Il cosiddetto “dopo Hamas” a Gaza: che fare? (19nov2023)

19 novembre 2023 – testo del podcast pubblicato su Spreaker, Spotify e Youtube

Mentre procede la sistematica distruzione di case e l’occupazione del territorio di Gaza da parte dell’esercito israeliano, a livello dei soliti pochi che decidono le sorti geopolitiche mondiali qualcuno ha cominciato domandarsi cosa fare a Gaza per il “dopo Hamas” e quali attori potrebbero prendere il controllo della situazione.

Intanto, come geografo, devo partire dalle condizioni concrete sul terreno che si possono prevedere quando Israele deciderà  che “Hamas è stato eliminato”.

E qui cominciano le note dolenti. Hamas non si può eliminare fisicamente; si possono distruggere fisicamente i bunker sotterranei e molti tunnel, chiuderne gli accessi, ma certo non tutti. Comunque non è questa l’essenza di Hamas. Che è una entità che nasce e dipende dalle persone e non dalla potenza delle armi. L’ideologia di Hamas, l’islam politico, continuerà a vivere nei dirigenti che oggi non si trovano a Gaza, nel sostegno ideale e religioso che ha nei diversi stati del mondo arabo-musulmano e soprattutto nel numero consistente di nuovi volontari miliziani fatti da tutti quei giovani maschi palestinesi che in questi e nei prossimi giorni hanno visto la propria casa distrutta, i propri parenti (genitori, mogli, fratelli e sorelle, figli) e amici uccisi dai bombardamenti israeliani.

A Gaza si può stimare che ci siano circa 300mila giovani maschi palestinesi tra i 18 e i 30 anni e penso che sia concretamente possibile che il 10% possa voler vendicarsi con le armi contro qualsiasi ebreo israeliano; anche con le intollerabili modalità usate il 7 ottobre dai miliziani di Hamas e degli altri più piccoli gruppi che hanno agito con loro tipo la jihad islamica locale.

Questo implica che quello che viene delicatamente definito “controllo della sicurezza” a Gaza, e cioè la capacità di controllare le persone e impedire che in futuro si riformino gruppi armati, dovrà essere fatto da soggetti contrari all’islam politico che non abbiano remore a reprimere, anche con la forza, miliziani e attivisti di quel campo.

E tutto questo in un contesto di distruzione di case e di infrastrutture di ogni tipo: non solo edifici e strade, ma anche centrali elettriche, tubature dell’acqua, fognature, connessioni elettriche eccetera; oltre alla devastazione psicologica, soprattutto nei bambini, che le bombe e l’esodo forzato a piedi o su carretti hanno provocato nella popolazione di Gaza.

Per riportare il contesto fisico di Gaza ad una condizione di vita appena passabile ci vorrà tempo, anni, e soldi, molti soldi. Quindi un controllo prolungato del territorio dal punto di vista amministrativo e politico abbinato, come già detto, ad un controllo militare della situazione.

Checché ne dica Netanyahu, e sempre che il suo destino politico non sia alla fine, Israele non potrà restare a Gaza per anni a controllare militarmente e reprimere, come fa dal 1967 nella Cisgiordania. E soprattutto non potrà (e credo non vorrà) amministrare Gaza; gli costerebbe troppo in termini economici e soprattutto geopolitici. Già ora le migliaia di morti sotto i bombardamenti, fatti in maggioranza da minori e donne, in continua crescita, stanno minando il sostegno occidentale di cui gode e perfino negli Stati Uniti, la cui opinione pubblica è da decenni stabilmente dalla sua parte qualunque cosa faccia. E nel mondo arabo-musulmano anche gli stati che hanno sottoscritto gli Accordi di Abramo riconoscendo diplomaticamente Israele, penso che saranno in qualche modo costretti quantomeno a sospenderli se non a rigettarli del tutto.

Chi allora?

Prendo atto, a prescindere dai miei desideri e principi etici, che il contesto geopolitico mondiale non è democratico e chi decide sono sempre pochi leader di stati ricchi e potenti militarmente. Mai più di 10; alcuni governi sempre presenti a livello decisionale, Stati Uniti in testa, e altri coinvolti a seconda di dove si trova geograficamente la crisi.

Quindi le condizioni ineludibili mi sembra che siano sono queste quattro:

1) Israele deve accettare (cioè fidarsi almeno un poco) che soggetti terzi siano presenti con proprie truppe a Gaza;

2) gli stati che forniscono i militari devono essere solidi economicamente (per mantenere truppe per anni) e ideologicamente contrari all’islam politico di Hamas e di gruppi come la jihad islamica e/o al Qaeda e simili; devono essere anche “credibili” militarmente, e credibili significa che abbiano dimostrato le proprie capacità militari sul terreno, cioè in qualche conflitto armato concreto.

3) bisogna che arrivino molti fondi e per anni per ricostruire le condizioni fisiche di una vita civile;

4) il governo di Gaza deve essere solo amministrativo e non politico perché venga accettato sia da Israele che da chi invia i militari e/o i soldi. Questo significa niente elezioni per qualche anno; cosa a cui i palestinesi, per altro, sono comunque abituati da un bel po’.

Per i punti 1) (accettazione da parte di Israele), 2) (militarmente e economicamente solidi), e in parte anche il 3) (fornitori di fondi) mi sembra che gli unici due stati possibili siano l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi hanno sottoscritto gli accordi di Abramo con Israele e i sauditi erano coinvolti in una strategia statunitense e israeliana per convincerli a sottoscriverli. Economicamente sono forti e militarmente si stanno facendo le ossa nel conflitto yemenita in cui sono direttamente coinvolti. Ambedue sono stati “anti Iran”, soprattutto i sauditi, anche se grazie alla Cina negli ultimi mesi c’è stato un riavvicinamento diplomatico sostanziale. E soprattutto sono emirati, non democratici in senso occidentale, e decisamente contrari all’islam politico della Fratellanza Musulmana, soprattutto nei suoi aspetti militanti tipo Hamas e simili.

Il controllo militare della situazione a Gaza da parte di emirati e sauditi farebbe certo da garanzia perché da una buona parte degli stati arabo-musulmani possano arrivare fondi per la ricostruzione di Gaza; penso anche che il Qatar potrebbe continuare a inviare fondi per le infrastrutture di Gaza e forse anche la Turchia che potrebbe “offrire” il contributo operativo delle sue aziende esperte nei settori edilizi e infrastrutturali ed averne un tornaconto economico.

Il punto 4) è quello più sensibile politicamente e anche dal punto di vista del  contesto del “teatro” politico locale e internazionale; cioè del prestigio, delle iconografie e della diffusa ipocrisia del discourse , il quadro concettuale dei pochi che decidono per interessi propri ammantati da nobili principi. Per questo suggerivo come soluzione il fatto che la gestione futura di Gaza debba essere solo amministrativa e non politica. L’ANP non è un soggetto politico possibile: ha dimostrato di non essere né capace né credibile.

Ci vuole un governo di tecnici esperti in diversi specifici settori operativi, di diverse provenienze statuali, proposti e valutati da una commissione internazionale, formalmente sotto l’ombrello dell’ONU, ma in sostanza supervisionato, in posizione dominante, da Usa, Israele, Arabia Saudita, Emirati;  per opportunità geopolitica vanno coinvolti Egitto e Giordania. Il gruppo di controllo può essere allargato a qualche rappresentante di altri governi coinvolti economicamente: Qatar, Turchia e qualche governo europeo se ci mette fondi o capacità tecniche operative sul campo tramite sue società.

Visto che le gravi crisi, e questa di Gaza lo è di certo, producono cambiamenti che prima della crisi venivano o rifiutati o considerati inaccettabili o impossibili, potrebbe essere possibile affrontare anche la questione irrisolta da decenni della Cisgiordania. Che però è in una situazione concreta molto più difficile da risolvere politicamente, proprio per le condizioni sul terreno; non ci sono distruzioni, ma al contrario una crescita di edificazioni che sono il punto centrale del problema e contribuiscono a limitare le possibili soluzioni a meno che non si pensi in maniera creativa e si separi nettamente la questione della cittadinanza da quella della gestione amministrativa del territorio. Bisogna uscire dalla mentalità dello stato-nazione, cioè dall’idea che uno “Stato” abbia un territorio contiguo, confinato chiaramente e governato dai rappresentanti di una sola “nazione” in maniera esclusiva.

Paradossalmente la situazione di Gaza, da questo punto di vista, è molto più chiara e interna alla dominante concezione dello stato-nazione: c’è un territorio unitario, chiaramente confinato e abitato da una sola “nazione” dal punto di vista culturale. Un caso raro nel mondo, sostanzialmente unico con una popolazione di 2 milioni di abitanti.

Per questo ritengo che possa (e debba) avere un futuro separato dalla Cisgiordania; ha più abitanti di molti piccoli stati nel mondo, possibilità di autosufficienza economica (si affaccia sul mare, con un giacimento di gas-petrolio sfruttabile) e la convivenza politica interna meno problematica per l’assenza di gruppi culturali consistenti e “altri”, soprattutto di cittadini israeliani.

Ecco perché l’ipotesi che suggerisco qui per il dopo Hamas a Gaza la vedo come praticabile.

Hamas non sparirebbe nel mondo arabo-musulmano, ma a Gaza avrebbe un margine di azione molto ridotto se non nullo e quindi non verrebbero più lanciati razzi, se non occasionalmente, in numero ridotto e ininfluente. Certo per fare un attentato con una bomba o con uccisioni mirate non servono molti uomini, ma la possibilità di incidere sulle dinamiche complessive a Gaza sarebbe sostanzialmente irrisoria.

La difficoltà maggiore che vedo è nella testa di quei pochi che decidono. Non ho nessuna fiducia in Netanyahu, in Gallant ministro della difesa israeliano e in molti ministri dell’attuale governo. Non credo che i consiglieri e gli esperti di cui si avvale Biden siano così flessibili e creativi per uscire dalle logiche di pensare la geopolitica e la politica in maniera piramidale e di potere. Paradossalmente l’autocratico saudita Mohamed bin Salman e il consiglio degli emiri degli Emirati possono essere più rapidi nel decidere e opportunisti nel capire quali azioni portino loro prestigio e vantaggi economici. L’ONU è ostaggio del diritto di veto dei membri permanenti e non credo che il Consiglio di Sicurezza, unico abilitato ad approvare il piano che suggerisco, potrebbe (e vorrebbe) opporsi. Se piace agli Usa di solito Francia e soprattutto UK si accodano e gli interessi di Russia e Cina non vengono toccati.

Per questo nell’attuale contesto geopolitico, che pure non mi piace per niente, credo che la mia proposta potrebbe essere quella più utile e “comprensibile”, anche accettabile dai potenti che ho citato, ma anche dalla gente comune, soprattutto per dare tempo e opportunità perché le distruzioni vengano riparate e perché le menti provino ad attutire dolore e desiderio di vendetta per guardare ad un futuro più tollerabile sul piano dei diritti e delle condizioni di vita a Gaza e sperabilmente anche in Cisgiordania.

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