Israele etnocratico e palestinesi senza politica. Un problematico stallo.

3 febbario 2023

Testo del podcast pubblicato su Anchor, Spotify, Spreaker e Youtube (La geopolitica di Fabrizio Eva)

Negli ultimi giorni la questione israelo-palestinese è ritornata sulle prime pagine dei quotidiani e nei servizi dei telegiornali serali. Questo a seguito dell’operazione del 26 gennaio nel campo profughi di Jenin da parte dell’esercito israeliano mirata a neutralizzare dei militanti di gruppi combattenti palestinesi sospettati di preparare un attentato in Israele. Nello scontro sono stati uccisi 8 militanti e due civili, tra cui una donna di 60 anni che si è affacciata alla finestra di casa sua per vedere cosa succedeva ed è stata colpita da un cecchino dell’esercito. Il giorno dopo un singolo attentatore ha sparato per ritorsione sui fedeli, uccidendone sette, che uscivano da una sinagoga del quartiere Neve Yaakov; quartiere costruito come altri in mezzo a cinque villaggi palestinesi a nord di Gerusalemme in un’area inclusa unilateralmente da Israele nel territorio della città, dichiarata nel 1980 “capitale unica, indivisibile ed eterna”. E il giorno dopo ancora un tredicenne palestinese ha sparato contro due civili riconoscibili come ebrei, ferendoli.

Ritengo che la giovane età di quest’ultimo responsabile sia strettamente correlata al contesto attuale in cui si manifesta quotidianamente il confronto-scontro israelo-palestinese.

Nei giorni seguenti ai fatti di sangue si è dispiegato il solito copione politico e mediatico: Israele dice che è stata una operazione necessaria di antiterrorismo per impedire un attentato e che non vuole una escalation coi palestinesi. Da Gaza sono sati lanciati razzi (in parte intercettati, gli altri caduti senza fare danni), e Hamas definisce eroica la ritorsione contro gli israeliani, i jihadisti rivendicano la vendetta, l’Autorità Nazionale Palestinese protesta e sospende la collaborazione con Israele per la sicurezza. Il segretario di stato Usa Blinken arriva per la sua visita già programmata da tempo, incontra i leader delle due parti e ripete le solite generiche frasi: sostegno indiscutibile a Israele per la sua sicurezza  quando incontra i politici israeliani e condanna di tutti gli atti violenti che incrinano il processo di pace quando incontra il presidente palestinese. Aggiunge che gli Usa sono contrari all’espansione delle colonie nei Territori Occupati, ma poi non ci sono mai conseguenze alle parole.

Assistiamo ad un teorico processo di pace senza iniziative e sostegno da anni, e una situazione quotidiana sul terreno nei territori occupati e a Gaza che compare nei notiziari solo se ci sono particolari fatti di sangue, altrimenti niente; se non su twitter o altri social media. Eppure nel solo gennaio, entro il giorno 22,  sono stati uccisi dalle forze israeliane 18 civili palestinesi, maschi e prevalentemente giovani.

Circa 20 anni fa, dopo una mia visita in Israele e nei territori occupati, avevo ricavato l’impressione che i due gruppi, israeliani e palestinesi, crescessero i propri giovani senza cercare di mitigare la spinta alla rabbia, e alla ritorsione e alla violenza in taluni casi, come conseguenza dello squilibrio di potere che veniva esercitato sul terreno dai militari, dai poliziotti e dai funzionari dello stato israeliano nei confronti della popolazione palestinese dei territori occupati ormai e a Gaza fin dalla vittoria nella guerra del 1967.

Come conseguenza di quello squilibrio di forze progressivamente una parte dei cittadini israeliani ha manifestato la propria preferenza elettorale verso i partiti più conservatori e religioso-conservatori, lasciando spazio a politici dichiaratamente di estrema destra; fino alla aperta approvazione formale che lo stato di Israele ha un carattere “ebraico”, nonostante la presenza di cittadini arabo-palestinesi che sono circa il 20% della popolazione. Con la diffusa paura che il tasso naturale di crescita dei cittadini palestinesi possa portare questi ad essere maggioranza e quindi a eleggere democraticamente un governo “arabo”. Anche per questo la aliyah, il diritto al ritorno degli ebrei nella terra promessa, viene favorita in tutti i modi con la concessione veloce della cittadinanza come è stato per il quasi un milione di russi nel decennio dopo la fine dell’URSS del 1991.

In questo quadro la costruzione di colonie e insediamenti (illegali, secondo lo statuto dell’ONU e secondo i trattati internazionali che Israele ha sottoscritto) ha continuato sotto qualsiasi governo portando il numero dei coloni a circa 700mila. Il problema è che c’è stata una progressiva occupazione fisica del territorio della West Bank, Cisgiordania, che non solo rende ormai impossibile la soluzione politica dei due stati separati, ma vede le azioni violente crescenti dei coloni, anche qui giovani maschi, contro pastori e contadini palestinesi che se si ribellano vedono intervenire i soldati a protezione dei coloni e se le proteste sono decise sono le vittime che vengono arrestate.

A ciò si aggiunga la situazione da Comma 22 nell’Area C degli accordi di Oslo del 1993 (60% circa della West Bank, sotto totale controllo militare e amministrativo israeliano) per cui tutto ciò che viene costruito dai palestinesi senza permesso viene sistematicamente abbattuto, ma se chiedono il permesso questo viene negato dai militari. E così sotto le ruspe cadono povere case, tettoie per gli animali, case-container e micro gabinetti e pannelli solari donati dall’Unione Europea, muretti divisori dei campi, serbatoi d’acqua, e anche tubi di impianti di irrigazione. Perfino scuole. Oltre agli ulivi che di tanto in tanto tagliano i coloni per sfregio.

Dalla parte palestinese la situazione di “strisciante apartheid” di uno stato di Israele sempre più “etnocratico”, queste le parole di un accademico israeliano in un suo articolo del 2012, ha portato la gran parte dei palestinesi ad una sensazione che lo sfavorevole rapporto di forza impedisca una soluzione negoziata e che l’idea della ribellione (anche violenta) sia l’unica risposta possibile. La maggioranza dei palestinesi, anche quelli di Gaza, sa bene che non è la via utile per negoziare una soluzione ed é anche disposta ad una convivenza pacifica; ma vie d’uscita non ne vedono e la frustrazione cresce, per taluni la rabbia.

La ribellione armata è praticata solo da frange molto minoritarie tra i palestinesi, però attrae i maschi più giovani. I ragazzi più piccoli lanciano pietre contro le auto israeliane riconoscibili per la loro targa gialla, invece di quella bianca palestinese. O, a Gaza, si avvicinano più dei grandi alla recinzione israeliana rischiando di essere colpiti alle gambe dai cecchini; sono più di 1800 i minori azzoppati o amputati di una gamba dal 2005 quando, per volontà del governo israeliano, Gaza è stata evacuata da tutti i circa 8-10 mila israeliani presenti.

Un articolo sul campo di Jenin di Roberto Bongiorni, su ilSole24ore del 28 gennaio, descrive molto bene il contesto geografico, sociale, economico e politico in cui è cresciuto e continuamente si alimenta la risposta armata dei gruppi militanti all’occupazione israeliana.

Quello che ho descritto è un chiaro esempio della pratica che però io vedo mettere in atto ovunque sulla terra nelle dinamiche geopolitiche e cioè quella del fatto compiuto e dell’atto di forza, e in seguito del guadagnare tempo da parte degli stati o dei vari gruppi armati (spesso appoggiati da qualche stato).

Il confronto per quel dopotutto piccolo pezzo di terra (è un po’ più grande della Sicilia per superficie) dura ormai da circa 130 anni ed è diventato progressivamente sempre più uno scontro che ha avuto diverse fasi e dinamiche nella storia. La questione israelo-palestinese è un concentrato, concettuale e territoriale, di quasi tutte le problematiche geopolitiche esistenti al mondo.

Ebrei e arabo-palestinesi si scontrano, più che confrontarsi, sulla base delle più diffuse diverse motivazioni per contenziosi geopolitici =

– per il principio (chi ci abitava [per primo], con quale gruppo c’è un “legame con la terra”[antichità e/o durata della presenza])(è la Terra Promessa a Mosé. Primi insediamenti dall’Europa: Petah Tikva 1878-1883 e Rishon LeTzion 1882, con i soldi dei Rotschild)(Theodor Hertzl 1896: libro Der Judenstaat)

– per la religione (Abramo e soprattutto Mosè, la terra promessa, e Maometto, viaggio notturno ad al Aqsa [l’ultima])

– per la storia (chi c’era un tempo e quali entità politico-istituzionali precedenti [mai stata una entità palestinese], fatti specifici)

– per la terra (chi è il proprietario, dimostrato dagli atti di proprietà [spesso ottomani per i palestinesi][“gli ebrei hanno comprato la terra dai proprietari arabi assenti”])

– per le abitudini di vita (genre de vie di Reclus) (“i palestinesi sono arabi senza una loro specificità, mentre gli ebrei ci sono da millenni à il confronto-scontro ha fatto crescere e consolidare l’autopercezione palestinese [e anche il comportamento istituzionale dei regimi-governi arabi che hanno usato opportunisticamente la questione palestinese contro Israele, ma hanno ghettizzato i rifugiati palestinesi sul loro territorio in modi diversi a seconda dei leader e della convenienza socio-economica)]).

Tutto questo entro la gabbia concettuale ambigua dello stato-nazione, idea inventata dall’Europa e diffusasi globalmentedurante il processo di decolonizzazione.

Al di là dei fatti di sangue che colpiscono le emozioni e solleticano l’interesse dei mass media, quello che ho già sottolineato sono le dinamiche di relazione squilibrata nella vita quotidiana tra israeliani e palestinesi. Parlo di alcune differenze normative tra cittadini ebrei e arabi in Israele; in particolare contro i beduini allevatori coi quali i governi israeliani hanno cercato di mettere in atto una sedentarizzazione e marginalizzazione forzata, parzialmente fallita.

Parlo, nei territori occupati, degli interventi sistematici di espulsione o di limitazione di attività, in particolare nell’Area C, contro singoli e villaggi beduini o di pastori e agricoltori; della sistematica tolleranza nei confronti dei coloni illegali (nei cosiddetti Outposts) e protezione militare degli insediamenti, legali solo per Israele, i cui abitanti giovani maschi sempre di più spesso attaccano e prevaricano personalmente i palestinesi delle aree circostanti, anche in quelle di loro proprietà.

C’è un crescente uso delle armi, di granate sonore e di arresti da parte di poliziotti e militari perché sono in una condizione si impunità sostanziale e le decisioni della Corte Suprema israeliana al 90% sono contro i palestinesi su questioni di denunce per distruzioni, sfratto e proprietà. Anche se si afferma che “se i palestinesi hanno il titolo di proprietà della terra questa è garantita”, questo avviene per una minoranza di loro, perché uno stato “moderno” come Israele non riconosce l’uso e il diritto consuetudinario sulla terra praticato da beduini, allevatori e contadini palestinesi.

Infine nel nuovo governo di destra israeliano c’è un ministro che si è auto dichiarato fascista e omofobo e altri due che da anni predicano l’espulsione forzata verso la Giordania di tutti i palestinesi.

Palestinesi che hanno 5 differenti status a seconda del territorio di residenza, evidenziato dai 5 diversi documenti di identità = (partendo dallo status meno garantito) quelli di Gaza, poi area C, Area B, Area A, Gerusalemme est; questi ultimi, circa 180 mila, possono avere la targa dell’auto gialla israeliana e una serie di servizi cittadini, ma non sono cittadini israeliani; cosa che del resto non vogliono in larga maggioranza.

Lo squilibrio di condizione giuridica e pratica è in azione quotidianamente tramite la normale amministrazione; ci sono:

  • Direttive-regolamenti amministrativi = regole e controlli per servizi, permessi di costruire (non concessi) e demolizione delle “illegalità”. Perdita della proprietà per mancata occupazione e occupazione di case vuote palestinesi da parte di gruppi e famiglie di ebrei ortodossi (questo soprattutto a Gerusalemme, ma anche a Hebron.
  • Ordinanze ministeriali = invito alla polizia ad agire contro l’esposizione della bandiera palestinese; sistematico rapporto dipendenza assoluta dalla polizia e dall’esercito per il controllo documenti, per il permesso o meno alla mobilità. Con l’esercito che occupa a qualsiasi ora e per giorni le case dei civili senza spiegazioni con confinamento interno degli abitanti. Con l’abbattimento delle pareti interne delle abitazioni durante le operazioni di sicurezza.
  • Leggi = aree destinate a esclusivo uso militare in Area C con sfratto di tutte le famiglie palestinesi residenti; mentre i maschi dei coloni possono girare armati, anche con fucili d’assalto, dopo la cerimonia ebraica del Bar Mitzvah, cioè formalmente dai 13 anni e un giorno.

Questo quadro di gabbia giuridico-amministrativa squilibrata è stata costruita nel tempo dopo il 1967, ma ancora non basta; non a caso il nuovo governo di destra vuole approvare leggi che riducano il potere dei giudici e della stessa Corte Suprema a favore delle decisioni governative, fino al punto da voler passare al governo la nomina dei giudici della Corte. Questo disegno ha subito portato in piazza gli israeliani democratici e progressisti, ma la situazione al momento è fluida e l’uso politico e mediatico spregiudicato della paura del palestinese terrorista fa ancora il suo effetto.

Il perdurare di questa situazione di squilibrio di potere che non produce fatti di sangue eclatanti per cui non viene raccontata sistematicamente non fa altro che alimentare l’insofferenza palestinese. Dall’altra parte c’è  la percezione dei cittadini israeliani ebrei che la situazione sia sotto controllo e che lo status quo possa andare avanti indefinitivamente grazie alla separazione fisica coi palestinesi; la sostanziale vita tranquilla ed economicamente dinamica di Israele ha portato molti giovani israeliani all’assuefazione al privilegio e voler considerare come “normale” lo stallo, votando partiti di destra che negano l’esistenza di un qualsiasi diritto per i palestinesi.

Il mio approccio nell’analisi delle dinamiche geopolitiche è molto basico e semplice: gli esseri umani sono tutti “uguali” nel senso che condividono la stessa condizione umana, e quello che vedo spesso è che sono disposti a relazioni pacifiche se si agisce nel tempo in favore di un contesto che aiuti.

Gli stati, tramite i governi, si dichiarano istituzioni “uguali” tra di loro e di cittadini “uguali”, ma in realtà sono molto diversi tra di loro per possibilità e anche per volontà e si muovono in un contesto concettuale di potere  sia a livello interstatale sia interno: in tutti gli stati c’è un rapporto gerarchico tra istituzioni e cittadini, anche se in diverse forme e modalità.

Nelle varie dinamiche geopolitiche quello che vedo è che  il concetto di “nazione”, cioè l’appartenenza per nascita (per “sangue”) ad una cultura e la sua indiscutibile e necessaria durata nel tempo sono la fonte della maggior parte dei problemi geopolitici, soprattutto quando la “nazione” si abbina al concetto di stato “moderno” nell’ambiguo connubio di stato-nazione.

Per uscire dalle dinamiche conflittuali, e questo vale anche per la questione israelo-palestinese, bisogna pensare ai – e partire dai bisogni di base comuni a tutti gli esseri umani, a prescindere dalla loro cittadinanza e stato giuridico del territorio. L’articolo due, secondo comma, della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 lo dice chiaramente e senza possibili equivoci.

Bisogna separate il concetto dei diritti da quello di nazione: si hanno diritti perché individui, a prescindere da “sangue” e dalla cultura dei genitori. Per il caso israelo-palestinese la proposta ormai ventennale di uno stato unico bi-nazionale con diritti uguali per tutti, anche se con amministrazioni autonome nelle diverse aree interne, potrebbe essere quello più percorribile se ci fossero leader e governi abbastanza “creativi” e forti per proporla, sostenerla e difenderla contro la rigida concezione e percezione dello stato territoriale moderno e della nazione.

Bisogna mettere alle strette i governi degli stati perché non agiscano per favorire solo chi li ha votati. Bisogna contrastare le tendenze gerarchiche di tutti gli stati e agire sugli individui perché collaborino per fare una società più giusta.

“Ci vuole un lungo periodo di educazione” diceva Lucy Parsons, attivista afroamericana ex schiava e diventata anarco-sindacalista tra fine Ottocento e prima metà del Novecento, ma agire sui contesti per favorire relazioni più pacifiche si può fare subito se ci sono movimenti di base attivi e leader dinamici se non anche creativi. Il problema è che oggi per poter diventare leader politici nella gran parte dei casi bisogna mostrare di aderire e accettare la logica di potere e la logica di potenza.

Purtroppo lo stallo tra un etnocratico Israele e l’ANP gerontocratica e senza politica durerà ancora; forse, come spesso succede in geopolitica, una grave crisi o un evento imprevisto produrrà  uno scossone significativo. Purché lo scossone non venga da un attentato sanguinoso o dalla trasformazione di Israele in autocrazia.

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