Turchia e Russia in Siria: alleati instabili, amici impossibili (4 marzo 2020)

Perché amici impossibili? Tutti i gruppi umani si inventano la propria identità e quando questo processo diventa nazionalismo, cioè rivendicazione politica di un territorio “proprio”, si cercano, si aggiustano, si inventano fatti storici e caratteri culturali che sostengano l’identità nazionale proclamata. Questo processo, costruito nel tempo, ha maggiore o minore effetto a seconda dei caratteri culturali specifici dei gruppi umani (quelli che il geografo francese di fine Ottocento Eliseo Reclus chiamava “genere di vita”) e a seconda delle vicende storiche svoltesi nel o intorno al territorio rivendicato come “proprio”.

Russi e turchi hanno costruito una grande considerazione della propria cosiddetta identità riferita anche al reciproco passato imperiale, ma fino alla prima guerra mondiale si sono fatti la guerra numerose volte per contendersi territori; soprattutto a partire dalla seconda metà del 1600 e nell’intero Settecento nell’area del Mar Nero occidentale (inclusa la Crimea), mentre nell’Ottocento il fulcro dello scontro fu prevalentemente nei Balcani tranne che nella guerra di Crimea del 1854-56, che però fu la conseguenza dei contrasti balcanici. Per questo rimane ancora oggi un sottile sentimento reciproco di “essere nemici” anche se la Russia di Putin e la Turchia di Erdohan negli anni recenti hanno intrecciato relazioni variabili, ma incentrate su una alleanza pragmatica di interessi.

I due leader sono ambedue nazionalisti con aspirazioni di egemonia/controllo e prestigio (internazionale). La Russia con un ruolo più globale grazie alla sua continuità con l’Unione Sovietica dal punto di vista militare (dispone di circa settemila testate nucleari), la Turchia alla ricerca di un ruolo di potenza regionale nelle aree un tempo facenti parte dell’impero ottomano. E con qualche volontà di “recupero” di territori considerati come “rubati” dai trattati di Sévres del 1920 e di Losanna del 1923. Sono ambedue leader pragmatici, spregiudicati, abili nel controllo del potere interno (con repressione degli avversari per vie giudiziarie e incarceramenti in attesa di processo) e nell’uso della narrazione eroico-nazionalista per suscitare il consenso popolare, e infine, e non è secondario, capaci di utilizzare al meglio le contraddizioni tra principi e azioni concrete nella geopolitica internazionale per permettersi azioni di forza limitate, ma utili ai loro fini.

Contraddizioni evidenziate dalle ripetute dichiarazioni ufficiali dei leader mondiali di appoggio a soluzioni negoziate e pacifiche per le crisi geopolitiche, quando nell’evidenza dei fatti tali crisi sono state quasi sempre provocate da azioni di forza, gestite con azioni di forza e con attori che cercano soluzioni vittoriose grazie ad azioni di forza (vedi il caso recente di Haftar e della Libia). Per citare il generale Carlo Jean durante una conferenza all’ISPI di Milano nel 2006: la legalità internazionale la fa il più forte. I forti sono pochi e anche gli opportunisti capaci di sfruttare queste contraddizioni. Ma i danni provocati possono essere molti e soprattutto gli effetti ricadono sui civili, talvolta con numeri rilevanti come pure le sofferenze patite per anni.

E la logica delle valutazioni delle ragioni e dei torti, come pure delle narrazioni mediatiche di ciò che avviene, rimane sempre quella del noi contro loro; “noi” siamo gli occidentali e nostri alleati (in questo caso la Turchia), “loro” sono la Russia che sostiene Bashar al Assad, e l’Iran.

Per Putin il primo esercizio pratico di questa forzatura delle regole può essere identificato con la crisi in Georgia nel 2008 in relazione ai territori secessionisti georgiani dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud protetti dai russi, mentre per Erdohan la crisi siriana è stata l’occasione per mettere in pratica il neo-ottomanesimo di cui alcuni commentatori avevano cominciato a parlare intorno al 2010.

Le cosiddette primavere arabe dell’inizio del 2011 hanno provocato effetti dirompenti dal punto di vista degli assetti istituzionali di molti stati nell’area Mediterranea e del Medio Oriente; con risultasti apparentemente contraddittori, per chi ha voluto interpretarle con la sola visione esterna, “occidentale” e omnicomprensiva, ma in realtà sostanzialmente coerenti con le singole realtà socio-politiche locali per chi ha voluto invece usare un approccio critico, e geografico aggiungo io. Ogni stato va valutato considerando le caratteristiche specifiche, anche sociologiche e territoriali e non solo la “rappresentazione” che si da o che gli viene attribuita.

Senza ripercorrere nel dettaglio la crisi siriana iniziata nei primi mesi del 2011 con manifestazioni pacifiche contro l’impunità dei funzionari del regime di Assad e la corruzione, pesantemente represse (con morti), si può ricordare che nel giro di pochi mesi ci sono state le defezioni di militari che hanno dato vita all’Esercito Siriano Libero (FSA in inglese) che si è opposto con le armi alla repressione. L’occidente si è schierato subito contro Bashar al Assad e la narrazione quasi univoca è stata che “aveva perso la legittimità perché bombardava il proprio popolo”. Ma non basta che qualche leader occidentale lo dica per “delegittimare” un governo in carica.

Erdohan da amico di Assad (hanno fatto le vacanze insieme le due famiglie) è diventato un suo fiero oppositore per il suo rifiuto di usare la sua proposta di mediazione. Attraverso la lunga linea di confine turca (quasi 800 chilometri) hanno cominciato a convergere in Siria combattenti (più o meno jihadisti) e armi, una parte dei quali ha dato poi corpo allo Stato Islamico di Iraq e Siria (Daesh, l’acronimo in arabo) che ha conquistato e gestito dal 2014 al 2019 una buona parte del territorio siriano centro-orientale.

I russi si sono schierati subito dalla parte di Bashar al Assad con la giustificazione che era il governo legittimo e la motivazione pratica di difendere e conservare l’unica base navale militare che hanno nel Mediterraneo, a Tartus in Siria. Mentre noi occidentali abbiamo cominciato a sostenere politicamente e con qualche aiuto discreto i ribelli anti Assad. Salvo poi spaventarci quando questo aiuto ha dato origine inaspettatamente ad una formazione super fondamentalista islamica che è riuscita in poco tempo a conquistare territorio in Siria e Iraq, a mobilitare appoggi e combattenti in tutto il mondo musulmano e anche europeo grazie ad una spregiudicata ed efficace campagna mediatica via internet, fatta di gesti eclatanti, omicidi in diretta, sgozzamenti e attentati sul territorio stesso del “nemico crociato”, come dicevano. Da ricordare che daesh vendeva sottobanco il petrolio iracheno e siriano dei pozzi che controllava tramite una lunga fila di camion cisterna da e per la Turchia e che il rifornimento di armi avveniva prevalentemente attraverso il confine turco visto che tutti gli altri confini erano di stati a loro contrari.

Quindi Turchia e Russia si trovavano e si trovano schierate su fronti opposti. Eppure questo non ha impedito loro di avere relazioni diplomatiche e commerciali altalenanti, ma sostanzialmente buone. La crisi siriana è stata discussa a Sochi, in Russia o ad Astana in Kazachistan, più di una volta tra Russia, Turchia e Iran. L’abbattimento di un aereo da combattimento russo nel nordest della Siria da parte turca ha provocato un congelamento dei commerci e delle relazioni per qualche mese, ma poi la Turchia, membro della NATO, ha deciso di comprare dalla Russia i missili SS400 non curandosi delle proteste degli alleati.

Lo sviluppo della crisi interna alla Turchia della questione curda, con conseguente repressione e coprifuoco imposto nel sudest del paese dal 2015, e del multi-decennale conflitto, anche armato, con il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), partito considerato terrorista anche da USA e dalla UE, ma non da una recente sentenza della Corte di Giustizia europea, questo contrasto, dicevo, si è evidenziato in parallelo con il fatto concreto che i combattenti curdi dei cantoni nel nord e nordest della Siria si sono mostrati i migliori combattenti sul terreno contro daesh; prima nel difendersi (il caso di Kobane nel 2014 ha avuto rilevanza mediatica mondiale) e poi nel contrattaccare e conquistare passo dopo passo, villaggio dopo villaggio tutto il territorio controllato da daesh in Siria. Combattenti così efficaci da meritare l’appoggio aereo degli USA e l’invio discretissimo (e limitato) di soldati statunitensi, francesi e inglesi per dare loro supporto tecnologico-logistico.

I curdi del PYD (Partito dell’unione democratica) siriano hanno attivato due formazioni di combattenti “di difesa popolare”, YPD (misto) e YPJ (solo femminile), e hanno non solo riconquistato terreno, ma sono arrivati fino a liberare Raqqa, una delle due capitali dello stato islamico e a eliminare i gruppi jihadisti fino al confine con l’Iraq. Nel momento in cui liberavano da daesh il territorio siriano i curdi organizzavano la società del Rojava (occidente, in curdo) secondo un modello di municipalismo democratico molto decentrato proposto tra il 2005 e il 2011 dal leader del PKK Abdullah Őcalan, unico prigioniero nel carcere turco di Imrali dal 1999. Questo modello di democrazia, che potremmo definire estrema anche per i nostri criteri occidentali, pur in una situazione di guerra è in funzione progressivamente dal 2015 e ha come riferimenti ideali l’ecologismo, il femminismo e la democrazia diretta (di villaggio e/o di quartiere di città).

Grazie alle vittorie contro daesh i curdi si sono trovati ad amministrare un territorio ben più grande del Rojava, cioè il territorio a prevalenza di abitanti curdi; la loro proposta socio-politica però è stata allargata a tutte le componenti presenti a prescindere dalle appartenenze linguistiche e religiose (arabi, turcomanni, assiri, arabi cristiani e yezidi

[anche se questi ultimi sono curdi, ma di religione yezida]

).

I curdi hanno dichiarato nel 2012 l’Amministrazione autonoma della Siria del nordest, tra il 2016 e il 2017 è stata chiamata Federazione Democratica del Rojava – Siria del Nord, e dal 2017 Federazione Democratica della Siria del Nord,  e hanno dichiarato che non intendono cambiare i confini della Siria per rivendicare un nuovo stato curdo indipendente, ma che sono disposti a trattare con e a riconoscere qualsiasi governo di Damasco che riconosca la loro autonomia amministrativa secondo il loro modello democratico. Per questo nella fasi della lotta contro daesh l’accordo con Damasco è stato che i curdi avrebbero operato ad est dell’Eufrate mentre l’esercito siriano a ovest e che non ci sarebbero stati scontro tra le due parti. Finora lungo l’Eufrate questo accordo è attivo anche dopo la sconfitta di daesh.

Sia l’esercito siriano di Assad, che in qualche occasione i curdi (a Raqqa per esempio), hanno concesso agli irriducibili di daesh e alle loro mogli e figli che se si fossero arresi avrebbero potuto essere trasportati nella provincia di Idlib, ultima roccaforte rimasta dei vari gruppi ribelli contro Assad; gruppi misti, dall’Esercito Siriano Libero ad altri più o meno jihadisti. E oggi, gennaio-febbraio 2020 la concentrazione a Idlib di tutti gli oppositori armati al governo di Bashar al Assad rappresenta il problema geopolitico maggiore perché l’esercito governativo vuole “liberare” almeno una parte delle territorio di Idlib per controllare le due principali arterie della zona che collegano Aleppo a Damasco e Aleppo alla costa del Mediterraneo dove si trova la zona abitata prevalentemente dagli alauiti, il gruppo socio-religioso cui appartiene anche la famiglia Assad e molti personaggi di potere a Damasco.

La Turchia e Erdohan però hanno visto un pericolo nella conquista territoriale curda che lasciava intuire che il Rojava avrebbe unificato i 4 cantoni curdi e avrebbe dato loro il controllo di quasi tutto il confine tra Siria e Turchia. Per questo l’esercito turco è entrato nel 2016 in Siria per impedire il ricongiungimento dei tre cantoni orientali con quello di Afrin, il più occidentale e contornato per due terzi dalla Turchia. Opportunisticamente l’esercito turco ha garantito la sicurezza ai gruppi locali di daesh per poter entrare senza combattere e controllare la zona intorno alla città di Jarabulus. I curdi nell’area sono rimasti attestati a Mambij, a ovest dell’Eufrate, anche grazie alla presenza di soldati statunitensi in loro appoggio contro daesh.

Ma nel gennaio-aprile del 2018 Erdohan ha ordinato una seconda invasione in Siria per la conquista del cantone a maggioranza curda di Afrin; ufficialmente per proteggere la Turchia dal terrorismo dei curdi grazie ad una operazione militare chiamata “ramoscello di ulivo”. La distanza tra realtà fisica e narrazione (simbolica) è sempre più evidente in geopolitica. Visto che il cantone di Afrin, per il rimanente terzo, confina con la provincia di Idlib, i turchi hanno utilizzato milizie jihadiste in appoggio alle proprie truppe lasciando loro mano libera nelle operazioni di occupazione delle città e villaggi. Tali azioni militari hanno provocato una fuga di civili dall’area verso Aleppo e le zone sotto controllo governativo (o verso piccole zone curde) stimata variamente da 100mila a 300mila civili.

Erdohan ha lanciato una terza offensiva militare in Siria nell’ottobre del 2019 contro il Rojava e  in particolare nella parte centrale della lunga linea di confine per realizzare, secondo la versione turca, una fascia di sicurezza profonda 32 chilometri e lunga 120 contro il terrorismo curdo; il nome dell’operazione militare è ironicamente “fonte di pace”. Tale operazione ha potuto realizzarsi grazie al silenzio della NATO, di cui la Turchia è il secondo esercito come consistenza dopo gli USA, e soprattutto perché il presidente Trump ha deciso di ritirare quelle centinaia di soldati statunitensi che avevano appoggiato i curdi contro daesh, ridislocandoli  a protezione dei pozzi di petrolio siriani vicino a Deirezzor; motivo ufficiale: impedire che potessero essere usati da daesh (in realtà già sconfitto e presente solo con cellule nascoste che agiscono tramite attentati).

L’entrata in Siria è stata anche quasi concordata con la Russia perché i soldati russi e l’esercito governativo siriano hanno preso posizione nelle postazioni degli statunitensi e hanno iniziato, i russi, a fare anche pattugliamenti congiunti coi turchi lungo le strade che ricalcano sostanzialmente quella distanza di 32 chilometri dal confine da cui i combattenti curdi si sono ritirati senza fare resistenza. Anche questa invasione ha provocato la fuga di una parte dei civili stimata in decine, forse un centinaio di migliaia di civili. E anche qui i turchi si sono avvalsi di jihadisti di Idlib cui hanno lasciato il lavoro sporco cercando di mostrarsi come forza di interposizione a livello di immagine. In realtà continuando a colpire con mortai, cannoni e attacchi aerei villaggi nella zona rimasta curda del Rojava.

Bashar al Assad e i russi hanno preso tempo e non hanno contrastato l’azione turca perché faceva loro gioco l’indebolimento dei curdi; i curdi in difficoltà difensiva sono più deboli nella trattativa con il governo di Damasco. E inoltre sono riusciti senza colpo ferire a riprendere il controllo di aree e punti a ridosso del confine che avevano abbandonato nel 2012. E Bashar al Assad ufficialmente è ancora contrario ad una Siria federale con zone amministrativamente  autonome dal governo centrale come vorrebbero i curdi.

 Ma secondo me Erdohan si aspettava un successo maggiore e cioè il disfacimento dell’esperienza socio-politico del  Rojava con il conseguente confronto armato tra l’esercito governativo, appoggiato dal cielo dai russi, e i combattenti curdi. Questo non è successo, il Rojava rimane in piedi (controlla circa un  quarto del territorio siriano), anche se parzialmente mutilato; e l’esercito di Assad ha invece puntato a recuperare il controllo della provincia di Idlib a occidente, ormai ultima roccaforte della vera resistenza armata contro di lui.

E’ paradossale che un accordo per un cessate il fuoco nei margini della provincia di Idlib (sottoscritto nel settembre 2018) sia stato concordato tra i turchi che sono presenti illegalmente in Siria, i russi che anche se appoggiano il governo sono forze straniere e gli iraniani, anch’essi stranieri, ma presenti con milizie da loro armate e sostenute in appoggio ad Assad. Insomma nella crisi ufficialmente “interna” della Siria tra un governo e i suoi oppositori gli attori esterni hanno giocato il ruolo militare più rilevante agendo dentro il territorio siriano: russi e iraniani con il governo, Turchia, USA, Francia, UK contro; per non parlare di Israele che è accreditato di almeno 200 bombardamenti mirati in Siria. E poi attori con Arabia Saudita, Emirati arabi e Qatar che con i loro soldi hanno sostenuto differenti gruppi armati ribelli (più o meno jihadisti: salafiti i Sauditi e gli Emirati, più vicini ai Fratelli Musulmani il Qatar).

L’azione militare governativa contro la provincia di Idlib ha provocato un’altra fuga di massa di civili. I media dicono 900mila profughi che sono un poco di più dei 700mila già in fuga in aprile 2019, perché è da tempo che l’esercito regolare erode territorialmente la zona di Idlib controllata dalle milizie ribelli stimate dai 40mila ai 60mila combattenti. Piuttosto che verso le zone governative e nonostante l’offerta di passaggi sicuri gli sfollati preferiscono muoversi verso il confine turco dove sono ammassati perché la Turchia li blocca visto che già ospita sul suo territorio un numero incerto di profughi siriani compreso tra i 3 e 4 milioni.

In queste dinamiche c’è sempre la possibilità che un incidente non voluto inneschi una escalation della crisi e del conflitto; in passato il già citato abbattimento di un caccia russo da parte dei turchi, poi di una aereo russo da parte della contraerea siriana per errore e il 27 febbraio scorso un bombardamento governativo ha ucciso 22 (poi diventati 34) soldati turchi presenti in Siria.

Il numero dei morti non consente alla Turchia di trovare una via d’uscita che salvi la faccia; questo ha costretto, a mio parere, Erdohan ad alzare i toni nazionalisti per il pubblico turco, cosa che peraltro fa normalmente, e a cercare una gratificazione e un sostegno internazionale da parte di USA, NATO e Unione Europea, dopo che ha agito per anni senza curarsene, in splendida solitudine e noncuranza di consuetudini, di cosiddette “regole” internazionali e di accordi da lui stesso firmati.

Ma la presenza stabile dei soldati turchi in Siria è indifendibile sul piano dei trattati firmati e degli statuti sia dell’ONU che della NATO e può essere tollerata, per quieto vivere e/o interessi nascosti,  solo se si fa finta di credere che la motivazione turca della lotta al terrorismo sia valida nel caso siriano; accettabile come scusa finché c’era daesh, ora non più. Ciononostante Erdohan ha ricevuto dichiarazioni favorevoli da parte di Trump e della NATO, in parte dalla UE, ma solo come solidarietà e condoglianze, ma non di condanna del governo siriano (e della Russia) che in effetti agisce per riconquistare parte del proprio territorio. Cosa che farebbe qualsiasi stato al mondo; cosa che fa Erdohan nelle zone curde nel sudest della Turchia ed un “diritto” che Erdohan rivendica per il suo recente aiuto armato al governo libico di al Sarraj, in contrasto con le dichiarazioni di embargo dell’ONU. Nel momento in cui la Turchia chiede sostegno e condanne l’ipocrisia dominante nelle relazioni geopolitiche viene messa troppo allo scoperto e tuttora, almeno a parole, non si superano certi limiti. Ma Erdohan, oltre ad essere autoritario e presuntuoso,  si è abituato ad anni di silenzio acquiescente se non di aperto appoggio in qualche occasione e così non demorde; per personaggi del genere perdere la faccia è più grave che subire una sconfitta militare che si può sempre raccontare in modo diverso.

Così ha scelto il ricatto vendicativo nei confronti del soggetto che considera debole e cioè l’Unione Europea, cercando di colpirla nel suo punto più delicato e problematico sul piano interno: quello della pressione migratoria. Ma la UE, pur nella sua debolezza sulla questione migratoria, è forse l’unica organizzazione mondiale che cerca di avvicinare il più possibile le dichiarazioni di principio con la realtà dei fatti; difficilmente potrà gratificare Erdohan con un appoggio incondizionato nonostante il suo ricatto. E anche perché lo stesso Erdohan ha infilato una serie di “sgarbi” geopolitici contro la UE e gli alleati, dall’acquisto di sistemi d’arma russi, al suo recente intervento a gamba tesa in Libia, alle intimidazioni a navi di paesi europei (Italia in primis) nelle aree delle concessioni esplorative dei fondali di Cipro.

Da qualche giorno i corpi turchi impegnati nel controllo delle frontiere e delle coste hanno ricevuto l’ordine di non fermare più i tentativi dei profughi di raggiungere la Grecia. Anzi, si parla di espliciti aiuti e sono certi i pullman gratis messi a disposizione da Istanbul per raggiungere il confine terrestre di Grecia e Bulgaria. Che reagiscono con forza con sbarramenti di filo spinato e gas lacrimogeni, in modo ancora più deciso e talvolta violento di quanto fece la criticata Ungheria di Orban nel 2016-17 e poi la Macedonia, finanziata dalla UE, di cui non è membro, proprio per fare quello stesso sbarramento.

La Grecia chiede l’aiuto europeo e i mass media, italiani in primis, (ri)scoprono che le migliaia di profughi sulle isole greche vivono da anni in condizioni terribili. A Lesbo in un campo pensato per più di 3mila ci vivono in 20mila. E la visita del papa di qualche anno fa non ha cambiato in nulla la situazione. Ma, come si dice: lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

Il paradosso è che questa ondata di profughi non viene da Idlib; gli sfollati sono quasi tutti ammassati in territorio siriano lungo il confine con la Turchia che li fa entrare solo a piccoli contingenti. Ma sui nostri quotidiani (es. la Repubblica del 1 marzo) si mettono carte con frecce evidenti che collegano Idlib ai confini marittimi e terrestri greco-turchi sotto titoloni emotivi relativi all’isola di Lesbo dove muoiono i bambini, che però non sono di Idlib.

Un geografo critico con approccio antropologico nota che gli sfollati, in quanto esseri umani come tutti, scappano nella direzione opposta a dove si combatte. Quindi è inutile che il governo siriano e i russi dicano che garantiscono passaggi “umanitari” sicuri verso le aree governative. La Turchia fisicamente tiene ferma la massa degli sfollati lungo il confine perché intende usarla come arma geopolitica e fare la parte di chi si preoccupa del loro benessere; dopo che lei stessa ha provocato fughe di qualche centinaio di migliaia di sfollati curdi nelle sue operazioni militari. Della sicurezza di questi sfollati non si è preoccupato nessuno anche perché si sono rifugiati nel Rojava o nelle aree controllate dalle milizie curde.

Infine, visto che il governo siriano ha effettivamente ripreso il controllo di circa i due terzi della Siria la cosiddetta comunità internazionale (cioè i soliti pochi stati che contano e che hanno i soldi, compresa l’Unione Europea) potrebbero prendere in parola Erdohan circa le sue preoccupazioni umanitarie e organizzare con lui un corridoio umanitario che da Idlib, attraverso un  breve tratto terrestre in Turchia (si tratta di meno di 50 chilometri),  faccia arrivare gli sfollati sulla costa e poi via terra o anche trasbordarli via nave verso il confine siriano a sud, nella zona di Latakia, da cui gli sfollati potrebbero poi raggiungere zone tranquille in Siria, magari raggiungendo parenti e amici.

Di una cosa sono certo: nessuno dei cosiddetti leader penserà mai questa soluzione pratica, fattibile e coerente con i principi umanitari tanto sbandierati quando fa comodo. Perché le parole del ricatto, delle intimidazioni, dell’ipocrisia sono l’essenza della geopolitica degli stati e dei loro leader.

Erdohan e Putin dovrebbero incontrasi il 5 o 6 marzo in Russia e ancora una volta sono due capi di stato stranieri che si confrontano sulla Siria quando il vero problema ora è che l’esercito regolare dello stato siriano si trova a combattere direttamente con i soldati di un esercito regolare di uno stato confinante che si trovano illegalmente sul suo territorio. I turchi sono militarmente più forti, ma i siriani sono protetti dai russi. Masse di disperati dipendono dalle decisioni di pochissimi; sempre che siano sinceri.

E intanto le prime 10-12 pagine dei nostri quotidiani e il grosso dei servizi TV e dei talk show sono dedicati al Covid 19 (però chiamato sempre Coronavirus) e non si parla più di Libia, di Yemen, di Venezuela, di Corea del Nord, eccetera, come se quelle situazioni fossero risolte.

I limiti fisici e culturali nel Medio Oriente e di Daesh (gennaio 2019)

I limiti fisici e culturali nel Medio Oriente e del cosiddetto Califfato

Fabrizio Eva, 31 gennaio 2019

Le dinamiche geopolitiche contemporanee vanno sempre lette nel contesto territoriale e culturale più ampio rispetto alle zone dove effettivamente si stanno verificando i fatti. Ed è necessario anche cercare di individuare quali fattori vengono dal passato e da quanto lontano. Questo è il tipo di approccio del geografo politico, che parte dall’oggi, pratica la comparazione e risale al passato di alcuni fattori per verificare quanto sia lunga la loro durata.

Nel caso delle dinamiche del Medio Oriente, nel caso specifico il territorio della Mesopotamia storica, i fattori principali da considerare sono sostanzialmente tre: 1) la specificità delle strutture socio-culturali presenti, 2) le fasi storiche che si sono succedute e il cambio di “visioni” che hanno comportato, 3) gli effetti del colonialismo prima e dopo la formazione degli stati-nazione “guidata” da inglesi e francesi.

Oggi la situazione va vista anche all’interno delle grandi dinamiche geopolitiche globali che sono orientate dal gioco delle grandi potenze (i cinque membri permanenti con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza ONU) e dalle potenze regionali che cercano uno “spazio” localmente: Arabia Saudita, Iran, Turchia. Fa parte del quadro complessivo anche la situazione di neocolonialismo economico centrato sulla necessità di controllo della produzione energetica (petrolio e gas) così necessaria al nostro stile di vita e che orienta, se non determina, le nostre alleanze geopolitiche, a favore di Egitto (nonostante il colpo di stato) e Arabia Saudita, che interpreta l’islam in modo più rigido dell’Iran.

Per quanto riguarda la specificità delle strutture socio-culturali presenti dobbiamo sottolineare che ci sono diversi islam (divisione sciiti e sunniti), ma anche diversi modi di vivere e praticare la religione nei diversi stati. La ormai pluridecennale divisione confinaria ha innescato la formazione di pratiche e visioni “nazionali” circa il rapporto tra politica e religione. In Libano, in Giordania o in Egitto sarebbe inaccettabile un controllo “visivo” e spaziale sulle donne come in Arabia Saudita.

Le fasi storiche che si sono succedute in Mesopotamia sono sostanzialmente 4: l’impero ottomano fino alla prima guerra mondiale, 2) i mandati inglese e francese tra le due guerre, 3) il periodo della presa del potere dei militari “modernisti” e laici poco dopo la seconda guerra mondiale, 4) la riproposizione dell’islam come proposta politica di gestione dello stato dal 1980 (circa) in poi.

Sotto l’impero ottomano i poteri e i nobili locali avevano un discreto margine d’azione purché riconoscessero l’autorità del sultano, dei turchi e pagassero le tasse. Questo non ha impedito lo scoppio ripetuto di rivolte dovute ai contrasti (anche storici) tra i diversi gruppi locali e/o per protesta per le condizioni di inefficiente dominio dell’impero. In questo contesto i curdi periodicamente sono riusciti a ritagliarsi degli spazi di autonomia.

Durante i mandati inglese e francese vennero formati gli stati nazionali dell’intera area, ma sotto controllo di tipo coloniale, con istituzioni (regni con gli inglesi e repubbliche con i francesi) e soprattutto confini definiti dalle potenze mandatarie. I confini decisi dall’alto sono una delle cause della conflittualità odierna tra gruppi umani perché costretti entro uno stesso stato o divisi da linee di separazione subite. Da segnalare il periodo tra il Trattato di Sevres (1920) e il Trattato di Losanna (1923) perché la Turchia da soggetto inesistente, con conseguente spartizione del suo territorio tra protettorati (di Inghilterra, Francia, Grecia e Italia) e promesse di futuri stati indipendenti (Armenia e Kurdistan) diventa (dopo aver sconfitto militarmente i greci) uno stato-nazione riconosciuto con i confini vicini a quelli attuali a spese di greci (espulsi) e armeni e curdi che non ottengono il loro stato. Kemal Atatürk con la sua scelta di laicismo modernista e nazionalista turco diventa il più affidabile nell’area per le potenze mandatarie (Regno Unito e Francia).

Dopo la seconda guerra mondiale la progressiva fine del controllo inglese e francese su stati corrotti e inefficienti ha stimolato la diffusione di colpi di stato militari (da Nasser nel 1952 a Gheddafi nel 1969) che avevano l’obiettivo dichiarato di raggiungere una reale indipendenza e di modernizzare i propri stati. Forte ruolo politico dei militari e partito unico, oltre all’incarceramento degli oppositori, “rivoluzione modernista” e tecnocratica (inizialmente) laica sono stati tra gli strumenti principali di tale processo.

Dopo la crisi petrolifera degli anni ’70 e l’inizio del processo di globalizzazione gli stati erano comunque ancora autoritari, clientelari e inefficaci nel distribuire la ricchezza interna in modo più equo; l’insoddisfazione e la protesta sono state raccolte da movimenti di base come le antiche confraternite e relativamente nuovi soggetti tra cui i Fratelli Musulmani che erano da tempo i più presenti e conosciuti. I leader autoritari, in ogni caso appoggiati dall’Occidente o dalla Russia perché mantenevano la “stabilità”, con la loro repressione non sono riusciti comunque a ridurre il consenso ai movimenti sociali islamici, ma hanno favorito anche la crescita di gruppi che non vedevano altra via dell’azione violenta per il cambiamento e per l’affermazione dell’islam come pratica politica istituzionale.

L’appoggio a gruppi combattenti religiosi contro i russi in Afghanistan (da cui è nato Bin Laden e poi al Qaeda), l’intervento militare sempre in Afghanistan e poi lo sconsiderato intervento contro l’Iraq di Saddam Hussein dopo averlo sostenuto con armi e soldi nella guerra contro l’Iran, la ripetizione dell’errore con il sostegno ad alcuni gruppi ribelli in Siria hanno provocato la proliferazione dei gruppi violenti cosiddetti salafiti e la crescita del ruolo di alcuni attori locali quali Turchia e Qatar (a sostegno dei Fratelli Musulmani) e dell’Arabia Saudita (a sostegno dei salafiti). L’esperienza del presidente Morsi in Egitto ha evidenziato la disponibilità della Fratellanza a partecipare alle elezioni (anche perché tendenzialmente le vince) oltre alla incapacità di gestire uno stato; passare da gruppo represso politicamente e auto-organizzato socialmente alla base alla gestione efficace di uno stato necessità tempo per imparare. Lo slogan “l’islam è la risposta” ossessivamente dichiarato “prima”, alla prova dei fatti ha mostrato tutta la sua genericità e l’incapacità dei suoi leader.

Una volta innescate e favorite le dinamiche combattenti i leader degli stati che vorrebbero essere egemoni tendono a dimenticare le lezioni passate (come il caso Bin Laden) e che i soggetti combattenti (o qualcuno di essi) cominciano a decidere autonomamente obiettivi, strategie e modalità di comunicazione grazie al fatto che il sistema mediatico mondiale è sempre più sensazionalistico e contribuisce a rafforzare e a ingigantire la forza e l’importanza dei cosiddetti “terroristi”.

L’ISIS-DAESH si inserisce in questo quadro come esito della dinamiche evidenziate. Il suo riferimento  iconografico (cioè ideale-culturale) dichiarato è arabo-sunnita e rimanda agli inizi dell’islam, inteso come periodo della purezza teologica e della pratica religiosa, e non a caso il leader si è autoproclamato califfo con il nome di Abu Bakr, primo califfo alla morte del profeta, suo amico e compagno dalla prima ora. L’interpretazione dell’islam affermata dal cosiddetto califfo è molto semplificata e parziale, ma siccome si rivolge prevalentemente a giovani maschi impreparati sia culturalmente che teologicamente che si muovono per spinte più psicologiche personali che per altro, l’effetto di giustificazione religiosa di ogni nefandezza compiuta funziona con molta efficacia.

Il tipo di soggetti geopolitici a-statali come il califfato, e Boko Haram in Nigeria per esempio, saranno sempre più presenti e difficili da combattere perché la flessibilità/mobilità (molto sui pick-up) sono la loro arma migliore, difficile da contrastare sia da bombardamenti aerei che da un esercito di terra. Per combatterli sul terreno ci vogliono un esercito organizzato o delle milizie determinate, e costanti nell’azione di contenimento e contrattacco; l’appoggio aereo è di grande aiuto, ma non sufficiente da solo a vincere un soggetto flessibile come Daesh.

Dal punto di vista territoriale il califfato è giunto alla sua massima estensione nel 2016; la sua retorica iconografica può trovare terreno fertile in ambito arabo-sunnita, ma l’Iraq e la Siria, che sono la rivendicazione ufficiale territoriale iniziale, non sono “tutti sunniti” e sono circondati da gruppi umani e stati con altre iconografie anche se si tratta sempre di un ambito musulmano. Ma le differenze sia nazionali che di “etnicità” sono più forti del richiamo al califfato.

A est c’è l’Iran sciita che si è attivato per combattere Daesh sul terreno e per difendere la sua zona di alleanze presidiata dagli alauiti (minoranza musulmana, mezzi sciiti) guidati dal clan Assad; e anche per avvicinarsi ad Israele nel “gioco” delle reciproche minacce.0

A est e nord-est ci sono i curdi sunniti, ma che lottano per avere un loro stato o l’autonomia da decenni (contro i quattro stati in cui sono stati divisi nel 1923), e che grazie alla guerra civile in Siria, combattendo molto efficacemente contro Daesh, sono riusciti non solo a liberare il proprio territorio, ma anche a occuparne e gestirne quasi il doppio. Dal confine con la Turchia a nord al fiume Eufrate a sud-ovest (perfino oltre il fiume in alcuni punti), nel Rojava (occidente, in curdo) hanno messo in pratica la proposta politica di Őcalan (dal 2011) del Confederalismo Democratico; sono l’unico gruppo in tutto il Medio Oriente (fino al Pakistan) che fa una proposta politico-istituzionale laica e “modernista” più ancora “esagerata” della Confederazione svizzera.

A nord c’è la Turchia, sunnita (ma con rilevante presenza alevita, una derivazione sciita) ma che si sente diversa e migliore per l’eredità storica dell’impero ottomano, contro cui gli arabi, “traditori”, hanno combattuto in alleanza con gli infedeli inglesi e francesi. Una Turchia gestita in maniera sempre più autoritaria dal leader musulmano sunnita Erdohan che vede come un estremo pericolo politico la realtà del Rojava curdo-arabo; un pericolo democratico che cerca di presentare invece come terrorismo per giustificare l’entrata a due riprese dell’esercito turco nel nord-ovest della Siria. Nel 2016 nella zona di Jarablus e nel 2018 nel cantone curdo di Afrin. Bombarda solo ogni tanto il Rojava perché la presenza di militari statunitensi e francesi (suoi alleati nella NATO) rappresenta un deterrente.

A ovest, oltre al Libano che ha una realtà socio-identitaria articolata e in difficile equilibrio tra musulmani (sciiti e sunniti), cristiani (maroniti e ortodossi) e drusi, c’è Israele che certo è refrattario (come pure i suoi cittadini arabi-israeliani) al richiamo del califfo. Una qualche disponibilità di ascolto potrebbe esserci tra i palestinesi, vista la sistematica strisciante apartheid attuata da Israele nella West Bank e verso il “campo di concentramento” di Gaza, ma la recente cosiddetta “Intifada dei coltelli” si presenta con modalità e parole d’ordine ben diverse da quelle di Abu Bakr al Baghdadi.

Verso sud c’è la Giordania, inizialmente neutrale, ma dopo l’uccisione del suo pilota catturato e propagandisticamente “bruciato” in una gabbia, ha innescato la voglia di vendetta della sua parte tribale-beduina della popolazione. Infine c’è l’Arabia Saudita, che dopo aver finanziato i gruppi salafiti in Siria (tra cui anche Daesh) e aver atteso di vedere gli sviluppi sul terreno dell’offensiva dell’ISIS-Daesh, nel momento in cui al Baghdadi rivendica di essere il califfo si mette in diretta concorrenza, inaccettabile, con chi custodisce i luoghi sacri dell’islam e pretende che l’interpretazione wahhabbita, che sostiene da decenni con soldi, imam e moschee, sia la migliore e l’unica vera.

Territorialmente Daesh è ridotto a poche sacche di irriducibili (o che sono in trappola), pur avendo provocato e potendo provocare ancora danni e soprattutto sofferenze e morti alle persone nelle zone che controlla.

Dove risulta ancora potenzialmente pericoloso sarà nel sollecitare nel mondo islamico e nei paesi occidentali l’azione violenta e eclatante individuale o di piccoli gruppi: le società tecnologiche sono fragili e soprattutto deboli sul piano delle emozioni che sempre di più sono ostaggio di un sistema mediatico che ha fatto della sensazionalità, della paura e della superficialità informativa la cifra prevalente della propria azione e dei propri contenuti. In questo Daesh e chiunque si ponga su questo piano della comunicazione vince o appare più forte di quello che è in realtà. Questo in aggiunta alla tendenza degli stati democratici a diventare sempre più Security States, come sono stati definiti, cioè stati che riducono gli spazi di protagonismo politico dei cittadini al di fuori delle elezioni, aumentano i controlli sulla vita sociale e individuale dei cittadini, legiferano norme restrittive che trasferiscono sempre più poteri esecutivi-operativi agli organi dello stato (in divisa e segreti) riducendo la trasparenza sui modi di agire per ragioni “di sicurezza”.