guardiano milanese del cantiere edile a suggerire ai ‘terroni’ di smettere di pagare l’affitto dopo due-tre mesi così da ottenere, con lo sfratto, la precedenza nell’assegnazione di una casa popolare del Comune.

Altri squarci di Milano vintage riguardano la darsena, il tetto del Duomo, da cui si vede il caseggiato di fronte non ancora totalmente coperto dalle pubblicità al neon (sono state tolte da anni), il ponte pedonale delle sirene, su cui troneggiano le cosiddette ‘Sorelle Ghisini’ (perché di ghisa), poi trasportate al parco Sempione una volta coperti i Navigli, i vespasiani pubblici (chioschetti in metallo, adibiti a orinatoi maschili) dalla fama un poco equivoca perché sede di incontri poco ortodossi. Fanno la loro comparsa anche alcuni fraseggi ormai scomparsi: la definizione milanese di ‘Africa’ rivolta (con un misto anche di bonarietà) ai meridionali immigrati e alcune gustose frasi in milanese come quella dedicata al personaggio Simone nella palestra pugilistica: “l’è un casciavit ma ga ona bela pappina” (non vale molto, ma ha un pugno potente).

Sempre per quanto riguarda gli esterni sono da notare inoltre i mezzi di trasporto. I treni con cui i protagonisti arrivano a Milano, ad esempio, sono ancora dotati di carrozze di terza classe con porte d’uscita-entrata per ogni scomparto e sedili di legno. All’ingresso in stazione, alcuni addetti provvedono all’immediato lavaggio dei vetri esterni, che effettuano a mano con degli spazzoloni. Il tram, su cui viaggia il bigliettaio, corre invece fra le vie illuminate e le luci delle numerose vetrine, che al primo impatto impressionano particolarmente i nuovi arrivati.

Gli interni sono prevalentemente quelli del seminterrato della prima abitazione, poi le palestre, i bar e la casa popolare. Una sola scena si svolge nella casa di un ricco borghese con mobilia, quadri e soprammobili; quella in cui la sua omosessualità è più esplicitata anche se lasciata all’intuizione (siamo nel 1960, è un argomento super tabù).

Per quanto riguarda oggetti oggi ‘scomparsi’, si possono citare la cartolina rosa per la chiamata al servizio militare maschile obbligatorio e le pezze in tela per i neonati stesi in casa, ormai sostituiti dai più moderni pannolini in cellulosa. Abitudini scomparse o modificate col tempo concernono il largo uso della giacca per i maschi, anche appartenenti ai ceti più bassi, e le acconciature femminili con i capelli cotonati. Verso la fine del film il personaggio Ciro chiede alla fidanzata un bacio in pubblico, che con esitazione e pudore viene concesso a labbra chiuse. Solo la ‘discussa’ Nadia fuma in pubblico o in presenza di maschi.

Pur all’interno di una storia che mostra soprattutto una condizione socio-economica difficile, in cui la boxe professionistica appare come un mezzo per migliorare la propria condizione, i segnali dei caratteri della piramide socio-economica vengono mostrati attraverso gli spostamenti del fratellino più piccolo (di 13-14 anni di età) che fa consegne in bicicletta per un droghiere e in un’altra scena, sul lago di Como (a Bellagio) presso il Grand Hotel si commenta il prezzo delle stanze a 10mila lire a notte.

Simbolo della mobilità sociale dell’Italia di quegli anni è il quarto fratello per età, Ciro (18 anni), che ottiene la licenza media ‘commerciale’ alla scuola serale. Va notato che fino al 1963 erano attive in Italia due scuole medie inferiori: una scelta da chi, superando un esame d’ammissione in quattro materie dopo la licenza elementare, ottenuta la licenza media intendeva proseguire negli studi, l’altra, per cui bastava la licenza elementare per l’ammissione, era scelta da chi era invece intenzionato a mettersi alla ricerca di un lavoro dopo la scuola media. È proprio quest’ultima ‘minore’ licenza che consente a Ciro di venire assunto all’Alfa Romeo come operaio.

Dopo una lunga scena famigliare catartica finale, sulla falsariga di quella che potremmo chiamare ‘tragedia greca’, che evidenzia la scomposizione della famiglia in diverse storie individuali, c’è l’incontro davanti all’Alfa Romeo, nella pausa pranzo, tra Ciro e il fratellino Luca che si conclude con le parole di Ciro che lo invita a costruirsi il suo futuro individuale anche al costo dei legami famigliari e che appaiono come una contestualizzazione socio-politica della vicenda famigliare delineata nel film.

La parola “Fine” si sovrappone ad un campo lungo sui viali ancora vuoti di traffico e sui caseggiati lontani della periferia milanese di allora.

Le percezioni spaziali dell’abitare: la città sradicata (Geography Notebooks, Vol.4/2, 12/2021)

Già il titolo appare intrigante per chi ha interesse per la geografia: La città sradicata. L’idea di città attraverso lo sguardo e il segno dell’altro (Pezzoni, N. 2020. ObarraO-Ibis edizioni, seconda edizione ampliata). Non per caso la prefazione è stata scritta dal geografo Franco Farinelli. E la città, nel suo complesso e articolato rapporto tra esseri umani e spazio, sia ‘naturale’ che costruito, è il terreno di studio di molte ricerche empiriche e di molti ragionamenti teorici della geografia sociale. Non solo perché mediamente ormai più della metà della popolazione mondiale è urbanizzata, ma soprattutto perché la fissità dello spazio costruito risponde a un bisogno umano di stabilità del vivere largamente sentito individualmente; però tale bisogno pone vincoli e confini al bisogno di cambiamento che c’è in tutti anche se praticato da una minoranza. Un cambiamento che diventa una necessità per quegli umani che non hanno più o non sentono di avere più uno spazio dove (soprav)vivere. E che, con un poco di provocazione intellettuale, inserisco nel rapporto-conflitto storico ed evolutivo tra nomadismo e sedentarietà. Tra un abitare stabile e un abitare con un rapporto flessibile con il territorio. La provocazione intellettuale è stata sollecitata dal fatto che già nella prima pagina dell’introduzione si pone come riferimento concettuale centrale “quell’abitare senza abitudine [in corsivo nel testo] […] come un’impronta a cui attingere nella costruzione d’un vivere collettivo fondato sull’apertura all’altro da sé” (21). Nell’articolo RiMaflow autogestita presente in questo fascicolo ho già affermato che approccio etico soggettivo di chi fa ricerca, contatto diretto con spazio fisico e esseri umani, capacità (anche creativa) di cogliere costanti e variabili nelle dinamiche spaziali, sono quegli elementi necessari per fare un’analisi socio-territoriale utile non solo per ‘capire’ un territorio umanizzato, ma anche per avere strumenti per cambiarlo per il meglio e con il coinvolgimento il più ampio possibile di chi ci vive. Una capacità che sappia uscire dagli schemi “per cogliere la dissomiglianza, la deviazione rispetto alla norma che fa spicco e che si imprime nella mente” come dice a pagina 61 la citazione di Ernst H. Gombrich (1978. ‘La maschera e la faccia’, in Gombrich E.H., Hochberg J., Black M., Arte, percezione e realtà. Come pensiamo le immagini. Einaudi. Torino).

Sono elementi che, con altri ancora, si trovano tutti in questo libro, risultato di una lunga e articolata ricerca sul campo che ha avuto come centro di attenzione i migranti appena arrivati in città (prima Milano, poi Rovereto e Bologna). Lo scopo della ricerca è stato capire quale mappa mentale si costruisce nella mente di chi vive nella città “dove insediarsi non equivale a radicarsi” (22) e se è in qualche modo confermata l’ipotesi dichiarata “che la condizione di instabilità […] sia connaturata all’abitare contemporaneo” (23). “Nell’osservare la città, i migranti vi posano uno sguardo che appare incontaminato rispetto alle riproduzioni codificate della geografia urbana” (24); la non casualità della prefazione di Farinelli deriva anche dal fatto che l’autrice, in particolare nel secondo capitolo, sposa e cita (72-74) la nota critica di Farinelli alla ragione cartografica in cui “ciò che appare prende il posto di ciò che è” (Farinelli, F. 1992. I segni del mondo, immagine cartografica e discorso geografico in età moderna. Firenze: La Nuova Italia, 165) e “la cui positivistica assunzione ha impedito alla geografia umana una funzione conoscitiva in senso critico-ascientifico” (74). Così gli spazi percorsi dai migranti (soprattutto quelli arrivati da poco) evidenziano “il segno dei confini, che lacerano il territorio tentando di imporre l’immobilità in un’epoca connotata dal movimento” (25).

La condizione del migrante, soprattutto se illegale, è fortemente e dinamicamente spaziale: da un lato per le umane necessità fisiche quotidiane, che sono concrete e (indissolubilmente?) legate allo spazio e/o dipendenti dallo spazio, e dall’altro perché le relazioni con i diversi individui e gruppi umani sono necessariamente ‘ingabbiate’ (264-267) dalla conformazione dello spazio e dalle regole sociali del suo vissuto: il genre de vie inteso in senso articolato, alla Reclus. Il vivere del migrante è “un abitare privo di quel diritto di avere diritti” (25, riferimento in nota a Rodotà, S. 2012. Il diritto di avere diritti. Roma-Bari: Laterza) e l’autrice dichiara apertamente che “l’esperimento proposto [… è un] tentativo di superare la prerogativa del potere sull’altro che da sempre divide chi appartiene – a un territorio, a un diritto, a un sistema – da chi è escluso” (25). Nella speranza di riuscire a stimolare un dibattito che scardini “la condizione segregata […] residenziale, intellettuale, professionale, scolastica…” (26) che però non solo è comune a tutti i migranti, ma anche a tutti noi cittadini come conseguenza delle operazioni ‘cartografiche’ dello zoning e anche del selfcaging non voluto (auto-zoning forzato dipendente dal reddito) e voluto (‘scelta’ di vicinanza fisica con i simili per stile di vita).

L’osservazione del gesto del migrante, che nel momento in cui disegna la sua mappa mentale della città manifesta una appropriazione conoscitiva (330-333) che consente di attingere “a diversi gradi di libertà” (30), può spingere a riprendersi la libertà di pensare in modo più dinamico e aperto; non a caso l’ultimo capitolo del libro si intitola “Aperture” sia perché “si propone di generare attraverso il gesto dell’altro un nuovo spazio etico a fondamento della città” (30) sia perché auspica che questa ricerca ne produca di nuove, diverse, ‘altre’. Intendendo l’abitudine non solo come la pratica umana e naturale del selfcaging, ma anche l’acritica accettazione di consuetudini e di norme e regolamenti cittadini, l’abitare senza abitudine è strettamente connesso a quel diritto per cui “si deve poter abitare sempre e ovunque” (Gabellini, P. 2010. Fare urbanistica, Roma: Carocci, 26), che è un modo essenziale e conciso di dire quello che afferma l’articolo 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

A pagina 32 l’autrice riconosce un ruolo alla geografia nelle “contaminazioni” che hanno contribuito alla definizione della ricerca e del suo approccio. Nella parte in cui delinea la struttura del libro (27-30) c’è il riconoscimento dell’ampio valore strumentale d’analisi della mappa mentale, che è da tempo acquisito anche tra i/le geografi/e, e in particolare quelli/e che si interessano di didattica e la usano con i propri studenti. Così si afferma la perdurante validità del lavoro di Kevin Lynch (Lynch, K. 1960. The image of the city, Cambridge: MIT Press) come griglia di supporto al lavoro preparatorio, alla strutturazione e all’analisi dell’esperienza. Rimangono validi gli “oggetti urbani” di Lynch (riferimenti, luoghi dell’abitare, percorsi, nodi, confini), la cui trasposizione e reinterpretazione ha fatto da struttura alla rappresentazione grafica a cui sono stati chiamati i migranti nel momento in cui l’intervista dinamica li invitava a costruire la mappa mentale della loro esperienza spaziale nella città. La giustificazione metodologica delle ragioni del modo di operare è nel terzo capitolo. Nel quarto capitolo sono riprodotte settanta delle cento mappe rilevate dalla ricerca. Voglio sottolineare la particolarità di questa esperienza e cioè che la scelta di coinvolgere gli immigrati da poco punta a far ripensare l’attualità del vissuto “senza voltarsi indietro verso le proprie origini” (28). In questo vi leggo l’andare a cercare il senso profondo di umanità prima e oltre le costruzioni iconografiche della propria singola esperienza culturale. E infatti l’analisi delle mappe del quarto capitolo va a interpretare le “diverse attribuzioni di senso” che emergono dai cinque oggetti urbani di Lynch. Nel quinto e sesto capitolo si riproduce una scelta delle mappe mentali ottenute dall’esperienza ripetuta a Rovereto e Bologna e, infine, nel settimo capitolo si confrontano le ipotesi dei capitoli d’apertura con gli esiti della ricerca.

La visione anticipatrice del ‘kilometro zero’ in Kropotkin (Geography Notebooks, Vol.4 /2, 12/2021)

Campi, fabbriche, officine del geografo Piotr Kropotkin (1975. Colin Ward a cura di. Edizioni Antistato) è uno dei libri più ‘pratici’ di riferimento del pensiero anarchico, risultato di alcuni articoli (scritti tra il 1888 e il 1890) raccolti in un libro nel 1899, il quale ebbe molte riedizioni rivedute e ampliate prima della Grande Guerra. Amico del geografo anarchico Elisée Reclus, considerato da alcuni come il fondatore della geografia sociale (Errani P.P., a cura di. 1984. L’Homme. La geografia sociale, Milano: Angeli), Kropotkin è morto nel 1921 (e proprio nell’anno della stesura di questo testo ricorre il centenario della sua scomparsa (https://kropotkin2021.com). Colin Ward, ‘architetto’ (non laureato) e attivista spaziale ‘in azione’ (1973. Anarchy in action), nel 1974 interviene sul testo originale: riduce abbondantemente la grande massa di dati presenti e lo ristruttura in quattro capitoli alla cui fine, di volta in volta, fa un commento comparativo con la realtà socio-economica degli anni Settanta. Ne sottolinea continuità (molte), discontinuità (poche) e sostiene le proposte pratiche di Kropotkin che avevano, a suo giudizio, una validità per il presente (suo di allora) e per il futuro, ovvero il nostro presente. Per misurare l’attualità delle intuizioni di Kropotkin e la sua presa sul futuro è utile Il principio territoriale di Alberto Magnaghi (2020. Torino: Bollati Boringhieri).

Colin Ward nell’introduzione all’edizione inglese sottolineava che l’analisi e la visione futura di Kropotkin, talvolta profetiche, erano state elaborate in un mondo in cui l’elettricità, l’automobile, il cinema e il telefono erano ancora ai primi passi e non erano ancora stati inventati la radio, la televisione e l’aeroplano; inimmaginabili computer e smartphone. Il commento editoriale dell’edizione del 1919 sottolineava che i bisogni mondiali andavano aumentando e che le risorse della Terra non erano inesauribili. Consapevolezze che solo recentemente si stanno consolidando tra gli economisti del modello di sviluppo occidentale.

Con enorme dovizia di esempi concreti e con dati precisi, Kropotkin mostrava come l’utopia fosse possibile perché era già praticata in molti luoghi e che bastava seguire quegli esempi positivi, allargandone la scala, ma mantenendo la caratteristica di rete flessibile di una federazione di comuni autonomi e di unità produttive integrate (agricoltura-industria) localmente.

Nel primo capitolo, dedicato all’industria, Kropotkin vagheggia un futuro positivo se centrato sull’integrazione invece che sulla divisione e specializzazione del lavoro; egli immagina “una società dove ciascun individuo produca sia lavoro manuale sia lavoro intellettuale” (34), […] “una società riorganizzata […] dovrà trovare la maniera migliore per combinare l’agricoltura con l’industria […] e dovrà provvedere all’istruzione integrata, la quale istruzione soltanto, insegnando sia la scienza sia l’abilità manuale sin dalla prima infanzia, è in grado di dare alla società gli uomini e le donne di cui questa ha realmente bisogno.” (35).

Ma Colin Ward ricorda invece cosa è avvenuto e cioè il rapporto squilibrato tra Nord e Sud del mondo e Stati diventati specializzati in certe produzioni agricole o industriali, e noi oggi siamo testimoni della realtà consolidata della delocalizzazione produttiva che ha fatto della Cina la ‘fabbrica del mondo’ e Taiwan e Corea del Sud i principali produttori di microprocessori per le necessità tecnologiche avanzate mondiali. Specializzazioni possibili per “la rapidità e la crescente capacità di trasporto via mare” che Kropotkin già intuiva (36).

Del secondo capitolo dedicato all’agricoltura, in cui subito Kropotkin critica le tesi di Malthus sul pericolo della sovrappopolazione, vale la pena di sottolineare come l’autore descrive le esperienze sue contemporanee di produzione orticola commerciale (103-117) che hanno una valenza profetica se si considerano gli esempi delle produzioni odierne olandesi o delle aree semidesertiche dell’Almeria spagnola, diventate ‘l’orto’ in serra dell’Europa. Kropotkin fa una semplice osservazione che ha valore ancora di più oggi e cioè che i cittadini ignorano del tutto come fisicamente si produce quello che mangiano (121-122).

Anche Colin Ward rileva che l’aumento possibile della produzione agricola, soprattutto di frutta, verdura e legumi, vagheggiata da Kropotkin, sia ai suoi tempi normale. Riprende poi e sottolinea le preoccupazioni ambientali kropotkiniane che negli anni Settanta del Novecento cominciano a essere denunciate come problemi ecologico-ambientali (134-135) su cui sarebbe stato necessario intervenire subito tramite creatività e ricerca per lo sviluppo della tecnologia alternativa che punta al “soddisfacimento dei bisogni umani attraverso l’impiego di risorse rinnovabili” (56).

Viene infine evidenziata la continuità con le preoccupazioni di Kropotkin circa l’eccessivo e pericoloso sviluppo di una agricoltura industriale ipermeccanizzata, confermata dai dati della riduzione di popolazione delle campagne e dei lavoratori nel settore (136-137).

Nel capitolo terzo Kropotkin sottolinea e apprezza la resilienza delle officine e delle piccole industrie, preconizzando per loro la capacità di sopravvivere al processo di concentrazione industriale che gli economisti di allora indicavano come un processo totalizzante e inevitabile. L’esempio italiano della diffusione delle PMI (Piccole e Medie Imprese) e della loro presenza maggioritaria nel nostro tessuto produttivo ne può essere un valido esempio. Però Kropotkin sognava il suo “piccolo è bello” (come titola il famoso libro di Schumacher del 1973 Small is beautiful) nella forma di una diffusione decentrata della produzione industriale a servizio delle necessità di una agricoltura tecnologicamente efficace che prevedeva la possibilità dei lavoratori di cambiare mansioni alternando il lavoro in fabbrica con quello dei campi (174-176). Per questo ho usato il verbo ‘sognare’. Significativo poi che già si descrivessero le pratiche di pirateria finanziaria di acquisto di fabbriche o di fusioni con l’intento di spezzettarle e/o venderne le proprietà in lotti separati. Infine Ward rileva la tendenza alla progressiva concentrazione urbana globale della popolazione che è un potente meccanismo in contrasto a ciò che auspica Kropotkin: “è necessario decentrare anziché centralizzare” (189).

L’ultimo capitolo ristrutturato da Colin Ward è dedicato all’istruzione integrale (35 e da 199 a 206). Nella sua visione integrata della società Kropotkin sottolinea come molte invenzioni non siano il risultato di studi accademico-teorici, ma provengano dalla straordinaria capacità di osservazione pratica di alcuni esseri umani particolarmente in grado di mettere a frutto capacità comuni a tutti: con una istruzione integrale l’autore è convinto che si favorirebbero la consapevolezza e un maggiore uso di tali diffuse capacità.

Kropotkin ‘sogna’ (208-210) un mondo che sostanzialmente è fatto di ciò che oggi chiamiamo start up e di crowdfunding. Quando Kropotkin indica quali problemi dovrebbero poter essere affrontati con nuove invenzioni future Ward, in un suo inciso, indica che nel suo presente sono già state inventate. Questo capitolo, in cui si parla di lavoro intellettuale e manuale da integrare nella vita quotidiana e non solo nel lavoro, si conclude con una visione di una possibile società armonica futura.

Nelle conclusioni il positivo e fiducioso Kropotkin ancora una volta ‘sogna’, sulla base di esempi precisi e concreti del suo tempo, una società autosufficiente (un sostanziale ‘kilometro zero’, si potrebbe dire oggi) che si fondi sul lavoro manuale coordinato e variato a cui sin da giovani si è stati abituati intellettualmente (224). Da bravo utopista ottocentesco il finale del libro è evocativo. Del poscritto editoriale vale la pena ricordare le parole di Colin Ward molto attuali nel nostro presente di 50 anni dopo: “Negli ultimi dieci anni noi ci siamo resi sempre più conto che c’è una crisi dell’ambiente naturale, una crisi delle risorse, dei consumi, della popolazione. […] Il fatto incontrovertibile è che le risorse del mondo sono limitate, […]”.

Rimaflow autogestita. Un esercizio di geografia sociale (Geography Notebooks – Vol.4/2, 12/2021)

1 – Etica individuale e interessi di ricerca. Come procedere.

Il/la geografo/a interessato/a alla geografia sociale in qualche modo è pre-coinvolto/a eticamente-emotivamente nelle sue tematiche e quindi ‘sceglie’ secondo questa precondizione il caso o il campo della ricerca. L’osservatore non è esterno al campo.

I geografi anarchici Elisée Reclus (1830-1905), considerato da alcuni il fondatore della geografia sociale, e Piotr Kropotkin (1842-1921) sono stati due esempi espliciti di tale interconnessione tra motivazioni etico-ideali e argomenti trattati nei loro scritti. La prefazione della Nouvelle Geographie Universelle (1874) e L’Homme et la Terre (1905-08, 1990) di Reclus, e i testi di Kropotkin Campi, fabbriche e officine (1974) e La conquista del pane (2012) sono ancora oggi utili letture.

Quello che accomuna i due autori, e che è fondamentale per un/a geografo/a, è la capacità di osservare lo spazio vissuto, cioè l’interazione tra fisicità e umanità, sapendone trarre un quadro interpretativo che dà ragione sia delle forme di quello che si osserva che dei comportamenti degli umani che vi vivono. Le loro pagine, spesso apparentemente ‘descrittive’, sono invece paragonabili a dei video documentari commentati.

In generale la conformazione fisico-climatica di un territorio naturale, senza voler essere deterministi, orienta le relazioni sociali perché per la sopravvivenza, per la frequenza dei contatti e per gli spostamenti  pone vincoli di possibilità e di tempi di percorrenza. Negli spazi urbani sembra che questi  vincoli siano ridotti o meno influenti, ma non è del tutto così. Anche se gli spostamenti sono più facili e i luoghi di incontri di socializzazione sono più numerosi e frequenti, gli elementi da considerare geograficamente sono due: 1) la densità umana è un fattore fisico che facilita le forme di incontro e di socializzazione, ma in parte anche le ‘obbliga’, le confina, le orienta; 2) gli elementi dello spazio costruito sono fortemente condizionati dalla logica della proprietà privata/pubblica e dell’economia per cui gli spazi liberi a disposizione per la socialità sono meno di quelli che vengono percepiti o raccontati e sono anche più condizionati. C’è però anche un fattore da considerare, che Reclus e Kropotkin sottolineano, e cioè che c’è sempre la possibilità dell’individuo di fare scelte che rompano gli obblighi e travalichino i confini e il ricercatore ne deve tener conto nel momento della sua sintesi interpretativa: quello che osserva è il risultato di scelte e non un dato ineluttabile.

Ne consegue che per una ricerca in spazi urbani le prime cose che vanno considerate sono la struttura e le forme del costruito, sia del contesto (area, zona) sia del luogo o luoghi specifici che si intendono analizzare. Ma in questi contesto e luogo vanno cercati e compresi gli atti umani consapevoli e non, dei singoli e dei gruppi.

Se per i giornalisti ci sono le cinque W (Who, What, Where, When, Why) lo stesso vale per i/le geografi/e e in particolare per chi pratica la geografia sociale; ma il primo passo è il Where-Dove. Perché il territorio e il costruito raccontano. E’ buona regola vedere di persona lo spazio o il territorio che si intende analizzare e su cui poi si vuole raccontare o scrivere. Si parte necessariamente dal Where-Dove perché già questo comincia a far percepire la soggettività del Who-Chi.

Per capire meglio il racconto del territorio sarebbe utile (e necessaria) una infarinatura di pratiche agricole (es.: saper riconoscere colture intensive e industrializzate dalle dimensioni e dalle forme dei campi) e di architettura (es: saper identificare i periodi storici di alcuni stili e forme, saper comprendere riconoscere/notare le differenze tra costruzioni ‘povere’ e di pregio).

Non sempre e ovunque è possibile andare di persona; si possono fare ricerche di buon livello e interessanti anche senza aver visto direttamente il luogo di cui si parla, ma alla lettura dei testi bisogna affiancare la visione di foto, di documentari; anche film e fiction sono utili se si osservano più lo spazio di contesto e gli elementi fisici che gli sviluppi della storia. Però l’osservazione diretta è necessaria proprio per dare senso e concretezza a quell’aggettivo ‘sociale’ che viene aggiunto e che in un certo senso vincola chi fa ricerca. Perché “la mappa non è il territorio” (aforisma di Alfred Korzybski, 1879-1950, padre della semantica generale).

Ci possono essere temi che investono ampi spazi e gruppi umani diversi, ma almeno una parte della ricerca, anche se piccola rispetto all’insieme, deve essere il frutto di una esperienza personale diretta e fisica: di un contatto.

Reclus indicava tre ‘leggi’, cioè realtà costanti delle dinamiche umane, e cioè:1) la tendenza dei gruppi umani a strutturarsi in modo gerarchico nel tempo, 2) l’incontenibile aspirazione alla libertà personale dell’individuo, 3) il continuo movimento di reciproco bilanciamento/confronto (lotta, diceva lui) tra queste due forze contrapposte nelle dinamiche umane nello spazio.

Quindi lo spazio è il campo dove queste costanti si manifestano e ne è il risultato; i segni visibili nello spazio fanno capire ad un osservatore attento (e/o motivato) il tipo di rapporti di forza presenti e anche, negli spazi urbani, qualcosa dei rapporti di forza del passato grazie ai segni tangibili che sono rimasti. Gli esempi estremi di questo campo di forze sono la foresta primaria che ci dice che in mancanza di umani è la spontaneità biologica che determina i rapporti di forza, mentre gli spazi urbani e le forme del costruito sono l’esplicitazione dei rapporti di forza (politici e/o economici) tra gli umani, tra le spinte gerarchiche e la voglia di libertà individuale.

Ma in pratica come procedere? 1) Osservare, 2) notare costanti (cose che si ripetono) e varianti (cose diverse dal contesto e/o particolari/inaspettate), 3) comparare (con altri contesti conosciuti e/o con il proprio sapere teorico), 4) ipotizzare una interpretazione/visione da verificare con ulteriori ricerche e approfondimenti per arrivare ad una sintesi conclusiva (la propria tesi).

Può essere utile talvolta partire da una ipotesi interpretativa, anche solo da un’idea generica e solo abbozzata, che poi viene verificata dalle operazioni indicate. Se si è aperti all’accettazione anche della confutazione dell’idea di partenza.

Nell’analisi delle dinamiche in ambito urbano vale la pena di partire dalla visione della carta-mappa per cercare di capire la struttura dell’abitato, cioè dalle forme delle vie (regolari, irregolari, miste, ecc.) quali fasi di espansione o costruttive si sono succedute; è molto utile comparare mappe storiche dello stesso luogo.

Aver letto di storia urbanistica specifica aiuta, come pure avere qualche nozione visiva di stili architettonici storici (le riviste [storiche] di architettura sono utili da sfogliare). Ma può anche bastare osservare con attenzione e sistematicamente edifici, palazzi, ville, villette, costruzioni commerciali e produttive per accumulare conoscenze visive comparabili.

La visione delle mappe porta ad un abbozzo di quadro interpretativo che va confrontato con la visione diretta del contesto urbano della realtà su cui si fa la ricerca. Una realtà che ha aspetti fisici fissi (costruzioni, spazi, oggetti negli spazi, estetica degli spazi) e umani che vi agiscono e con cui interagiscono.

Si va sul posto osservando prima il contesto (prendendo nota, meglio con foto/video), poi si osserva il luogo specifico della realtà che si intende analizzare e infine ci si rapporta con i soggetti umani interessati. Da ricordare, nel momento dell’interpretazione e della sintesi,  che l’osservazione dello spazio fisico è condizionata dalla nostra percezione e che anche la narrazione dei soggetti umani con cui abbiamo relazioni (per esempio interviste) è condizionata dalla loro e dalla nostra percezione. Osservatore e osservato non sono esterni al campo.

2 – Il contesto e l’osservazione

Nel caso di studio in questione le visite esplorative e le conoscenze teoriche pregresse di chi ha fatto la ricerca hanno dato il seguente quadro interpretativo, che può essere comparato con altre situazioni urbane:

– le periferie disordinate sono il risultato di un processo graduale di costruzione nel tempo di edifici di vario genere;

– gli spazi pubblici (e la loro pianificazione) sono compito dei comuni e quindi il ‘disordine’ è anche loro responsabilità politico-amministrativa;

– i privati non hanno obblighi sociali per gli spazi pubblici; devono solo seguire le indicazioni e rispettare i vincoli decisi dall’amministrazione pubblica per quanto riguarda l’estetica, le dimensioni, ecc., di quanto realizzano;

– un aspetto specifico del sistema delle tangenti nel settore delle costruzioni era/è quello mirato ad ottenere norme e/o regolamenti favorevoli da parte dei politici locali o di avere un atteggiamento ‘comprensivo’ nel controllo del rispetto di tali regole (o di non avere nessun tipo di controllo);

– anche se con un sostanziale rispetto delle regole municipali, dagli anni Sessanta del XX secolo le periferie di Milano sono diventate sempre più disordinate con gli spazi occupati e costruiti a favore degli interessi immobiliari e della speculazione fondiaria;

– dalla fine degli anni Settanta i ceti a basso reddito sono stati obbligati a lasciare Milano e trasferirsi dal centro nelle  aree periferiche e nei comuni intorno alla città per potersi permettere di affittare o acquistare casa a prezzi  abbordabili, provocando un pesante impatto ‘costruito ‘ nell’uso dello spazio;

– il modo di usare il territorio è stato sostanzialmente simile per i piccoli comuni intorno a Milano. Piccoli rispetto a Milano, ma spesso più abitati di molti capoluoghi di provincia di altre regioni;

– l’espansione dell’urbanizzazione si è sviluppata lungo le principali e storiche strade di collegamento per e da Milano, principalmente con scopi commerciali e produttivi, poi residenziali;

– esteticamente questi assi di collegamento hanno sostanzialmente lo stesso aspetto con un misto di centri commerciali, luoghi di produzione (talvolta con ampie esposizioni della produzione sul fronte strada) e edifici residenziali che cercano di utilizzare al massimo la superficie di proprietà.

Tutto questo ha innescato un caging fisico (e ‘legale’):  la forma di parti giustapposte del costruito delle periferie, a seguito degli interessi immobiliari privati, è la gabbia concreta, fisica, che incasella  gli eventuali  sforzi di un (ri)uso sociale degli spazi urbani. In questo contesto il processo di delocalizzazione produttiva all’estero, la decrescita della produzione industriale nelle città occidentali (che ‘produce’ edifici e spazi urbani vuoti), può anche essere una opportunità creativa di un riuso sociale e socializzato dello spazio. Ma gli ostacoli  legali, amministrativi e mentali sono molti.

Nella fase dell’osservazione del contesto urbano specifico (Trezzano sul Naviglio, 21.000 abitanti, a sud di Milano) si è avuta la conferma visiva di questo quadro teorico:

– una volta occupati tutti gli spazi lungo la via principale secondo le modalità evidenziate il territorio è stato occupato costruendo lungo una serie di vie parallele (e perpendicolari) con gli stessi criteri, organizzati per blocchi sostanzialmente omogenei affiancati (residenziali, produttivi, artigianali, ecc.);  dalla fine degli anni ’90 c’è stata una maggiore, anche se tardiva, pianificazione urbanistica da parte del comune;

– gli spazi pubblici hanno potuto essere ricavati solo nelle aree marginali e/o negli interstizi a causa dei costi dell’esproprio per pubblica utilità, comunque troppo onerosi per l’amministrazione pubblica, a fronte invece degli introiti derivanti dagli oneri urbanistici conseguenti alla concessione dei permessi di costruire. A causa della mancanza di spazio (e di soldi) in tempi più recenti i comuni hanno avuto la possibilità solo di fare interventi limitati e estetici nelle pubbliche piazze (o nelle rotatorie stradali);

– recentemente la street art e i murales sono stati testimonianze degli autonomi (e quasi sempre illegali) sforzi di riuso e reinterpretazione creativa degli spazi fissi costruiti secondo una differente logica. Nell’area industriale di piccole fabbriche e/o produzioni artigianali (in parte inutilizzate al momento), che si trova vicino alla stazione della linea ferroviaria metropolitana di collegamento a Milano, la fantasia degli street artist ha trovato superfici disponibili che hanno consentito una variata, interessante e originale produzione visiva.

RiMaflow è (stata) un caso di studio molto utile e interessante di geografia sociale e cioè adatto per un/a geografo/a che genericamente ‘si sente’ portato/a per un certo tipo di tematiche sociali o che le sceglie per soggettivi orientamenti etico-ideologici. Una sua particolarità è quella di essere un esempio di ripensamento spaziale sia dell’interno di uno spazio (una fabbrica di discrete dimensioni) che delle relazioni con il mondo esterno, vicino e lontano. Il tutto in un quadro di visione sociale idealistica esplicitata degli attori umani che ne ha guidato e guida le scelte pratiche come anche l’approccio al territorio e agli spazi interni.

Fig. 01

Le motivazioni dell’occupazione all’ingresso della vecchia sede (foto dell’autore, 19 febbraio 2019)

3 – Il caso di studio

La Maflow di Trezzano sul Naviglio (produzione industriale per l’automotive) va in bancarotta nel 2009. C’è un anno di lotta contro la chiusura. All’asta nel 2010 si presenta l’imprenditore polacco Boriszew che ne gestisce l’attività per due anni e a dicembre 2012 la chiude trasferendo la produzione in Polonia: 330 licenziati. Resta UniCredit come proprietaria dell’area industriale dal 2007.

I dipendenti che la occupano decidono di autogestirla cambiando e diversificando le attività e anche le finalità. Per fare questo gli spazi interni vengono ripensati e non a caso l’esperienza viene chiamata RiMaflow; anche i rapporti con l’esterno cambiano, vogliono essere cambiati, e quindi gli spazi esterni vengono ripensati in un’ottica di relazione, di sostegno economico e sociale attivando legami con soggetti come i sindacati, associazioni varie, gli abitanti, ecc., e non più solo come logistica per i trasporti in entrata e in uscita da una fabbrica. I contatti cercati con l’amministrazione comunale, che dovrebbe essere tra i referenti privilegiati in quanto soggetto gestore pubblico del territorio, non danno gli esiti sperati e, anzi, sono stati un problema a prescindere dal colore politico della giunta.

Fin dall’inizio l’esperienza della RiMaflow si è configurata come una  ‘azione sociale prefigurativa’ con l’obiettivo di connettere e intrecciare le attività economiche con la comunità locale e non solo, offrendo servizi e cercando supporto e partecipazione: sono state organizzate visite degli scolari delle scuole elementari del posto, il proseguimento della mensa interna a prezzi contenuti, i capannoni sono diventati spazi per artigiani locali (es. restauro mobili, riparazione cellulari e computer),  produzioni artistiche, uffici per piccole società, stanze e ambienti per assemblee e conferenze,  aree per deposito e magazzinaggio, parcheggio coperto camper, addestramento cani negli spazi esterni; sono stati attivati accordi e sinergie con autogestioni, cooperative, associazioni in campo agricolo, artigiano, di produzione e servizi (locali e non solo);  collegamenti con i GAS (Gruppi di Acquisto Solidale).

Ma un tipo si  esperienza come questa è in conflitto sia con la struttura legale della società capitalista che con l’attitudine mentale del selfcaging sociale che accetta/subisce il caging spaziale di quella logica.  

In campo ci sono anche attori ‘forti’ che non si vedono direttamente nello spazio, ma che agiscono e incidono anche fisicamente:

– gli  interessi della proprietà (banca Unicredit , la seconda in Italia per importanza), che dopo il collasso finanziario di Maflow inizia un’azione legale per ottenere lo sgombero e poi la vendita dell’immobile (anche se nella zona sono molte le fabbriche chiuse, vuote da tempo e molte con cartelli di vendita);

– il tendenziale diverso approccio del consiglio municipale, che cambia a seconda dell’orientamento politico del sindaco e della maggioranza risultata dalle elezioni, anche se non in questo caso specifico;

– l’approccio mentale e ideologico della proprietà e delle autorità statali (prefetto) in merito a come fronteggiare l’illegalità dell’occupazione di una fabbrica.

L’esempio più eclatante è la denuncia e poi il carcere per il responsabile ufficiale  dell’associazione di gestione con l’accusa di riciclo illegale di  rifiuti riguardanti carta da parati e plastica che per RiMaflow erano materia prima seconda e non rifiuti; dopo 6 mesi e mezzo di detenzione preventiva con l’accusa infamante di associazione a delinquere finalizzata allo smaltimento illecito di rifiuti, Massimo Lettieri, presidente della Cooperativa RiMaflow in autogestione, l’11 maggio del 2019 viene scarcerato, ma le accuse rimangono. Avendo tutti gli altri imputati patteggiato, non c’erano le condizioni per andare a processo da solo: anni di dibattimenti e costi legali impossibili da sostenere, con l’aggravante di non poter neppure beneficiare degli sconti di pena disposti dal pubblico ministero. Un poster esposto a RiMaflow dice che “I poveri, anche quando hanno ragione, possono solo stare in galera! Massimo dovrà quindi scontare due anni in affidamento ai servizi sociali. Si tratta della pena più bassa tra tutti gli imputati, tuttavia per noi questa non è giustizia, è comunque un’infamia! “. Ci sono comunque le sanzioni e le spese processuali a cui far fronte  come Cooperativa, a cui sono stati sequestrati i beni.

Rispetto ad altre esperienze di occupazione e autogestione il gruppo dei lavoratori della RiMaflow, aiutati anche da sostegno esterno, hanno mostrato una significativa capacità dei lavoratori di auto-organizzarsi e di resistere economicamente e psicologicamente. Questo per sei anni.

Una soluzione infine viene trovata e significativamente è attiva dal 1 maggio 2019.

Dopo una negoziazione di alcuni anni tra la proprietà e l’associazione dei lavoratori, grazie alla mediazione di Saccone,  nuovo prefetto di Milano che ha avuto un diverso approccio al concetto di ‘(il)legalità’ di una occupazione rispetto a Lamorgese, si arriva ad un accordo il 28 novembre 2018 (con uno sgombero già attivato) per una pacifica de-occupazione della fabbrica entro pochi mesi.

Una nuova sede era già stata individuata dai lavoratori:  è uno dei due stabilimenti ex Maflow che era rimasto attivo fino all’anno precedente l’accordo (ossia 2017), molto più nuovo e non decrepito e da bonificare. Non era proprietà di UniCredit, ma di un privato. E’ stato acquistato dal Consorzio “Almeno 331” (ossia con l’obiettivo di arrivare a un operaio in più di quelli licenziati nel 2012) composto da Caritas, Fondazione Vismara, Associazione Chico Mendes e Cooperativa RiMaflow. Il presidente del Consorzio, Emilio Roncoroni, è lo stesso della Cooperativa RiMaflow Fuorimercato (nome attuale). La nuova cooperativa è entrata in parte con i fondi recuperati da UniCredit. Il consorzio gestisce un mutuo con Banca Etica per la quota rimanente. Cabassi e Bastogi non stanno nel consorzio, ma hanno acquistato una parte restante dell’immobile per un loro magazzino.

Conquistata la stabilità la sfida è ora muoversi nei nuovi spazi mantenendo gli obiettivi politici e le pratiche sociali attivate grazie anche ad  un nuovo statuto legale, una nuova cooperativa capace di (e autorizzata a) gestire molte differenti attività.

Attivisti ‘rivoluzionari’ potrebbero criticare questo risultato che è certamente un compromesso, ma  la disparità delle forze in campo è forte e ‘normalizzare’, cioè accettare/subire  il contesto legal-capitalistico della società, in questo caso può preservare una esperienza alternativa: da una Temporary (TAZ, Temporary Autonomous Zone, Bey 2020) ad una SAZ, una Stable Autonomous Zone, per affrontare la sfida della sopravvivenza. L’obiettivo iniziale principale era l’ottenimento di un posto di lavoro non in nero, ma a contratto come sono oggi, per chi non aveva niente ed era licenziato; un obiettivo raggiunto.

Però la nuova sede ha meno spazio rispetto alla precedente (così, per esempio, il rimessaggio dei camper e l’addestramento cani non sono più possibili, riducendo una entrata monetaria senza quasi spese di gestione).

Legalmente la dinamica di RiMaflow sembra risolta, ma il caging fisico e spaziale delle periferie disordinate è stabilmente attivo.
La distanza dall’asse di comunicazione principale è passata da 300 metri a circa 1 kilometro.

Tra la strada principale e la nuova sede ci sono pochi blocchi di ville individuali, generalmente abitate da persone politicamente non favorevoli a esperienze sociali come fabbriche occupate e/o obiettivi ‘socialisti’.

C’è una linea di autobus urbani, ma la posizione della nuova sede  rimane fisicamente e ‘mentalmente’ marginale, per il mix di ville, edifici industriali, poche attività commerciali, e edifici residenziali con poca densità abitativa.

4 – Nuovo contesto spaziale, nuove sfide per il futuro

Le sfide per il nuovo futuro nella nuova sede erano diverse. Fare in modo che la nuova collocazione fosse comoda e accessibile per la gente in modo da mantenere i collegamenti sociali attivati nella precedente sede. Ma con l’incognita se i nuovi legami socio-fisici (da attivare) sarebbero stati più o meno forti nel sostenere l’esperienza autogestionaria.  A questo scopo il 14 ottobre 2019 era stata lanciata una iniziativa pubblica per (ri)collegarsi al territorio vecchio e nuovo; altre iniziative erano programmate, sostenute dalla  determinazione di continuare a costruire legami sociali e un futuro condiviso. La pandemia Covid è stata un duro colpo, ma non ha ucciso l’esperienza. Però la chiusura forzata ha la limitato le relazioni sociali; ad esempio l’idea di usare la mensa anche come ristorante sociale ha dovuto confrontarsi con le chiusure imposte per limitare il contagio.

Nel 2020, con le attività di ristorazione chiuse e gli eventi cancellati, sono state stimate perdite pari a 160mila euro e i lavoratori a rotazione hanno usufruito della cassa integrazione.

Tra i progetti in cantiere, che la pandemia ha fermato, c’è l’idea di organizzare tirocini, insieme a enti territoriali e scuole professionali, con i professionisti che occupano la “Cittadella degli artigiani”,  l’altro capannone della struttura e seconda anima di RiMaflow.

La nuova cooperativa si è trovata ad avere un nuovo spazio interno dove continuare a mettere in pratica i principi etici che la ispirano, ma lo spazio esterno è stato modificato nelle possibilità di uso fisico; non è cambiata la struttura del costruito, ma è profondamente cambiato lo spazio della relazione tra umani e dello scambio economico.

In un articolo di Marta Facchini, pubblicato in data 13 aprile 2021 su Altraeconomia, si dà conto delle esperienze in corso e di cosa è stato fatto durante il 2020.

Quello che emerge è stata la continuità dell’approccio del ripensamento degli spazi interni ed esterni mostrata nella vecchia sede. La pratica di rapportarsi con associazioni e realtà produttive di base e autogestite, i contatti con i GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), la scelta di collegarsi alle reti delle iniziative solidali simili come quella di FuoriMercato si sono mostrate fondamentali e vincenti anche in una situazione pandemica.

[…] Le bottiglie di birra “La Comune 1871”, l’ultima novità lanciata da RiMaflow, sono conservate nel magazzino della fabbrica recuperata a Trezzano sul Naviglio (MI). Il capannone è uno dei cuori pulsanti dello stabilimento in via Verri: qui vengono stoccati i prodotti di FuoriMercato, organizzati sugli scaffali e poi suddivisi negli ordini che alimentano le botteghe e 70 Gruppi di acquisto solidale a Milano e provincia. Sui ripiani ci sono alcuni dei prodotti più noti della filiera autogestita alternativa alla Grande distribuzione organizzata: la vodka antisessista Kollontai, le confetture delle Cuoche Combattenti che arrivano da Palermo e le arance di Sos Rosarno. Da marzo 2021 si è aggiunta anche la nuova birra rossa, che segue “La Staffetta” e il liquore “Amaro partigiano”. Dice Luca Federici, che gestisce la produzione dei liquori RiMaflow: “Anche se le nostre produzioni sono esterne, sono condivise in ogni passaggio e abbiamo un rapporto continuo e diretto con chi le mette in pratica. RiMaflow pone sempre al centro la sua idea di lavoro in autogestione, fondata sul principio che l’autoproduzione è lo strumento per costruire un’economia e una politica diverse”.[…]

[…]  nuovi prodotti sono stati pensati anche per ripartire dopo un anno difficile, così come l’idea di rafforzare il settore dei servizi, ovvero la parte di RiMaflow che si occupa di gestire lavori per conto terzi.[…]

[…] “La nostra idea è aprire un hub del cibo”, dice [Spartaco] Codevilla [socio fondatore]. Il progetto affonda le radici in quanto successo nel primo lockdown di marzo e aprile 2020 quando questi stessi spazi sono stati utilizzati per stoccare i generi alimentari distribuiti a persone e famiglie in difficoltà nei quartieri di Lorenteggio e Giambellino nell’ambito del progetto QuBì, il programma contro la povertà infantile finanziato da Fondazione Cariplo e sostenuto dalla Fondazione Peppino Vismara e dal  Comune di Milano. “Di fronte a una crisi non più congiunturale ma strutturale, abbiamo iniziato a riflettere sulla necessità di aprire un hub permanente insieme alle realtà con cui abbiamo collaborato in quella fase dell’emergenza sanitaria”. La struttura, dove stoccare e conservare generi alimentari per sostenere persone in difficoltà, sarebbe ricavata in una parte del capannone che da marzo di quest’anno è condiviso anche con la cooperativa Chico Mendes, giunta anche lei in via Verri, che a Milano tra le tante altre cose opera in sette botteghe del commercio equo.[…]

[…] Francesco Costa, artigiano [N.d.A.: che ha trovato in RiMaflow lo spazio fisico per la sua attività], dice: “Mi alzo la mattina e sono felice di andare a lavorare. L’autogestione è il nostro punto di forza perché ci coordiniamo e non abbiamo ‘padroni’ che ci dicono che cosa fare. Per me questo posto è tutto, è una casa”.[…]

Visto che la parola economia deriva dall’unione delle parole greche oikos, casanomos, norma o legge,  significa quindi ‘gestione della casa’, nelle parole di Costa c’è lo spazio etico e lo spazio fisico.

C’è stata la capacità di immaginare lo spazio: uno spazio base in una rete di spazi fisici e’umani’ dove non è tanto quello che si produce il collante, ma come si usa lo spazio e come si produce, di conseguenza. Come nelle già citate descrizioni e riflessioni di Reclus e Kropotkin più di cento anni fa, che possono essere trovate e sono sviluppate anche in testi recenti come Il principio territoriale di Alberto Magnaghi (2020) che dal 1990, per elaborare le sue proposte, ha lavorato in sinergia anche con geografi come Giuseppe Dematteis (2018) e Massimo Quaini (2017).

E’ la relazione dinamica con la parola autonomia (io stesso mi do le regole) che aumenta la capacità consapevole di pensare gli spazi in modo flessibile e magari anche creativo. Gli spazi che ci sono già, così come sono,  perché è con questi che ci si deve confrontare e che possono essere un bel campo di ricerca per chi vuole ‘praticare’, in tutti i sensi, la geografia sociale.

Riferimenti bibliografici

Bey, H. 2020. TAZ. La Zona Autonoma Temporanea.  Milano: Shake.

Dematteis, G., Magnaghi A. 2018.  “Patrimonio territoriale e coralità produttiva. Nuove frontiere per i sistemi economici locali”. Scienze del Territorio 6: 12-25. [20/12/2018]. Doi:  https://doi.org/10.13128/Scienze_Territorio-24362.

Facchini, M. 2021. “RiMaflow si muove: i progetti in corso della fabbrica recuperata di Trezzano sul

Naviglio”, Altraeconomia. [13/04/2021]. https://altreconomia.it/rimaflow-si-muove-i-progetti-in-corso-della-fabbrica-recuperata-di-trezzano-sul-naviglio/

Kropotkin, P. 1974.  Campi, fabbriche e officine. Ward C., a cura di. Milano: Edizioni Antistato.

Kropotkin, P. 2012.  La conquista del pane . Anzio-Lavinio: Ortica.

Magnaghi, A. 2020. Il principio territoriale. Torino: Bollati Boringhieri.

Quaini, M. 2017. ”Il ‘Dizionario delle parole territorialiste’. Un progetto non più rinviabile”, Scienze del Territorio 5:  261-72.

Reclus, E. 1905-08.  L’Homme et la Terre.  Paris: Librairie Universelle. (5 volumi)

Reclus, E. 1990. L’Homme et la Terre. Paris: Fayard. (2  volumi). Reclus, E. 1874.  Nouvelle Geographie Universelle. Paris: Hachette. Prefazione.