La crisi in Libia: tra dichiarazioni, supposte regole e legge del più forte (17gen2020)

Nell’ultimo podcast di dicembre dicevo che l’ONU è ostaggio dei 5 membri permanenti con diritto di veto e che la UE è ostaggio dei nazionalismi degli stati che la compongono. Le cose positive da dire sull’ONU è che dà da mangiare a milioni di esseri umani ogni giorno e che la UE la guerra non la vuole fare e propone sempre di negoziare. Il problema è che la geopolitica internazionale è gestita da pochi stati che agiscono o militarmente o in contrasto coi trattati, che pure hanno firmato, oppure al di fuori delle regole e delle convenzioni che interpretano a loro esclusivo vantaggio. Inoltre anche i caratteri delle personalità di alcuni leader hanno il loro peso.

I fatti recentissimi in Libia e nel confronto Trump-Iran sono stati le migliori prove a sostegno della mia tesi.

Per tranquillizzarvi affermo che nonostante i titoli dei quotidiani e i servizi TV non siamo alle soglie della terza guerra mondiale. E’ economicamente e elettoralmente più conveniente compiere piccole azioni di guerra, sempre ufficialmente in nome della pace, o sostenere attori locali che combattano per “noi”, magari contro “i terroristi” (che sono sempre gli altri). E come al solito un grave evento imprevisto (come l’abbattimento dell’aereo civile ucraino perché il sacro fuoco della vendetta acceca animi e occhi) farà calmare per un poco le acque. Si spera.

La legalità internazionale la fa il più forte o il governo che vuole rischiare nel forzare o interpretare le consuetudini facendo atti di forza e mettendo gli altri stati, cioè i pochi che contano in grado di muoversi, nella condizione di decidere se vale la pena agire con minacce o con azioni militari oppure limitarsi alle dichiarazioni retoriche (a volte non ci sono nemmeno quelle come nel caso della NATO sempre in silenzio contro la Turchia per le tre invasioni della Siria, nel 2016, 2018 e 2019).

Per essere onesti i leader che contano dovrebbero dire che in Libia il generale Haftar è la figura politica più coerente con il dichiarato principio di “stabilità” della cosiddetta comunità internazionale (cioè sempre i pochi stati che contano): meglio un leader “forte” che duri nel tempo (per i contratti economici e per il controllo dei migranti) che non sarebbe diverso da al Sisi in Egitto, dai monarchi del Golfo Persico, dallo stesso Erdohan, se quest’ultimo non fosse sempre più preso dalla presunzione rivendicativa neo-ottomana che crea qualche problema di immagine e nei fatti alle democrazie occidentali sue alleate.

Regimi autoritari come alcune monarchie del Golfo Persico, la Russia, l’Egitto appoggiano Haftar; con l’ambigua posizione della Francia che comunque ha riconosciuto geo-politicamente la leadership di Haftar (oltre a dargli discretamente qualche supporto concreto), e gli USA di Trump che non prendono posizione, ma il cui presidente telefona ad Haftar, anche perché va ricordato che il generale è diventato una ventina di anni fa un cittadino statunitense.

L’Unione Europea, nelle sue figure istituzionali e coerentemente l’Italia, rimane nei limiti formali delle dichiarazioni dell’ONU: cioè riconoscimento del governo di unità nazionale guidato da al Sarraj, divieto di fornire armi ai contendenti, cessate il fuoco e colloqui per una soluzione politica negoziata.

Banalmente lo stato di fatto è che alcuni membri dell’ONU non rispettano tali regole, anzi agiscono apertamente contro le dichiarazioni dell’ONU (che usano opportunisticamente se gli fa comodo come l’Egitto che protesta quando la Turchia agisce a favore di Tripoli quando loro lo fanno a favore di Haftar!). Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, unico organo abilitato ad intervenire, nemmeno si riunisce perché USA, Russia (e Francia) bloccano perfino la discussione del tema Libia.

In questo contesto la situazione al momento vede le forze del generale Haftar che, dall’offensiva lanciata nell’aprile del 2019, ha circa 4/5 della Libia sotto il suo controllo; anche se molte zone sono desertiche o poco abitate le sue forze sono le uniche che possono intervenire velocemente ed essere più consistenti di chi resiste. Il che vuol dire che controlla la gran parte dei pozzi petroliferi e di gas, che continuano a produrre fonti energetiche (con un ruolo importante dell’ENI italiana), che vengono regolarmente vendute dalla NOC, l’ente di stato con sede a Tripoli a cui unicamente si riconosce il diritto di vendere e incassare i soldi i quali ….. venivano passati anche ad Haftar e a pagare pensioni e stipendi della Cirenaica che è la sua base; almeno fino ad aprile 2019 quando è iniziato l’attacco del generale a Tripoli.

Questa è la questione di fondo: navi “internazionali” bloccano e rimandano indietro le petroliere che hanno provato a rifornirsi da Haftar pagando direttamente a lui. Si tratta di una guerra per la spartizione dei soldi del petrolio e gas che per la Libia, poco abitata, sono tanti. Finché non si vede scritto in eventuali accordi quanti soldi andranno alla Cirenaica e che ruolo istituzionale può avere Haftar nella futura Libia, non c’è speranza che siano firmati oppure che, anche se sottoscritti, durino nel tempo. I “nostri” interessi (cioè quelli dell’ENI”) si trovano prevalentemente nella Tripolitania (nell’ovest del paese), dove si trova anche il gasdotto che porta direttamente in Italia il gas libico; e siccome i gasdotti non si possono muovere la Libia può esportare gas solo verso o attraverso l’Italia. A meno che la Libia decida di iniziare a congelare il gas e a venderlo tramite navi, ma ci vogliono investimenti e tranquillità politica per farlo.

Haftar assedia Tripoli e le città o le zone delle milizie locali che appoggiano al Sarraj; soprattutto le milizie di Misurata, le più forti, e quelle di Zintan. In dicembre sembra che le forze del generale siano riuscite ad essere più efficaci grazie anche all’aiuto dei mercenari russi di una compagnia privata, la Wagner. Vedete? Formalmente la Russia può dichiararsi a favore dei negoziati e del cessate il fuoco, perché dice che i mercenari sono altra cosa e la Russia non c’entra. A questo punto il presidente turco Erdohan fa approvare dalla maggioranza volontariamente asservita del parlamento turco (dopo che ha incarcerato molti deputati dell’opposizione) l’invio di armi, milizie (quelle siriane [e jihadiste] di Idlib in Siria, che sono sotto attacco di Assad e dei russi) e militari turchi, definiti “istruttori”. Contro le dichiarazioni dell’ONU,  contro lo statuto della NATO, e in cambio di un accordo con Sarraj sullo sfruttamento dei fondali del Mediterraneo che esclude gli interessi legali riconosciuti di Cipro e della Grecia.

Il paradosso è che al Sarraj è sostenuto da milizie musulmane idealmente vicine ai Fratelli Musulmani, che Haftar definisce terroristi islamici, dalla Turchia musulmana e dal Qatar emirato musulmano del Golfo Persico, mentre il generale è sostenuto dall’Egitto musulmano, dagli Emirati e dall’Arabia Saudita musulmani oltre che indirettamente e discretamente dalla Russia (cristiana ortodossa e anche atea), oltre che ancor più discretamente da USA e Francia che storicamente si sono proposti e ancora pretendono di essere i migliori esempi di separazione tra stato e religione in politica. E la recente dichiarata conquista della città di Sirte sembra sia dovuta al cambio di schieramento della Brigata 604 che ha consentito ad Haftar di avanzare; Roberto Bongiorni sul Sole24 ore del 10 gennaio ricorda che la Brigata 604 ha miliziani salafiti, più rigidi nell’interpretazione dell’islam rispetto ai Fratelli Musulmani (appoggiati dalla milizia di Misurata) e che quindi Haftar dovrebbe considerare ancor più “terroristi islamici” degli altri. Ma Haftar già usa alcune milizie salafite tra le sue truppe.

Visto che Tripoli non gli dà i petrodollari come fa Haftar a combattere? Russia, Egitto (e un po’ la Cina come semplice venditore per esempio di droni, come vende i gommoni ai trafficanti di migranti) ci mettono le armi e Arabia Saudita e Emirati ci mettono i soldi. La Francia qualche supporto tecnologico sofisticato. Dalla parte di Tripoli la Turchia ci mette le armi e il Qatar i soldi.

Così ora la Libia è divisa in due parti, anche tre se consideriamo che i territori del sud sono in realtà controllati dalle milizie tuareg a sud-ovest e dalle tribù localmente nomadi a sud-est che decidono di allearsi con il maggior offerente di vantaggi economici. Dal mio punto di vista la gabbia mentale geopolitica della cosiddetta “integrità territoriale” crea sempre più danni e ricadute negative soprattutto sulla popolazione civile; in questo caso è l‘idea che la Libia debba o possa essere solo “una” per essere stabile e pacifica,  non tenendo conto, come al solito, della storia, della geografia, dei gruppi umani che vivono in quello specifico territorio. Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, rispettivamente autonome che si dividono la torta della rendita petrolifera potrebbero essere più disposte a cooperare in una Libia federale o, meglio ancora, confederale.

USA-Iran e divisioni tra stati musulmani, tra fatti e narrazioni (17gen2020)

In Libia il paradosso è che il conflitto interno ad un paese musulmano è un conflitto con attori sostenuti da forze esterne, molte delle quali musulmane, ma divise tra loro in campi opposti. Questo in netto contrasto con l’immagine ancora diffusa a livello di percezione popolare in Occidente di un islam monolitico che agisce in modo compatto. Il sistema mediatico non può più rappresentare il pericolo musulmano come unitario e anti-Occidentale come ha fatto per anni dopo l’attacco alle Torri Gemelle a New York nel 2001 e dopo gli attentati terroristici in Europa.

In realtà è in atto già da qualche decennio uno scontro interno al mondo musulmano che ha a che fare proprio con la questione del rapporto tra politica (e società) e religione. Il complesso rapporto con la cosiddetta modernità ha voluto dire per il mondo musulmano, nel suo complesso e nelle sue molto differenziate sfaccettature, come risolvere istituzionalmente, giuridicamente e nelle pratiche sociali il rapporto tra la politica e una religione che fa riferimento ad un dio unico e quindi ad un’unica pretesa verità. Verità che è stata sempre interpretata dagli esseri umani, quasi sempre maschi, e in contesti storici che necessariamente cambiano nel tempo.

I tre principali soggetti geopolitici di questa dinamica, va sottolineato moderna, nel mondo musulmano sono 1) l’Arabia Saudita (appoggiata dalle altre piccole monarchie del Golfo, anche se non tutte) e la sua interpretazione dell’islam (anche politico) secondo il conservatorismo wahhabita e le tradizioni beduine, 2) la proposta “moderna” dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, nata in Egitto e quindi post coloniale e in rapporto con lo stato moderno; in una prima fase violenta contro le élite corrotte e filo occidentali, oggi più disposti verso le elezioni nei paesi musulmani dove sanno di poter vincere 3) la visione teocratica iraniana di Khomeini che dopo l’estromissione dello scià Reza Pahlevi nel febbraio 1979 ha teorizzato e realizzato con mezzi brutali un islam sciita che abbandona il tradizionale distacco dalla politica e si attiva invece come modello di stato islamico, non a caso repubblicano e non monarchico-beduino. A titolo di esempio: in Arabia Saudita le donne sono escluse dalla soggettività politica e sociale pubblica, mentre in Iran si vota senza discriminazioni di genere dai 16 anni e hanno anche ruoli politici pur se tutte devono obbligatoriamente coprirsi in pubblico.

Nelle dinamiche geopolitiche Arabia Saudita, Emirati, vari leader militari (anche arrivati al potere con colpi di stato) sono alleati validi per l’Occidente se hanno un potere interno stabile, se fanno affari con noi e costruiscono grattacieli (ciò che chiamiamo “essere aperti alla modernità”), se sono affidabili (cioè non cambiano bandiera e restano stabilmente nostri alleati); durante la Guerra Fredda con l’URSS portare dalla propria parte gli stati che man mano diventavano indipendenti era uno degli sforzi principali nella geopolitica. Oggi la preoccupazione rimane la stessa e gli stati che si propongono con una visione indipendente (non importa quale sia e quanto sia credibile) sono “instabili” e tendenzialmente nemici. Di volta in volta e in generale lo sono stati (e alcuni ancora lo sono) la Libia di Gheddafi, la Corea del Nord, il Venezuela di Chavez e poi di Maduro, l’Afghanistan dei talebani, l’Iran di Khomeini, per fare qualche esempio.

Il caso Iran ha però avuto un risalto particolare perché la sua proposta politica è entrata in rotta di collisione diretta con l’Arabia Saudita rinfocolando la primaria divisione tra sunniti e sciiti che ha spaccato da quasi subito la comunità musulmana dopo la morte di Maometto proprio sulla questione di chi fosse il più adatto a “guidare i credenti”: chi era del sangue del profeta (cioè Ali e quindi quelli dalla sua parte: scia Ali, gli sciiti) o chi era scelto dal consenso della comunità come da tradizione e costume (la sunna)? Questione complicata modernamente dal fatto che la proposta iraniana si appoggia su istituzioni repubblicane mentre i custodi dei luoghi sacri e i suoi vicini mantengono strutture monarchiche assolutiste.

Per logiche di schieramento geopolitico, di convenienza economica e di visione del mondo l’Iran, diventata una repubblica teocratica in pochi anni, non poteva che essere “nemico” dell’Occidente. Così nemico che abbiamo appoggiato Saddam Hussein che gli ha fatto la guerra per 8 anni dal 1980 al 1988 senza riuscire a sconfiggerlo; un Saddam Hussein diventato a sua volta nemico pubblico numero uno per sua protervia e per motivazioni false e pretestuose dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York nel 2001 in cui non centrava niente.

Per l’Iran gli USA sono diventati il satana mondiale, responsabile di tutti i mali del mondo soprattutto nel Medio Oriente grazie anche ai suoi protetti Israele e Arabia Saudita; per gli USA l’Iran è diventato la fonte di pericolo costante per tutto il Medio Oriente, sobillatore di rivolte e finanziatore di atti terroristici. Dal sequestro dei diplomatici statunitensi a Teheran (per il quale gli USA non smetteranno mai di volersi vendicare) e dalla guerra di Saddam Hussein (per la quale l’Iran non perdonerà mai gli USA) il confronto-scontro è continuato con azioni di guerra limitate, attentati, minacce reciproche, attacchi digitali e qualche raro caso di negoziazione; con effetti collaterali indesiderati (così li chiamano), come l’abbattimento di un aereo di linea iraniano da parte di una nave militare USA nel Golfo Persico il 3 luglio 1988: 290 vittime civili.

La questione del nucleare iraniano (solo civile dicono loro, per farsi le bombe dicono gli USA e Israele) è diventata la cornice (ideologica e fattuale) di questo scontro e della narrazione prevalente dei mass media mondiali. In suo nome prima dell’accordo sul nucleare del 2015 le sanzioni economiche decise dal’ONU hanno colpito la rendita petrolifera iraniana; dopo l’accordo l’Iran si aspettava un alleggerimento delle sanzioni fino alla loro scomparsa, ma Trump si é ritirato dall’accordo e ha aumentato le sanzioni, operando lo stesso tipo di ricatto che ho descritto nel mio precedente  podcast: chi fa affari con l’Iran (o compra il suo petrolio) non commercerà più con gli USA. La UE ha cercato di trovare una via d’uscita (anche perché non ha rinnegato l’accordo con l’Iran), ma il ricatto economico della più ricca economia mondiale divide gli stati “sovrani” della UE che puntano solo ai propri cosiddetti interessi nazionali. La situazione economica interna dell’Iran peggiora sempre più e gli USA di Trump sperano con questo che il regime degli ayatollah crolli.

L’uccisione mirata in Iraq da parte degli USA del generale Soleimani ritenuto, per prestigio e ruolo, secondo solo alla Guida Suprema Khamenei è stato in questo senso in continuità con lo scontro in atto, anche se di livello molto alto; più in relazione con la personalità egocentrica di Trump che per una valutazione razionale della sua utilità. Una uccisione presentata dall’ambasciatrice statunitense all’ONU in una lettera al Consiglio di Sicurezza come “un atto di auto-difesa”, così riporta Riccardo Barlaan sul Sole24ore del 10 gennaio. Un’autodifesa fatta a migliaia di chilometri di distanza dal proprio territorio, in un paese terzo senza nemmeno avvisarlo; una soggettiva interpretazione del cosiddetto diritto internazionale, fatta dal paese militarmente più forte del mondo.

Morto un capo ce n’è pronto subito un altro, probabilmente di minor qualità di Soleimani. E paradossalmente mentre la ritorsione iraniana è stata più morbida di quanto ci si potesse aspettare dopo le grandi manifestazioni di massa di cordoglio in Iran per i funerali di Soleimani, cinicamente si deve dire che l’abbattimento per errore di un aereo di linea iraniano da parte della propria contraerea (che si aspettava la contro-ritorsione USA) è stato un elemento calmierante del conflitto anche perché ha rinvigorito una opposizione interna al regime che già ha manifestato più volte in passato pur subendo pesanti repressioni.

Per concludere la situazione conflittuale dei casi dell’Iran e della Libia non è cambiata in modo significativo anche se alcuni eventi alzano il livello dello scontro (soprattutto emotivo e mediatico) e aumentano la conseguente possibilità che non si riesca a controllare la situazione o che le dinamiche non si auto-riequilibrino come spesso fanno.

I pochi attori in gioco rimangono gli stessi con le stesse caratteristiche. Fattori nuovi possono venire solo da nuovi approcci geopolitici di cui però non si vede traccia nei leader attuali, da eventi imprevedibili che danno una scossa alle dinamiche e magari da qualche mossa di Trump che vuole essere rieletto presidente a novembre, è sotto impeachment, e quindi ha bisogno di gesti simbolici, fatti e dichiarazioni che sostengano la sua immagine di leader forte e vincente che piace tanto ad una bella fetta di elettori bianchi statunitensi (maschi e femmine) convinti che gli USA abbiano un “destino manifesto” (voluto da dio) di guidare il mondo.

In tutto questo sanzioni economiche per violazione dei diritti umani, troppe condanne a morte, repressione e incarceramento di gruppi etnici, crimini ambientali, ecc. non sono mai utilizzate.